mercoledì 28 ottobre 2009

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón /

Milano, 21 ottobre 2009

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Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 21 ottobre 2009
Testo di riferimento: J. Carrón, «Esperienza: lo strumento per un cammino umano», Assemblea
Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione, La Thuile, agosto 2009, suppl. a Tracce,
n. 8, settembre 2009, pp. 8-21.
• Canto “Le stoppie aride”
• Canto “Il mio volto”
Per far fruttare al meglio il tempo di questo gesto vi chiedo di fare interventi brevi, sintetici. Tante volte, moltiplicando i dettagli, non si capisce che cosa esattamente vogliamo dire; inoltre vi invito a non finire il vostro intervento senza un giudizio: per aiutarci tutti a stare sull’esperienza. Anche don Giussani, in Qui e ora, a un certo momento dice che è meglio se gli interventi li portiamo scritti,
perché aiuta tutti a una sobrietà e chiarezza nell’intervenire (cosa che poche persone sanno fare a braccio). Questo è un sacrificio che dobbiamo fare per aiutarci.

Ho accompagnato don Giorgio Pontiggia in questi ultimi giorni; da sabato mattina fino a lunedì quando è morto era senza conoscenza, peggio che nello stato di Eluana perché non reagiva neanche al dolore. Faccio il paragone con Eluana, perché quando è venuto fuori il tuo giudizio su quel caso ero d’accordo con te, addirittura ero ideologicamente d’accordo perché mi davano fastidio certi atteggiamenti pro-life; e pensavo di aver fatto esperienza. Ma quando mi sono visto davanti don Giorgio in quello stato, la tentazione forte era di pensare che fosse finito, che non fosse
più una persona. Ho detto: «Speriamo che muoia in fretta, perché non c’è più». Quindi mi sono accorto che il mio giudizio era quello del papà di Eluana! Ma questa volta, a differenza che con Eluana, questo è uno dei più grandi amici della mia vita e quindi non ho potuto fermarmi a quel giudizio, ho dovuto fare tutto il percorso fino all’esperienza elementare e chiedermi se questo era veramente un essere finito o non era il mio amico don Giorgio. E lì ho fatto veramente l’esperienza
di percepire che l’uomo è mistero che vive, qualunque sia il suo stato: proprio ciò che hai detto in quel volantino. Ora, il giudizio che do è: io non avevo fatto esperienza, avendo pensato di averla fatta. Tu ci avevi detto: «Il volantino nasce dal mio disagio». Ma io nel tuo disagio non mi ero immedesimato. Allora il giudizio che do è che spesso noi pensiamo di fare esperienza, ma non la facciamo. E non siamo neanche onesti nel dirlo.


Tante volte c’è una distanza tra quello in cui ci imbattiamo e noi. Perché l’esperienza – dice don Giussani – è così decisiva? Perché la realtà si fa trasparente nell’esperienza, perciò se noi teniamo quella distanza, in fondo non si svela la realtà davanti ai nostri occhi, e perciò possiamo dire delle cose pur giuste, ma non capiamo il giudizio ultimo, il valore del giudizio ultimo. Tanti hanno
sentito quel volantino, in fondo, come non necessario, perché hanno immaginato di poter stare davanti a quel fatto senza aver bisogno di quella Presenza. Se uno non entra nell’esperienza, pensa di capire, ma riduce. Per questo all’Assemblea Internazionale Responsabili dicevo che «non ci basta sapere che cosa è il matrimonio perché stia in piedi, non ci basta sapere che cosa è il lavoro perché
non diventi una tomba». Se uno vive l’esperienza si rende conto che questo non gli basta. E noi tante volte usiamo la parola esperienza, ma in fondo non è esperienza.


Anch’io volevo tentare un giudizio con il tuo aiuto. Di fronte alla salma di don Giorgio alla camera ardente, ieri è emerso in tutta la sua potenza il problema della vita. Stando di fronte a un morto, a maggior ragione se gli vuoi bene, l’evidenza è: è impossibile che sia don Giorgio, non è solo questo don Giorgio. Allora sono andata a rileggere che cosa dice il Gius sulla morte. Quando un uomo si osserva – dice nel quarto capitolo de Il senso religioso –, coglie in sé una duplice realtà, la realtà
materiale (che lui definisce come «misurabile e divisibile») e quella realtà che non è il corpo. E
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sulla morte poi fa proprio un corollario e dice: «Il fenomeno morte – così come emerge all’esperienza – è spesso associato nella Bibbia a un’espressione di grande efficacia: corruzione.
[...] Se però in me c’è una realtà che non è divisibile, misurabile o essenzialmente mutabile, a essa l’idea di morte, così come l’esperienza me la mostra, non è applicabile». Ed effettivamente è vero, perché davanti al don Giorgio ho capito perfettamente che è così. «Occorre avere il coraggio di non temere questa logica. La realtà intera dell’io come appare dall’esperienza non è riconducibile
nteramente al fenomeno della corruzione; l’io non esaurisce la sua consistenza in ciò che di lui si vede e constata morire. C’è nell’io qualcosa di non-mortale, di immortale! Parlo di coraggio, perché è rilevabile nell’uomo una debolezza grande per cui gli occorrerà un sostegno che lo conforti nella paura endemica che lo colpisce, in quanto l’immagine totale della sua vita è tentata di giocarsi nel suo aspetto visibile e materialmente sperimentabile». Che è il giudizio umano con
cui oggi è iniziata la liturgia: di fronte alla morte dice che non c’è rimedio. Allora, in un momento di prova quella cosa che tu dici agli Esercizi della Fraternità sul fiore della speranza è, credo, la posizione che bisogna avere presente: resurrectio Domini spes nostra è il punto di sintesi del
percorso che un uomo fa, che un cristiano fa, che noi facciamo, che la nostra esperienza e che il Gius ci ha portato a fare nella vita, anche di fronte alla morte. La cosa interessante è il passaggio che fai tu dopo.


Qual è il passaggio che io faccio?

«È soltanto perché Cristo è risorto, perché c’è, che adesso possiamo guardare in faccia la grande domanda». Questo è il punto.

Io vorrei fare il paragone tra quello che hai detto e quello che mi scrive uno, nei contributi che sono arrivati per stasera: «Tu hai detto che l’esperienza non è reagire alla realtà, ma giudicarla, che il metodo che ci insegna il movimento è dunque una tensione a giudicare tutto; ma il tentativo di giudicare ogni cosa che accadeva è stato come uno sforzo che si è rivelato nel tempo una cosa
strana, una fatica. Come facciamo dunque a educarci a un metodo senza che questo diventi uno sforzo volontaristico?». Io domando davanti a quello che hai raccontato tu: fare questo lavoro è stato uno sforzo volontaristico? È stato qualcosa di appiccicato? È stato qualcosa di estraneo alla tua esperienza? O ti veniva dall’intimo? Non è stato uno sforzo, ma una liberazione arrivare fin lì!
Dobbiamo smetterla di dire delle cose che non corrispondono all’esperienza, perché l’esperienza èquello che hai raccontato: che uno, davanti a un amico morto, non può evitare di andare a trovare una risposta, altrimenti vuol dire che se ne infischia di quel che succede all’amico; e se ne infischia di sé e della domanda di senso che ha. Se l’esperienza non è questo, a me dell’esperienza non interessa nulla. Ma se l’esperienza è questo, fa parte del percorso umano che desta in me un fatto
come quello che abbiamo vissuto oggi: uno non si può fermare, fino a giudicare se quella salma è tutto o non è tutto. La fatica è non giudicare; il problema è come uno riesce a stare con tutto il suo umano davanti a una cosa così senza giudicarla. Tanto è vero che quando la gente è disperata perché non riesce a stare davanti alla morte fa molta più fatica. Ma noi non ci rendiamo conto di cosa ci è capitato nella vita. La fatica è il contrario: dover stare davanti a una cosa così senza possederne il senso, che è quel che ti fa vedere tutta la contraddizione, tutto lo scontro con l’esigenza umana di significato che hai. Questa è la fatica, non quello che noi chiamiamo fatica.


Di recente sono avvenuti fatti molto drammatici, di fronte ai quali sono rimasta sbalordita per quello che si è mosso: la certezza e il cambiamento dei miei amici più coinvolti, le domande nate in persone non del movimento e il dialogo che ne è seguito. Mi sono dovuta chiedere: «Ma chi sei Tu che stai facendo tutto questo?». E questa domanda è giunta fino all’ultima implicazione: «Ma chi sei Tu che stai facendo me adesso?». E così ho sorpreso come un’evidenza quello che tu ci dicevi e
che io avevo sentito invece come una cosa lontana dalla vita quotidiana. E questo ha
immediatamente cambiato il mio modo di comportarmi con le persone. Però – e qui c’è la riduzione – mi sono accorta che nel lavoro ero bloccata esattamente come prima. Quindi ho detto: «Ma se non cambia anche qui, allora quella che tu hai chiamato esperienza non è un’esperienza». Mi sono accorta che avevo un’immagine del mio cambiamento come se avessi dovuto far qualcosa di
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diverso, oppure essere più intelligente nel lavoro; e invece quello che è successo è un’altra cosa, cioè che io sono come stata smascherata perché quel che ho visto (quella possibilità di un’umanità più grande, più ricca) mi ha costretto a rendermi conto che sono fatta per qualcosa di più grande.

Tu da tutto questo che cosa hai imparato? Il giudizio!
Il giudizio è che mi sono accorta che pur avendo fatto un’esperienza – perché quell’implicazione che per me è stata un’evidenza è un’esperienza –, il giorno dopo stavo già riducendo tutto a un’immagine di quello che questo avrebbe dovuto cambiare.

Racconto anch’io di don Giorgio, perché a me è capitato questo: l’ho seguito nell’agonia, anche dopo il decesso sono stato molto davanti a lui. Ed è capitato questo: a un certo punto, non avevo più niente da dire, mi sono addirittura stufato – come tu dici alla Giornata d’inizio anno – di stargli di fronte, e ho provato un dolore pazzesco: «Questo è mio padre, non ho più niente da dire?». Mi
sono accorto che in realtà in quel momento lì io lo stavo tradendo, stavo tradendo quello che lui è stato per me per tutta la vita, perché lui mi ha sempre rimandato a Cristo. In quel momento io ero di fronte a don Giorgio dimenticando Chi fa don Giorgio e Chi fa me in questo momento. Non ero di fronte a Cristo e quindi non lo stavo seguendo.

E tu da cosa lo sapevi? Da che cosa sapevi che tu stavi tradendo? L’hai detto!
Perché mi stufavo, perché non mi bastava.
Non è che non abbiamo riscontri nell’esperienza: era stufo! Abbiamo riscontri nell’esperienza quando smettiamo di fare delle astrazioni e parliamo dell’esperienza; sorgono tutti i segni che ci aiutano a fare la strada, perché non è che se io, a un certo momento, mi stacco dal reale e vado alla mia immagine, non succede niente: mi stufo, mi stufo! Dobbiamo essere leali così con l’esperienza,
perché poi ci arrabbiamo con non so che cosa, ma lì le spie incominciano ad accendersi. Uno si può arrabbiare, un altro può essere grato perché è l’indicazione della strada da fare.


Posso dire che cosa ho imparato? Lì ho capito cosa vuol dire che noi confondiamo l’intenzione di seguire con il seguire realmente. Mi sembra di capire che la differenza sta tutta nel fatto che l’intenzione di seguire è che io seguo una mia immagine, il seguire realmente è che seguo una presenza che è lì.

E tu come capisci la differenza? Stufandoti. Non è che tu adesso devi fare un’analisi (creando addirittura un altro problema aggiunto), no, è che tu, appena sbagli, hai un segno dello sbaglio.
Questo è un aiuto per vivere o è una difficoltà, un altro ostacolo?

È un aiuto.
Tu parli del giudizio come contraccolpo dell’essere. Volevo raccontare un fatto per vedere se ho capito. Sabato scorso mi ha raggiunta in classe la notizia che era morto il nonno di una mia alunna – che tra l’altro gli fa da padre, quindi è un rapporto molto particolare – ed è stato un dramma, come si può immaginare. Subito i ragazzi mi hanno chiesto: «Prof, dov’è il positivo di cui lei ci parla, dove sta la speranza di cui lei ci parla?». E non mi mancavano ragioni o testimonianze
(perché è vero, ci sono tante testimonianze e tante ragioni che uno può dare di fronte a questi fatti), ma poi a un certo punto una mia alunna mi ha chiesto: «Alla fine delle lezioni ci vediamo per pregare?». E alla fine delle lezioni si sono riuniti trentacinque ragazzi, non quelli soliti che vengono con me, anche ragazzi dichiaratamente atei o dichiaratamente ostili alla proposta.

E perché secondo te?

Quando li ho visti tutti là ho detto: «Dov’è il positivo?». Questi ragazzi erano mossi – sono stati fatti e quindi prima della mancanza c’è una presenza – perché qualcuno li ha voluti e perché tutto il loro dolore e tutta la loro confusione, tutto il mio dolore e tutta la mia confusione, non hanno tolto quella Presenza. Il segno di questo, cioè il contraccolpo dell’essere, è stato che io sono uscita
dalla scuola contenta.

Ma immagina dei ragazzi che non c’entrano niente con la fede, i quali davanti a una cosa così pregano, cioè che subito vedono l’implicazione ultima del Mistero in quello che vivono.
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Aggiungono qualcosa di appiccicato? O è qualcosa che sorge dall’esperienza che fanno il mettersi davanti a qualcosa di più grande?


È sorto dall’esperienza.

Questi hanno fatto uno sforzo volontaristico? Facciamo costantemente il paragone con quello che sorprendiamo negli altri: vediamo un modo di vivere, anche da quelli da cui non ce lo aspetteremmo, che arriva fin lì, fino all’implicazione ultima. Grazie.

Mi è capitata questa cosa. A fine luglio faccio un test di gravidanza e il risultato era positivo, e abbiamo festeggiato, a me non è mai capitato di essere così contenta.
Ma il tuo giudizio è stato uno sforzo volontaristico?
No. Ho letto il test.
Vedete? Per il tuo desiderio il test è stato un peso o una liberazione?
Una liberazione.
Uno sforzo?
Nessuno sforzo.
Questo si chiama giudicare o no?
Assolutamente sì. Poi dopo passano i giorni e capisco che non va proprio come pensavo io; devo essere sincerissima, la preoccupazione e l’ansia si sono fatte avanti, eccome. L’ecografia segnala enormi problemi e il medico mi convoca in ospedale, dove trovo tre estranee. Gelo totale. Però anche nel gelo capivo che la circostanza mi era data: a un certo punto, hai come il desiderio di usarla, che diventi tua l’esperienza, quindi che tu ci penetri nel profondo. A me ha colpito perché dall’estraneità che c’era all’inizio lì dentro è come sgorgata piano piano la familiarità di tratti che andavano ben oltre quelle tre persone lì; per cui, quando sono uscita, non ho potuto – veramente, lo dico proprio nella drammaticità di quel momento lì – non dire questo: «A me corrisponde molto di più, perché è una presenza inesorabile che è dentro nel rapporto con mio figlio». Il rapporto con
mio figlio non può essere il prodotto degli antecedenti biologici che mi spiegano: «È meglio, la natura ha già interrotto quello che…». No, è questa presenza inesorabile che determina in ultimo il rapporto con mio figlio e mi fa dire: «Questo mi corrisponde e quando sono a casa da sola Tu sei come me».

È successo un fatto: mia figlia la sera del suo onomastico si è arrabbiata perché mi ero attardata in una faccenda familiare un po’ complicata, ed è andata a letto piangendo. Io, scossa, sono partita per recuperare la situazione e sono stata con lei cinque minuti in silenzio. Mentre ero lì, però, è emersa da dentro di me un’esigenza molto più profonda del recuperare una situazione: desideravo
essere totalmente presente a me e a lei come se lì si giocasse tutta la vita, che non può essere solo un susseguirsi di provocazioni a cui rispondere e basta. Questo ha reso il mio abbraccio più pieno e corrispondente a me e a lei. Tutto ciò mi ha mosso ad approfondire quello che tu con insistenza ci stai dicendo, e ho riletto più volte la Giornata d’inizio anno con il desiderio di scorgere nelle parole il loro contenuto. È impressionante che mi soffermavo su tanti passaggi che prima non
avevo colto. Di questo fatto mi colpisce la dinamica: entrando in un particolare, ti accorgi di una crepa nel cuore che ti spinge ad andare più al fondo, ma questa crepa nasce e si alimenta da un fatto eccezionale, come la scorsa Scuola di comunità, da cui sono uscita totalmente ribaltata (perché ho percepito una cosa immensamente più grande rispetto a ciò che potevo aver capito, e questo è segno inconfondibile del Mistero). Non sono tornata a casa come prima, ma arricchita dal desiderio di scoprire di che cosa si trattava, verificandolo nei giorni successivi. Mi sono accorta di essere cambiata, per due ragioni. Primo: tempo fa un fatto così o passava inosservato oppure veniva registrato da me, ma rimaneva come sospeso, perché lo giudicavo una particolare sensibilità o un momento di espansività sentimentale; adesso quel fatto accaduto è stato l’emergere del cuore, e quindi il cammino esaltante alla riscoperta dell’io. Il secondo motivo per cui mi sono
accorta di un cambiamento è stato che comincio a scorgere di più il Mistero e la Sua compagnia attraverso quella crepa del cuore che Lui provoca e approfondisce attraverso fatti eccezionali come
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l’essere qui alla Scuola di comunità. Desidero anch’io sinceramente rimettermi a imparare ciò che penso di aver già capito e che quindi ho già chiuso, perché del già saputo non me ne faccio niente per vivere.
«Un cammino esaltante che mi fa scorgere sempre di più il Mistero».
Il mese scorso hanno ricoverato mio figlio in ospedale per fare degli accertamenti relativi alla sua malattia. Sono entrata in ospedale e ho guardato a quella settimana che avevo davanti come un’occasione perché potessi verificare la mia fede, con il desiderio di vedere come in quei giorni il Mistero mi sarebbe venuto incontro e con il desiderio di fare esperienza del mio rapporto con Lui.
Ho pregato ogni giorno la Madonna e don Giussani, e sono stata davanti a quello che succedeva con tutta me stessa, con il mio dolore, con tutti i miei desideri e le mie domande senza perdermi nulla e chiedendo a Cristo di farmi vedere che Lui vince su tutto. E inaspettatamente è stato per me possibile guardare e amare tutto: mio figlio che faceva gli esami, la carne sofferente dei bambini
che stavano con noi e il dolore delle loro madri. È successo quasi un paradosso: ho fatto tanta fatica, la diagnosi che ci è stata fatta è stata peggiore di quello che ci aspettassimo, ho visto ogni giorno il dolore innocente, eppure ho vissuto una pienezza e una felicità inimmaginabili e questo perché ho chiesto in modo radicale il rapporto con Cristo, in ogni cosa che facevo. Mi sono accorta
che più della faccia di mio figlio e delle persone che amo, più della loro e della mia salute io desidero Cristo e che solo nel rapporto con Lui è possibile tutta quella soddisfazione affettiva che cerco; e per me ammettere questo è sempre un atto di grande coraggio. Posso dire di aver fatto esperienza perché sono ancora più certa che solo Cristo riempie il cuore, nient’altro, nessun affetto umano e nessuna salute, e che tutto può essere amato solo se è segno di Lui. Tornata a casa, è
cambiato tutto, la realtà era trasfigurata: è cambiato il rapporto con mio marito, con l’altro mio figlio e con chi incontravo.
Grazie.
Ti racconto un fatto e do un giudizio che credo c’entri con la vicenda dell’esperienza. Il fatto è questo: sabato abbiamo organizzato – io e alcuni amici – una serata a cui avevamo invitato don Vergani e i suoi amici preti spagnoli a venire a fare una chiacchierata con noi. Alle sette e mezza mi chiama e mi dice: «Don Giorgio si è aggravato ulteriormente, non riesco a venire». Io ho avuto
un po’ un contraccolpo, perché c’era tutta l’attesa ovvia di questo incontro. Forse per l’insoddisfazione, non mi è bastato fermarmi lì, e immediatamente è stato il riconoscere la modalitàcon cui il Mistero in quel momento stava entrando. Che Dio stesse prendendo in quelle ore lì uno di noi per me era l’evidenza della sua Presenza. Perciò mi è sembrato che la maniera più adeguata, per me, di stare davanti al Mistero...
...Cioè alla malattia e all’agonia di don Giorgio...
...fosse dire una preghiera: «Diciamo un Rosario insieme». Mi ha colpito – e qui è anche un giudizio che ti chiedo – perché da sabato a oggi ho avuto due riscontri completamente diversi e mi ha impressionato: i nostri dicevano in gran maggioranza che la serata era andata male, e gli “invitati” (tra cui persone con tanti pregiudizi verso il movimento) erano contentissimi. Mi è venuta in mente la tua battuta che con gli stessi ingredienti si fan due minestre diverse... Il giudizio
che do è duplice: decisivo non è quello che succede ma quanto io sono leale con ciò che desidero; e non bisogna lasciare che l’immagine – anche giusta – che ho prevalga su ciò che accade.

Vedete? La stessa identica realtà vissuta in due modi assolutamente diversi. I nostri, avendo un’immagine di come sarebbe dovuta essere la serata, hanno perso il reale; gli altri, siccome non avevano nessuna immagine perché era la prima volta che andavano, sono rimasti colpiti. Forse ci conviene imparare quello che pensiamo di sapere...

Oggi accompagnando don Giorgio durante il corteo mi venivano ondate di commozione con le immagini di lui in tutti questi anni. Questa cosa mi colpiva perché mi confermava quello che avevi detto alla Giornata d’inizio anno: che il giudizio è veramente una cosa bella e appassionante,
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perché ha a che fare con la commozione. È la possibilità di dire grazie a Gesù. Noi spesso, ho l’impressione, confondiamo l’affezione con il sentimentalismo. Questo ci nega la possibilità di fare un’esperienza.

Perché? Qual è la differenza secondo te tra l’affezione e il sentimentalismo?

L’affezione è un’esperienza che ti fa tornare indietro come il samaritano a dire grazie a Gesù. Non ci può essere giudizio senza questa esperienza; se non vibriamo fino in fondo, non possiamo dare un giudizio. Il sentimentalismo, invece, è un’impressione personale che non si scontra con un fatto, con qualcosa che ti è accaduto che ti commuove profondamente.

L’affezione che cosa è? L’affezione in un uomo non può essere mai staccata, proprio per l’unità dell’io, dalla ragione. Il sentimentalismo è la riduzione al mero sentimento. Cosa diceva don Giussani del giudizio? È l’amore. Che cos’è l’amore? Un giudizio che trascina con sé tutta l’affezione, che non ha niente a che vedere con il sentimentalismo (che è soltanto la riduzione a riverbero sentimentale ed emotivo di qualcosa). Ma per ridurre l’affezione a sentimentalismo occorre lasciar fuori la ragione. Ragione e affezione sono due aspetti dello stesso contraccolpo, ma
se noi li stacchiamo, allora rimaniamo soltanto nel puro riverbero sentimentale, e ci perdiamo il meglio, perché senza giudizio non può esserci vera affezione. Il problema è – come dicevamo prima – che davanti alla morte di un amico uno non può evitare che sia tutta l’affezione a chiedere un giudizio: finisce tutto nel niente? Non puoi staccare l’affezione dal giudizio, quanto più gli vuoi bene, quanto più sei attaccato, tanto meno puoi fare a meno (scusate la ridondanza) di questa ragione.

Tu, a un certo punto, dici verso la fine della Giornata d’inizio anno che il nocciolo della questione è Gesù, cioè che bisogna passare oltre l’insieme delle facce a cui siamo affezionati per capire che la questione è Gesù. Questa è una domanda proprio aperta per me, perché io tendo molto a bloccarmi sulle persone a cui voglio bene. È vera questa cosa ed è verissima se siamo leali con i nostri amici. Cioè: se uno ci ha giocato tutta la sua affezione, se quegli amici sono davvero tutto
ciò per cui daresti la vita, allora ci sto che il nocciolo della questione è Gesù, altrimenti è un puro nome anche questo.

No. Tu devi partire, al di là di tutto, da questo fatto: il nostro essere qui adesso lo puoi spiegare soltanto a partire dalle facce che vedi qui? Perché il problema è che noi diamo per scontato tutto, ma tutto! Se incominci a dare per scontato tutto... Dimmi se trovi una ragione – una ragione, una! –
per dare spiegazione della nostra presenza qui oggi, se non è quella. Per aiutarti a capire: tu perché sei qui? Tu pensa a che percorso hai dovuto fare, che cosa ti è dovuto succedere nella vita per essere qui questa sera. Adesso incomincia a guardare ciascuno che è qui cercando di immedesimarti con la storia che lo ha portato a esser qui. Allora, se ti fermi solo a queste facce, tu dai ragione di quello
che stiamo vivendo? No, non lo fai, come non daresti ragione della presenza tua. Tanto è vero che hai dovuto parlare di colui che ti ha introdotto alla fede. Allora, se noi non facciamo questo – ci avverte don Giussani –, queste facce nel tempo scompariranno e noi ci ritroveremo stufi. Riesco a spiegarmi? Perché ciascuno di noi è qui questa sera? Noi non lo capiamo, noi lo appiccichiamo.
Diciamo: «Gesù», e quasi nessuno ha fatto o fa di solito questo percorso. Fra di noi siamo amici, ma se ciascuno pensa alla propria storia per dare ragione adeguata della sua presenza, allora non ci arrestiamo all’apparenza.


Io volevo dire di un cambiamento che mi sono accorta che è successo quest’anno in me, soprattutto a scuola. Mentre prima mi arrabbiavo con gli altri colleghi («Ma come fa a non capire!»), adesso, dopo che sono stata un po’ su queste pagine – soprattutto quel passo de Il rischio educativo:
«Infatti lo stesso gesto con cui Dio si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazie della fede» –, mi sono resa conto che tutto quello che mi è stato dato è un dono; e dunque io non posso pretendere che gli altri ci arrivino. Non solo, ma se non mi piego a quello che l’altro può capire e non metto a disposizione tutta la ricchezza che ho
ricevuto...
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L’unica forma per aiutare gli altri è renderti conto tu. Perché se tu ti rendi conto, li potrai trattare in un altro modo, e allora sorgerà in essi la domanda sul perché li tratti così. Noi diamo al prossimo la teoria invece di fargli fare l’esperienza! Dimenticati un attimo di lui, fai tu il percorso: che cosa è
capitato a te, in che modo è cambiato il modo di guardarlo? Perché allora se si sente guardato così – come anche tu sei stata guardata così, e questo è quello che ti ha fatto affascinare a Cristo –, anche lui incomincerà a fare questo. È un’esperienza, prima che una spiegazione. Il cristianesimo è un avvenimento che o accade adesso o lo sostituiamo con una spiegazione
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Stavo andando dai miei, e mia mamma mi ha spedito un messaggio intanto che ero in macchina: «Guarda che il don Giorgio è in coma». Non lo avevo più incontrato da dieci anni, e ci eravamo lasciati un po’ male, arrabbiati. Allora io prima sono andato dai miei, ho mollato quello che dovevo mollare, poi ho iniziato a cercarlo per gli ospedali di Milano, ma non l’ho trovato. Poi sono arrivato qua, e c’era un ragazzo che io non conoscevo; gli ho chiesto: «Ma tu sai se don Giorgio è
qui?». E lui: «Sì, sali». Allora sono salito ed è venuta l’infermiera che mi ha detto: «Stai tranquillo, perché anche la settimana scorsa mi ha parlato di te». Allora io sento presente don Giorgio adesso perché mi vede, ahimè, mi vede bene e poi lui con me è sempre stato...
Un padre.
In questi giorni mi son sentito ricreato, perché ho sperimentato quello che dice il don Gius nel capitolo de Il senso religioso citato prima: «Non mutevoli si riscontrano dunque idea, giudizio, decisione».

Uno che percorre tutti gli ospedali di Milano cercando un uomo che sta morendo e con cui è arrabbiato: che cosa vuol dire questo? Che fa tutto questo per arrivare a un giudizio. Infatti tu ti sei tranquillizzato quando l’infermiera ti ha detto il giudizio. Quello che ti ha mosso non è stato qualcosa di appiccicato, ma un’urgenza: io non posso fare a meno di questo. Vero o no? Questa è la questione, altro che qualcosa di faticoso. Don Giussani ci dice che il giudizio non è una fatica, ma
una liberazione. Dobbiamo fare i conti con questo, perché se noi diciamo: «Che fatica!», e lui dice: «Che liberazione!», beh, qualche domanda dovremmo cominciare a porcela, almeno per curiosità... Ma non voglio finire senza leggere una lettera e rispondere. «Caro don Carrón, riesco finalmente a scriverti perché ho trovato la modalità di esprimere quello che da settimane con difficoltà sentivo,
intuitivo. Sono un ragazzo di venticinque anni totalmente innamorato del movimento e di Cristo.
Un innamorato immaturo che il tempo e la grazia faranno fecondare secondo il disegno di Dio, un innamorato fragile che tentenna di fronte alla durezza della realtà, di fronte allo scandalo del limite del male. Proprio per questo sento la necessità che Cristo si riveli quotidianamente, che risolva la mia vita, le mie paure, che superi il mio limite, che risponda alla mia domanda. Domanda che alle volte diventa disperante, è proprio un’urgenza; e con questa fragilità e questa domanda provo a
seguire, a obbedire al movimento e ai segni che Dio mi indica. Ma negli ultimi tempi sentivo la stanchezza del lavoro. Questo famoso giudicare, l’esperienza, la corrispondenza eccetera...
Continuavo a chiedermi: ma perché insiste così tanto su questo punto? Ma perché continua a bacchettarci? Fino alla noia, fino a rendere quasi noioso quel che è l’avventura più entusiasmante, il cristianesimo. E mi dicevo: va bene giudicare, va bene fare esperienza, ma il cristianesimo è un avvenimento, è un fatto eccezionale, bisogna che accada; noi giudichiamo, lavoriamo, ma manca ome lo stupore. Dove è finito l’entusiasmo? La letizia, la bellezza? Dov’è finito il fervore di un
cammino? A me sembra quasi che ci siamo arenati su un punto di cui non riusciamo neanche più a capire il perché. Giussani scrive: “Noi diciamo quel che dovrebbe essere o quello che non va e non si parte dall’affermazione che Cristo ha vinto”. Allora ti chiedo: perché continuo a sentire la fatica, quasi la noia di quel che diciamo? Perché, nonostante l’impegno, la domanda e il giudizio non percepisco Cristo come una presenza quotidiana? Perché più che in cammino sento di essere fermo
in una fase di stallo? Sinteticamente: spesso manca la baldanza del cristianesimo che la figura di Enzo Piccinini ha destato nella mia vita, i nostri incontri appaiono come un discorso, una dialettica piuttosto che la comunicazione di un avvenimento presente; ha il sapore del tentativo nostalgico di
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ricordare, così diverso dal far memoria. Ti prego di aiutarmi a capire perché il tuo sguardo così lieto, lo sguardo di Rose, Vicky, don Eugenio e altri, ancora smentisce o almeno contraddice tutto quello che ho scritto». Non è poco cominciare a rendersi conto di questo. Mi sembra che questa lettera esprima molto bene qual è la difficoltà in cui ci troviamo, perché è come se a ogni passo che facciamo ci dimenticassimo tutto il resto. Ma noi per arrivare a questo «lavoro noioso» di cui scrive il nostro amico, da dove siamo partiti? Siamo partiti da questo lavoro o siamo partiti dall’avvenimento e dallo stupore di una Presenza che la fede riconosce? L’inizio della fede qual è stato se non questa Presenza assolutamente affascinante? E che cosa abbiamo fatto per due anni?
Parlare di questa Presenza, parlare dei testimoni, parlare dei tratti inconfondibili di quella Presenza,dei fatti assolutamente eccezionali. E quale problema è emerso in seguito? Che, dopo poco, tutto questo svaniva. Vi ricordate il passaggio degli Esercizi della Fraternità? Come mai dopo tutta la valanga di testimoni, un istante dopo, tutto svanisce? Ricordate? Non siamo arrivati qua dimenticando quello, siamo partiti da lì e siamo arrivati a constatare come, spesso, tutto questo, un
istante dopo, svanisce. E allora, agli Esercizi della Fraternità che cosa abbiamo detto? Manca l’umano. Se non ci mancano i testimoni, non ci mancano i fatti eccezionali, non ci manca il tratto inconfondibile: se non manca Lui, chi manca in un incontro? Noi, il nostro umano. E per questo don Giussani ha insistito: «Manca l’umano». Manca tutta l’implicazione dell’esperienza fino al giudizio.
Abbiamo proposto agli Esercizi della Fraternità che cosa era l’esperienza e da lì, dal lavoro fatto su questo, è venuta fuori la riduzione che noi facciamo dell’esperienza, e siamo arrivati a questo punto.
Si capisce il percorso? Non è che siamo arrivati qui dimenticando il fascino dell’avvenimento
cristiano: stiamo cercando di non perderlo per la strada un istante dopo! Non confondiamoci. Quando uno mi dice che la vita diventa noiosa è perché lui questo fascino l’ha smarrito già da tempo; perché invece in altri – come il nostro amico dice alla fine della sua lettera – non è andato perso per strada. Quando non si perde per strada? Quando non manca l’umano. E questa è la genialità a cui ci ha introdotto don Giussani: io so che l’avvenimento presente è presente, perché è
in grado di ridestare tutto il mio umano. E come vedete, nell’esperienza che ci siamo raccontati oggi, non è emersa non so che tipo di fatica noiosa. Davanti – per esempio – alla morte di don Giorgio non abbiamo potuto fermarci (come invece facciamo spesso) prima di essere arrivati sin lì, sino all’implicazione ultima dell’esperienza, al Suo volto. Perché uno possa percorrere tutti gli ospedali di Milano, occorre un io, occorre sentire un’urgenza; senza di ciò, noi non è che perdiamo l’urgenza, perdiamo Lui. Per questo ci aiutiamo, non per complicarci la vita, ma per non perdere per strada il meglio di quello che noi diciamo che ci capita. Noi usiamo le parole svuotate del contenuto, svuotate; siamo dei nominalisti, questo fa parte del nostro nichilismo, pensiamo che dicendo la parola “giudizio” ci sia il giudizio, che dicendo la parola “impegno” ci sia l’impegno. Abbiamo invece constatato che non è così. E per questo la difficoltà più grande – abbiamo detto alla Giornata d’inizio anno – sta nel capire di che cosa stiamo parlando, nel capire qual è il problema. Di questa difficoltà abbiamo tantissimi segni; o continuiamo a fare questa strada o, come abbiamo visto, tutti i testimoni e tutta la valanga di fatti eccezionali un istante dopo svaniscono. Ma Lui c’è. E so che c’è, se mi cambia: è, se opera. Io so che giudico perché viene trascinata tutta l’affezione. Come avete potuto constatare, sul sito web del movimento gli appunti di questa Scuola di comunità vengono regolarmente pubblicati (quindi mettetevi tranquilli: non avete bisogno di mandare i vostri
un istante dopo a quante più persone potete, perché è meglio per tutti se ci risparmiamo di far girare
cose brutte e dubbie!). Abbiamo deciso di farlo noi in un modo adeguato: sbobiniamo, facciamo la correzione e li mettiamo a disposizione di tutti entro l’inizio della settimana successiva, in modo tale da offrire un supporto veramente degno e unitario.
• Gloria

martedì 27 ottobre 2009

Rose: è la fede di Benedetto a spaccare i sassi in Uganda




INT. Rose Busingye martedì 27 ottobre 2009

«È Dio che opera. La nostra capacità, da sola, non salva nulla». A dirlo è Rose Busingye, fondatrice del Meeting Point International di Kampala, Uganda. Il centro ospita donne sieropositive, «le mie donne», dice sempre Rose parlando di loro. Persone che hanno saputo trovare nella fede cristiana una speranza nuova di vita, l’unica risposta credibile alla disperazione dell’abbandono. È alle “sue” donne che corre sempre Rose col pensiero, quando deve parlare della fede, della Chiesa, della speranza che Cristo rappresenta oggi per il mondo, e per l’Africa. Si è concluso domenica il Sinodo dei Vescovi africani. Anche Rose ha partecipato, insieme a tanti altri ospiti. Ilsussidiario.net l’ha intervistata, alla vigilia del suo ritorno in Uganda.



Cos’ha voluto dire per lei questo appuntamento, alla luce dell’esperienza di Chiesa che vive in Africa?


Capire che è Dio che opera. La nostra capacità, da sola, non salva nulla. Tocchi con mano, una volta di più, l’incapacità nostra, però vedi bene che il cristianesimo va avanti lo stesso. Tutta la Chiesa in Africa sta crescendo. Ma non siamo noi a mandarla avanti; è lo Spirito. Questo l’ho visto benissimo dal modo con cui il papa è stato con noi, durante il Sinodo.



Cos’ha colto di così particolare nella presenza del Santo Padre?



Egli stava con noi senza programmi sul da farsi, ma semplicemente per farci compagnia. Come un padre, che suscita in te quella tenerezza per cui ti chiedi: cos’ho da temere? Era impossibile, davanti a quello sguardo, fraintendere. La prima preoccupazione, trattandosi di una chiesa giovane, come quella africana, poteva essere quella di “consolidare una chiesa futura”. Ma la Chiesa non è prima di tutto un’organizzazione. L’invito del papa, e la sua personale testimonianza, è stata quella di predisporsi ad accettare l’iniziativa di Dio su di noi. È in questa accettazione che sta il futuro - e il presente - della chiesa africana.



Ad ascoltare i programmi di sviluppo dei governi e di tante organizzazioni, sembrerebbe che la prima sfida per l’Africa sia trovare più soldi e fare più progetti.



L’uomo europeo ha tutto, ma allora come mai non è contento? Come mai le strade sono piene di facce tristi, di persone che non sorridono mai? È così perché in Europa si è perso che a renderci felici è il progetto di Dio, e non il nostro. Invece le “mie” donne vanno nella cava a spaccare pietre sorridendo e cantando. Anche se non hanno mangiato nulla.



La sfida più grande in occidente è che la società ha abbandonato le sue radici cristiane. Per la maggior parte delle persone il cristianesimo non ha più nulla da dire alla loro umanità. Qual è invece la sfida culturale che più urgente per i cattolici che vivono in Africa?



La fede in Cristo Gesù. Dico sempre che la fede è la fine della schiavitù. È astratto - mi hanno detto tanti di quelli che ho incontrato. Ma non è così, perché un uomo che vive la fede vede tutto come un dato ricevuto e ne gode. Gode del lavoro, dei figli, del creato. Per un uomo che vive la fede Dio è tutto. E lui è più libero.



Benedetto XVI, nella sua omelia in apertura del Sinodo, dell’Africa ha detto che «il suo profondo senso di Dio» è «un tesoro inestimabile per il mondo intero» e che «da questo punto di vista, l’Africa rappresenta un immenso “polmone” spirituale, per un’umanità che appare in crisi di fede e di speranza». Cosa pensa di queste parole?



È per questo che è più facile oggi incontrare Cristo in Africa che non nei paesi occidentali. Perché un africano ha un senso del mistero tale da essere sempre consapevole di appartenere a Qualcosa. Qualcosa di grande, di più grande di sua madre e di suo padre. Ma questo Mistero è Cristo presente, Colui che ogni cuore attende. Se lo incontro, diventa la mia nuova identità, il mio giudizio nuovo su tutte le cose. Me ne accorgo quando guardo le “mie” donne. Vedi - mi dico - sono sempre più avanti!, non perché sono più intelligenti, ma perché sono semplici. La fede ha penetrato la loro vita. Quando c’è stato l’uragano di New Orleans percepivano le popolazioni colpite come parte di sé, anche se erano dall’altra parte del mondo. E le hanno aiutate. Quando conosci la fede tutto ti appartiene. È una mentalità nuova, persuasiva. Ti accorgi, semplicemente, che è più bello vivere da cristiano.



Il tema del Sinodo recita “la Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La giustizia e la pace sono cose per le quali vale la pena spendersi?

Ma la giustizia, senza Dio, che giustizia è? Lo ha detto bene il papa nell’omelia di domenica. Se non passa Gesù di Nazareth, che senso ha fare progetti? “Ho osservato la miseria del mio popolo… ho udito il suo grido… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo”. Posso trattar bene il mio prossimo, ma nel tempo mi stanco e allora perché devo farlo? Posso fare progetti di carità, ma alla lunga non reggono. Ma se il mio cuore vive di fede, tutto diviene più facile. E solo allora che ti tratto per quello che sei, perché sei anche tu di Dio. Sei “divino”, mi appartieni anche tu!



In molti paesi africani i cristiani sono perseguitati. Ha fatto scalpore durante il Sinodo il racconto di monsignor Hiiboro Kussala, che ha raccontato di cristiani barbaramente uccisi in Sudan. I cattolici che lei conosce come vivono il rischio del martirio?


Sanno bene che possono morire a causa della loro fede, ma sono sereni, perché se uno ha un ideale per vivere, vale la pena morire per esso. Il problema, all’opposto, è quando manca qualcosa per cui sacrificarsi. I soldi non fanno felici, perché chi ha molti soldi anzi è più triste degli altri. È solo l’incontro con Dio che ci fa essere più uomini e ci fa scoprire il valore di noi stessi. È per questo che a Dio si può anche sacrificare la vita.



Per lei e le donne che vivono con lei, cosa vuol dire incontrare persone che credono in qualcos’altro? In Africa ci sono mille fedi diverse.


Ci sono mille fedi, ma tutti si trovano bene con noi. Più dialogo di così. È la prova che davvero solo in Cristo possiedi tutto. Quanti estranei ho visto sorprendersi, e accorgersi che è bello stare lì con noi, senza preconcetti, senza piani.



È una proposta anche per chi vi odia?




Sì. Immagini le nostre donne, che vanno in cava cantando i canti degli alpini. Uno vede, non capisce cosa vuol dire ma si commuove, perché è bello cantare così. Un uomo che è in rapporto con Dio attira, attira sempre. A Roma, durante il Sinodo, non mi sono mai stancata quando c’era il papa, ma quando non c’era. È stato bello sorprendere in lui tutta la tenerezza del padre che guarda i propri figli.



È l’esperienza del dolore e del male a fermarci, a bloccare tutto.



La fede vince tutto. Se la fede non vince, vuol dire che non è fede, ma un sentimento. Il Mistero di Dio attrae e cambia. Occorre lasciarsi cambiare. Invece misuriamo la Sua iniziativa, poniamo confini: facciamo noi un progetto per il mistero, dove deve arrivare e dove no! Meno male che non dipende da noi, ma “soffia dove vuole”: dove c’è un cuore semplice che lo attende.



Oggi tornerà a Kampala, in Uganda. Le sue donne le chiederanno cos’ha fatto. Che cosa dirà?



Parlerò del papa. Dirò che sono tranquilla perché in lui ho una guida sicura. Non temo più nulla, perché c’è un uomo che più di tutti vive la fede e io l’ho visto. Dobbiamo appartenere a Lui, al Suo popolo, alla Chiesa così com’è. Un uomo che vive l’appartenenza a Cristo come la vive il papa ti attira, non puoi più lasciarlo.



Questa fedeltà di cui parla - del papa verso Dio e sua personale verso il papa - non è una cosa estranea al sentire dell’Africa?



No, perché non è qualcosa di esterno, che viene da fuori, dall’Europa o dalla storia, ma da dentro di noi: uno la scopre guardando come il cuore è fatto. E il nostro cuore è fatto per incontrare Cristo. Un uomo che appartiene, come il papa, grida a Dio. Il mondo viene qui e pretende di dire quello che è bene per noi. Riduce il problema dell’Africa al preservativo. Non ci tratta da uomini. Invece lui, con il suo sguardo e la sua tenerezza di padre, è l’unico che ci vuole veramente bene. È importante che il cristianesimo - ha detto il papa una mattina - non sia una somma di idee, ma un modo di vivere. Il cristianesimo è carità, è amore, ha detto. E se la fede si trasforma in carità, non c’è nulla che le può resistere.


















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giovedì 22 ottobre 2009

Funerali di popolo per don Pontiggia -Omelia di don Julián Carrón/Messaggi di Tettamanzi e Scola-



C’ erano i bambini delle materne e delle elementari con i genitori. C’erano quelli che alle elementari ci andavano vent’anni fa, quando lui era arrivato a reggere le sorti dell’Istitu­to Sacro Cuore, e che a- desso ci mandano i loro fi­gli. E poi tanti adulti pas­sati da giovani in quella scuola, e altri venuti da molte città d’Italia e che l’avevano conosciuto in altre occasioni: al triduo pasquale promosso da Gioventù studentesca, al Meeting di Rimini, alle va­canze in montagna, agli incontri sull’educazione. C’erano decine di inse­gnanti che per molti anni l’hanno guardato come un maestro di vita e un testi­mone della fede. Sempre ' all’attacco', mai tran­quillo. E c’erano gli amici di Comunione e liberazio­ne, con i quali ha condivi­so mille battaglie per fare fronte all’emergenza edu­cativa, anche in tempi in cui pochi si erano accorti che questa è la sfida più vertiginosa dell’epoca no­stra.
Cinquemila persone si so­no radunate ieri pomerig­gio al quartiere Feltre per i funerali di don Giorgio Pontiggia, rettore dell’Isti­tuto Sacro Cuore dal 1984 al 2007. Mille hanno gre­mito la chiesa di Sant’I­gnazio, gli altri hanno se­guito la celebrazione da­vanti al maxischermo al­lestito nella piazza anti­stante. Alla celebrazione eucaristica, presieduta da monsignor Erminio De Scalzi, vicario episcopale per la città di Milano, han­no partecipato anche Car­lo Faccendini, responsa­bile del settore per l’edu­cazione scolastica della diocesi di Milano, Angelo Brizzolari, vicario episco­pale della zona pastorale IV (Rho) e un centinaio di sacerdoti. Il messaggio in­viato dal cardinale Dioni­gi Tettamanzi celebra un uomo «paternamente af­fettuoso verso i ragazzi che seguiva con zelo e de­dizione per portarli a una formazione piena come uomini e come credenti». E nell’omelia don Julián Carrón ha ricordato che incontrando don Pontig­gia «tutti noi abbiamo po­tuto toccare con mano che razza di novità Cristo può introdurre nella vita di un uomo quando si lascia prendere tutto. E allora di­venta tutto una passione; quello che abbiamo visto in don Giorgio è questa passione che Cristo è in grado di destare nella vita di un uomo: una passione per Lui e per tutti gli uo­mini ». «La nostra voce canta con un perché… » : mentre le parole del canto di Adria­na Mascagni –«Povera vo­ce », uno dei motivi che ha segnato la storia di Cl – ri­suonavano nella chiesa, chi si guardava intorno poteva misurarne la ve­rità. E intuire quanto la domanda di significato che abita nel cuore di cia­scuno avesse trovato in questo sacerdote una ri­sposta carica di fascino e che non lasciava indiffe­rente chi lo incontrava. Lo ricorda anche il patriarca di Venezia, Angelo Scola, che fu suo compagno in seminario: «L’amicizia con lui è stata segnata dal suo appassionato desiderio di quella pienezza dell’uma­no che, per la grazia di Ge­sù, ci è donato e che sape­va destare in tutti».
DI GIORGIO PAOLUCCI

Funerale di don Giorgio Pontiggia
Milano, parrocchia di S. Ignazio di Loyola, 21 Ottobre 2009
Omelia di don Julián Carrón

Chi sei Tu, Cristo, che puoi appassionare così la vita di un uomo?
Chi sei Tu, che puoi attrarre tutto l’io, tutta la persona con tutta la sua capacità, immaginazione, intensità, per metterla al Tuo servizio, per poter comunicare agli uomini - non con parole, ma con la vibrazione e con quella intensità che solo Tu puoi introdurre nella vita - la Tua stessa vita?
Chi sei Tu, Cristo?
Noi, tutti noi - e voi giovani in modo particolare l’avete visto - abbiamo potuto toccare con mano che razza di novità Cristo può introdurre nella vita di un uomo quando si lascia prendere tutto, tutto. E allora diventa tutto una passione; quello che abbiamo visto in don Giorgio è questa passione che Cristo è in grado di destare nella vita di un uomo: una passione per Lui, Cristo, e per tutti gli uomini.
Grazie a questa sua semplicità, al suo lasciarsi prendere da questa attrattiva, tanti di voi avete potuto conoscere chi è Cristo, non con parole, non con un discorso, non formalisticamente, ma attraverso quell’avvenimento che Cristo, presente ora, fa accadere in un uomo che si lascia afferrare così. Tutta la sua persona era stata esaltata da questo riconoscimento di Cristo, che gli era stato comunicato - come lui stesso ci ha detto tante volte - attraverso quella modalità, quella intensità di vita che aveva incontrato in don Giussani. Questo lasciarsi prendere secondo questa modalità, diventando figlio di don Giussani, ha consentito a tanti di voi di conoscere veramente chi è Cristo, e ha esaltato il suo io umano, la sua vocazione di prete, la sua capacità educativa. Tutto è stato esaltato in lui; veramente abbiamo avuto la percezione di questo centuplo che diventa la vita, di questo di più che diventa la vita quando noi Lo lasciamo penetrare tutto in noi. Per questo la sua vita è diventata educazione: lui ha educato con tutta la sua vita, comunicando quella esperienza che aveva afferrato lui, come ci ricorda il cardinale Angelo Scola nel messaggio inviato per l’occasione:
«Fin dai primi tempi del Seminario l’amicizia con lui è stata segnata dal suo appassionato desiderio di quella pienezza dell’umano che, per la grazia di Cristo Gesù, ci è donato», e per questo «don Giorgio possedeva la straordinaria capacità di destare in tutti, soprattutto nei giovani, questo ardente desiderio. Nello stesso tempo non desisteva dall’essere di continuo pungolo alla libertà perché si assumesse fino in fondo la responsabilità personale e comunitaria del dono della fede».
Don Giorgio ci ha testimoniato questo fino all’ultimo respiro della vita, fino alla morte, perché la sua morte è l’ultimo suo gesto di amicizia verso di noi. In mezzo alla confusione che tante volte ci domina, la morte mette in chiaro tutto. Non si tratta di un’opinione in più, ma di un fatto, senza “ma” e senza “però”, perché ci mette tutti davanti all’Eterno e ci pone una domanda, che possiamo evitare solo tradendo la natura del nostro cuore: che cosa oltrepassa la barriera della morte? Soltanto quello che è vero.
Perciò la morte è un giudizio su ciò che veramente vale e su ciò che è inutile, e questo è l’ultimo gesto di amicizia che don Giorgio compie verso ciascuno di noi. È come se dicesse a tutti: «Guardate che quello che non oltrepassa questa barriera non vale, non serve». Perciò la sua morte è l’invito più potente che ci lascia, insieme alla sua vita, a vivere di fronte all’Eterno.
Ma noi possiamo guardare perfino questa “sciagura” - abbiamo appena ascoltato nella liturgia - della morte proprio per quello che a tanti di voi, giovani, lui ha comunicato, cioè l’unica cosa che serve per vivere e per morire: Cristo, l’unico risolutore, l’unico che è in grado di accompagnarci nel vivere e di accompagnarci nel morire. Per questo noi siamo in debito con don Giorgio, perché ha testimoniato a tutti noi questa passione. Tutto il resto non ci fa vivere e neppure serve per morire.
Mi è venuta subito in mente, pensando a lui e a questo momento, quella frase di San Gregorio Nazianzeno che abbiamo ascoltato in altre occasioni: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita».
Questa morte sia per ciascuno di noi una grande occasione di conversione a Lui, a Colui di cui tutto consiste, per essere anche noi figli, cioè testimoni di chi è Cristo per quelli che ci incontrano, perché quella bellezza che don Giorgio ci ha comunicato possa arrivare ad altri, a coloro che ci incontrano nella strada della vita.
Domandiamo alla Madonna di essere eredi di questo grande testimone di Cristo in mezzo agli uomini.

mercoledì 21 ottobre 2009

Lettere degli studenti a Don Giorgio, la gratitudine per un vero educatore



Redazione mercoledì 21 ottobre 2009


Che cosa ha affascinato i tanti giovani che nei modi più svariati hanno incontrato don Giorgio Pontiggia? Che cosa li ha colpiti fino a muoverne la libertà? Certo la sua capacità di andare sempre al cuore di ogni questione che gli venisse posta, certo il suo sguardo intenso, vibrante, capace di abbracciare chiunque, certo la sua sfida, una sfida a cercare tutto nella vita, a prendere sul serio le proprie esigenze fondamentali e ad andarvi fino in fondo. Chiunque lo avesse incontrato non poteva non essere affascinato, tanto era grande la sua umanità, ma ciò che muoveva era ciò che muoveva lui stesso, il Mistero che lo aveva preso per una promessa di umanità piena. Per questo don Giorgio Pontiggia sfidava chiunque incontrava, perché lui stesso era stato sfidato da Cristo a non fermare il suo desiderio di felicità ad un certo punto del percorso, ma a portarlo fino al punto estremo, fino all’esperienza di quell’impossibile corrispondenza che lo compie, che fa gustare pienamente la vita. Chi ha incontrato don Giorgio Pontiggia ha incontrato un uomo che non gli ha trasmesso qualche buona istruzione per l’uso o qualche idea interessante sulla vita, ma che lo ha lanciato a mettere in gioco tutta la sua libertà nel riconoscere il volto del Mistero. E la posta in gioco don Giorgio l’ha sempre avuta chiara, è quella per cui ha deciso di dire sì a Cristo, è il centuplo quaggiù e la vita eterna di cui oggi sta facendo esperienza.

Gianni Mereghetti

Le lettere di alcuni studenti e insegnanti che lo hanno incontrato sono la testimonianza più commovente di chi sia don Giorgio Pontiggia e di come la sua forza e genialità educativa abbiano poggiato totalmente nel suo rapporto con Cristo.

Il messaggio di Carron descrive alla perfezione tutto ciò che don Giorgio è stato per me. Negli anni del liceo è stato propriamente un padre, fin da quando nei giorni dei colloqui per entrare al liceo scientifico mi abbracciò e mi disse: «Prega la Madonna perché ti conceda la grazia di entrare qua dentro». La grazia mi è stata concessa ed ho potuto sperimentare la passione di cui parla don Carron. Avere un padre, che ogni mattina ti saluta quando entri a scuola oppure non ti guarda nemmeno le volte che ha letto le tue note disciplinari, è stata una grande possibilità di crescita. Numerosi i suoi richiami durante le vacanzine di gs come quando dopo una serata, a suo parere, non andata benissimo, si arrabbiò proprio tanto con me ed un mio caro amico: lì per lì ci sono rimasto male e basta, ma ripensando alle parole che mi aveva detto richiamandomi, capii quanto bene mi voleva e quanto ci tenesse che io andassi a fondo di tutto quello che facevo, dalle amicizie alla serata della vacanzina, senza fermarmi alla superficie o facendo male le cose. Sembra una cosa banale, ma questo è sicuramente l’insegnamento più importante che don Giorgio mi ha dato: non parole o sentimentalismi, ma una passione per la vita. Finito il liceo, abbiamo cominciato a vederci di meno, ma quel paio di volte che sono andato a trovarlo e quelle due cene con i miei amici e lui sono state fondamentali anche per l’università: quando si stava con lui, soprattutto dopo che non ci si vedeva da un po’, era come prendere una boccata d’aria. Si era di fronte ad un’umanità diversa che non si poteva non seguire. Spesso ripeteva: «voi siete più attaccati a me piuttosto che a Ciò che io porto». Adesso che se ne è andato, la lacerazione del distacco c’è, ed è innegabile, ma la certezza di aver visto e sperimentato Ciò che lui ha portato è presente.

Marco

Oggi pomeriggio sono tornata a casa dall’oratorio e ho visto mia mamma. Io avevo scoperto che il caro nostro amico don Giorgio era morto e non glielo avevo ancora detto. Entrata in casa non mi sono neanche tolta le scarpe e sono andata in camera di mia mamma: l’ho trovata rivolta verso la finestra che guardava fuori. Che vedeva fuori perché avevo capito che non stava guardando qualcosa ma aveva la mente rivolta a don Giorgio e i suoi pensieri erano chiaramente rivolti a lui ed alle loro esperienze insieme. Quando mia mamma mi ha visto entrare mi ha guardata. Io mi sono avvicinata a lei che è stata ferma ed impassibile fino a quando non c’è stato quel momento: il momento in cui l’ho stretta tra le braccia, il momento in cui è uscito, è andato,è venuto fuori, è sbottato il pianto liberatorio che le rodeva il cuore e tutto il di dentro. Siamo state lì, zitte, a sentire i singhiozzi che scandivano il tempo. Volevamo che quell’attimo potesse essere infinito, ma non lo era. Volevamo non riprendere più la nostra vita quotidiana e occupata da qualsiasi cosa che non ci possa far pensare e fermarci un attimo. Volevamo, stavamo chiedendo, tutte e due, in silenzio, di fare una foto di quell’attimo, e di cancellare tutto il resto, che in quel momento ci opprimeva e ci schiacciava. Ad un certo punto mi sono ricordata del regalo che abbiamo fatto a don Giorgio oggi a scuola e mi sono venute in mente le parole di Nembrini: «Don Giorgio ha di fianco il Signore e la Madonna che lo stanno accogliendo». Mentre stavo abbracciando e stringevo al petto mia mamma mi sentivo che dovevo dire quelle parole, ero sicura che erano le parole giuste ma non trovavo la forza di dirlo. Non trovavo il modo di dirlo, lo stavo cercando dentro di me da diversi secondi, dopodiché l’ho detto e mia mamma mi ha detto «sì». Un’unica semplice parola “sì”, non ci vuole tanto per dirlo, eppure sono così poche le volte che la si sente dire dalla gente. Spero che con questo dono che mi hanno fatto il Signore e don Giorgio mi riesca a dirlo più frequentemente, nel modo giusto al momento giusto.
Susanna Belletti 3 media

Sono una ex alunna del liceo Sacro Cuore e mi trovo ora a Perth, Western Australia, per svolgere insieme a due altre amiche un periodo di studi legato alla nostra università. Stamattina, dopo aver saputo della morte di Don Giorgio abbiamo deciso di andare alla messa della piccola cappellina della nostra università dove i posti per seguire la messa non sono più di quattro. Quando il prete è entrato per dire la messa si è molto sorpreso di trovare nella cappella ben tre ragazze oltre l'unica fedele che partecipa tutti i giorni all'eucarestia. Gli abbiamo chiesto, quindi, di celebrare la messa in suffragio di Don Giorgio e così lui ci ha domandato di raccontargli chi fosse questo uomo. Il giudizio che è venuto fuori da questa breve chiacchierata è che Don Giorgio è stato per noi la prima modalità di incontro con la proposta cristiana e di come lui ci abbia sempre accompagnato e sostenuto in tutti questi anni, soprattutto nei momenti più difficili, continuando a richiamarci al fatto che la nostra vita è abbracciata tutti i giorni e che quello che ci veniva chiesto era di stare nella realtà.

Questo è ciò che Don Giorgio ci ha testimoniato e gli siamo grati per non averci mai risparmiato la domanda: ma tu cosa desideri?

Ci uniamo con la preghiera a tutta la comunità del movimento che domani celebrerà il funerale di Don Giorgio, certe che lui ora più che mai continuerà ad accompagnarci nella grande strada che lui per primo con tutta la sua vita ci ha indicato.

grazie.



Lucia Rovetta



In questi ultimi due anni ho avuto la fortuna di conoscere e di approfondire una grande amicizia con Don Giorgio. Lui mi è sempre stato accanto in ogni mia fatica, in ogni circostanza che vivevo spingendomi sempre a dare un giudizio alle cose perché solo così avrei potuto rendere veramente mia quella circostanza.

Quando ieri pomeriggio sono venuta a sapere della sua scomparsa sono caduta in un pianto disperato, ero arrabbiata percé mi sembrava che Dio mi avesse strappato il don Giorgio, avevo bisogno del suo aiuto, delle sue sfuriate che poi mi rimettevano sempre in pista.

Proprio ieri mattina andando a scuola i professori di latino e matematica mi hanno ridato le verifiche in cui ho preso ben due 4. In quel momento avrei voluto andare dal “vecchio” perché ero semplicemente sconfortata ma poi mi venne in mente che era in coma, e due ore dopo mi arriva la notizia.

Dopo il pianto disperato ho un flash, la sua faccia che mi guarda col suo sorriso, dandomi della “vispa Teresa” , facendomi capire che era stupido piangere così, lui stava raggiungendo finalmente i sui amici: Gesù, il don Giuss e tutti i suoi ragazzi morti prematuramente.

Mi sono rasserenata e ho cominciato a studiare con i miei amici, in quel momento mi sono ricordata tutto quello che mi diceva sullo studio, di come riuscire a studiare affinchè quel momento non sia perso; io sono sempre stata una ragazza che si agitava facilmente soprattutto per la scuola. Don Giorgio mi ripeteva sempre che anche in quella circostanza ero chiamata ad affermare la presenza di Cristo a prescindere dall'esito scolastico perchè non è quello che mi determina. Al ricordo delle sue parole mi sono accorta che se tutto quello che ho vissuto con lui e imparato da lui a partire dalla Fede che aveva, era vero fino a pochi giorni fa, allora lo deve essere anche ora, anzi soprattutto ora!

Sono lieta, se prima lo potevo cercare e incontrare solo in determinati momenti ora è una presenza che posso cercare e che mi accompagnerà sempre, è un Mistero che non posso capire ma piano piano accetto nelle circostanze della mia vita.

La mia preghiera è quella di poter avere almeno un briciolo di fede che aveva il don Giorgio, quella certezza in ciò che viveva che mi ha sempre sconvolta e che mi spingeva a seguirlo.

Francesca Ponzo
Un grande amico è stato per me il don Giorgio. Mi ha lasciato un patrimonio immenso, i tre anni di amicizia con lui mi hanno insegnato tantissimo e mi hanno fatto diventare quella che sono. Davvero posso dire di aver imparato tutto da lui, dalle piccole cose a quelle più grandi. Il don Giorgio era sempre attento a ogni piccolo particolare. Ricordo benissimo la sua faccia arrabbiata quando l’anno scorso, il 23 dicembre, ero con lui e altri amici a cena, e si era arrabbiato perché avevo portato poco da mangiare. Oppure il primo anno che sono stata a Onno, mi aveva comprato un cavatappi speciale, perché con quello normale non riuscivo ad aprirgli le bottiglie di vino. O ancora nel gennaio scorso, quando eravamo al lago per studiare, ci aveva insegnato a cucinare le castagne sul fuoco, nel camino. Da una persona così non mi sono più voluta staccare, aveva un gusto per tutte i particolari della realtà che non avevo mai visto in nessuno, un atteggiamento tantissime volte aggressivo, un carattere molto forte, e un grande carisma che mi rendevano evidente che era lui “quell’umanità diversa”, da cui potevo solo imparare tanto, persino a pettinarmi i capelli alla mattina. Cose semplici ho imparato da lui, cose semplicissime ho vissuto con lui. L’apparecchiare la tavola, con lui attento a tutti i particolari, il ghiaccio nelle brocche dell’acqua, il grana al suo posto sulla tavola, i letti benfatti nelle camere. Mi ha insegnato il gusto di vivere le cose come nessuno mi aveva mai fatto vedere, e mi ha voluto bene come non mi sono mai sentita voluta bene. Le sue attenzioni al mio andamento scolastico arrivavano fino a farmi un programma di studio settimanale nel quale ogni giorno avrei studiato con una persona diversa. Poi ci sono state le gite in barca, non voleva che facessi i tuffi e allora mi teneva d’occhio mentre facevo il bagno nel lago ma con una mano sempre appoggiata alla barca, perché non mi facessi male. Lui era per me un aiuto per giudicare tutto ciò che facevo: dalle litigate con i miei genitori, alle “litigate” con i libri di scuola. Niente era una scemata per lui, tutto era importante, tutto valeva, tutto era possibilità di conoscere Gesù all’opera. Mi lascia un patrimonio immenso. Mi è chiesta una grande fatica adesso che non c’è più, che non lo posso più vedere alla mattina o non lo posso più chiamare al cellulare, ma sono grata a Gesù di avermelo fatto incontrare, di avermelo messo sulla strada, perché per me il rapporto con lui non è stata un’illusione, è stato vero tutto quello che ho vissuto con lui. E adesso che non lo vedo più, ho bene in mente la sua faccia con il sigaro eterno in bocca che mi dice: “chi dava a voi tanta giocondità è per tutto, e non turba mai la gioia dei suoi figli se non per preparane loro una più certa e più grande”.



Maddalena Mariani



Grazie don Giorgio!



Già da questo ringraziamento mi viene da immedesimarmi in ciò che mi avresti detto:«Non ringraziare me, ma Dio!»

Che grande regalo mi ha fatto Gesù nel poterti accompagnare fin negli ultimi respiri attraverso i quali ci hai trasmesso la tua instancabile voglia di vivere. Ma una voglia di vivere che sprigionava tutta la tua passione e dedizione a costruire il Regno di Dio, perché s'incrementasse nella forma che tu hai amato nella Chiesa, il movimento.

Che tenerezza quando ci hai chiamati perché volevi essere pronto per dare inizio al nuovo gruppetto di ragazzi, hai voluto scegliere i nomi, avevi sottolineato il tuo libro, che avevi dimenticato ad Onno e tutte le telefonate si concludevano:"Stai pronta!"

Tu sicuramente eri pronto,ma perché volevi esserlo ogni giorno,anche quando in uno degli ultimi dialoghi eri tutto desideroso di incontrare i medici perché ti chiarissero la tua situazione dicendomi: «Io voglio sapere come sto perché oggi la realtà non la conosco,ma siccome la realtà è abitata dal Mistero anche oggi stando a letto la voglio imparare».

Oppure uno degli ultimi martedi che insistevi che la Marisa ti portasse dal parrucchiere perché avevi il consiglio di presidenza e anche lì volevi essere a posto: Pronto per il Tuo Signore!

Desidero imparare la tua obbedienza,la tua disponibilità sempre totale al Mistero buono che fa tutte le cose,perché adesso che non sei più visibilmente tra noi, possa accadere la tua ultima raccomandazione: «Occorre che riaccada non COME è accaduto ma Quello che è accaduto, l’impatto con una diversità umana in cui l’avvenimento si rinnovi».

Accompagna me e tutti i tuoi amici ora ancor più di prima, perché ogni giorno possiamo essere mossi dalla tua inesorabile passione per Cristo!!La tua CRIS!!!!



Cristina, un'insegnante


Numerose sono le lettere giunte e che continuano a giungere per la morte di don Giorgio Pontiggia. Anche una poesia è arrivata alla nostra redazione da un anonimo studente dal piglio vagamente "leopardiano" e dal cuore commosso di gratitudine. Ve la presentiamo:





IN MORTE A GIORGIO



Spirto gentil,

or tu giaci immobile de la morte invinto.

già sereno riposi,

infra le celesti beate schiere;

a che pro dunque tal viver nostro

sempre affannandosi

quasi

senza un interrogativo risposto?

Cos’è la vita?

Forse la tomba dell’umana speme.

a che allor passate gioie, allegrie

dispiaceri e tutte l’altre umane passion?

or osservo un cadavere gelato:

natura mi trae

all’assoluta disperazion

Ma pur il cuore ruggisce nel petto

feroce ed incessante,

dal nulla salvando tal nostra vita:

Colui cui dedicasti l’esistenza

chiave è di salvezza,

risposta ultima del fremente cor.

Egli stesso che ci dona la vita

a sé ci riconvoca

quando ora è scritta nel divin disegno.

Smorfie, grinta, burberìa perfino:

tutto in te parlava,

raccontava la Bellezza

incontrata,

amata,

invenita nell’esser seguace del Cristo,

eterno nostro Amante,

inesauribil fonte di gaudio nostro.

Forse

come tu c’insegni

è questa la nostra vita: arder

per ciò che il cor ci riempie,

ultimamente Umani.


da Il Sussidiario.net di mercoledi 21/10/09

martedì 20 ottobre 2009

Morto don Giorgio Pontiggia, maestro di educazione



Per 23 anni è stato rettore dell’Istituto Sacro Cuore Uomo concreto, maestro burbero ma anche vero amico, sapeva affascinare giovani e adulti con la testimonianza quotidiana
Tanti ragazzi ieri, nei corridoi e nelle aule dell’Istituto Sacro Cuore, avevano i lucciconi agli occhi. Lacrime di chi ha perso, oltre che un maestro, un padre: è morto in­fatti, a 69 anni, per gli esiti letali di un tumore che l’affliggeva da tempo, don Giorgio Pontiggia, sacerdote milanese appartenente alla Fraternità di Comu­nione e Liberazione. Per i molti anni in cui ne è stato rettore, dal 1984 al 2007, l’Istituto di Via Rombon gli ha fatto da «casa»: qui egli ha testi­moniato la fede cristiana con gli strumenti dell’educazione, del­la scuola come luogo di forma­zione all’esperienza umana.
Uomo concreto, grande ammi­­nistratore, don Pontiggia sapeva affascinare giovani e adulti te­stimoniando con la vita vissuta il suo essere uomo, cristiano, sacerdote, educatore. Sotto la scorza di modi apparentemente burberi, ta­lora autoritari, celava e dispensava un’inossidabile fedeltà all’amicizia, u­na tenerezza autenticamente paterna, sentimenti di affetto profondo – e ri­cambiato – per i «suoi» ragazzi: di o­gnuno degli allievi morti conservava la fotografia nella sacrestia dell’istituto, ricordandoli ogni giorno nella pre­ghiera. Per queste sue doti, oltre che per il ruolo di responsabile di un’im­portante istituzione scolastica, don Pontiggia era un personaggio notissi­mo e amato nel mondo dell’istruzione a Milano ma anche in Italia. Tutta la sua infaticabile opera di educatore (cominciata negli anni ’70 nella par­rocchia di Santa Maria alla Fontana) è stata documento di ciò che don Gius­sani chiamò «il rischio educativo»: ov­vero il rendere la fede attrattiva trami­te l’incontro con la realtà. La realtà co­me dono di Dio fatto a ognuno, come dato che ci precede, che interpella la nostra libertà; l’esperienza come 'luo­go' che innesca il sommovimento del­la persona e della ragione. Così infatti lo ricorda don Julián Carrón: «Il nostro carissimo don Giorgio Pontiggia ci ha lasciato. La sua dedizione totale all’e­ducazione dei giovani nella sequela di don Giussani resterà sempre per noi una testimonianza unica. Sono in tan­ti che oggi piangeranno la morte di un padre, uno che ha comunicato loro il significato del vivere. La sua passione per ciascuno di loro non potranno di­menticarla più. Quanti possono dire di avere incontrato attraverso di lui la fede come una cosa attrattiva e gran­de! Tutto in lui, fino al temperamento, diceva che essere cristiani significa es­sere uomini, senza censurare o di­menticare nulla. Don Giorgio rimarrà per tutti noi un esempio di una seque­la del carisma nell’oggi della vita del movimento: soprattutto negli ultimi anni, dopo la morte di don Giussani, era ancora più accanito nel volersi im­medesimare coi passi che lo Spirito di Cristo continuava a indicare a ciascu­no di noi per compiere la Sua opera nel mondo. Domandiamo a don Giussani di ottenere per noi la stessa passione perché Cristo sia conosciuto e annunciato nel mondo che abbiamo visto in don Giorgio». Da oggi fino alle 11 di do­mani la camera ardente verrà allestita nell’Istituto Sacro Cuore. I funerali sa­ranno celebrati domani alle 14.45 presso la parrocchia di Sant’Ignazio di Loyola (piazza don Luigi Borotti 5); il corteo funebre muoverà alle 14, sem­pre dal Sacro Cuore.
Domenico Montalto

giovedì 15 ottobre 2009

«Il cuore dell'uomo non ha razza»



15/10/2009 - Ai lavori del Sinodo per l'Africa ha preso parte anche Rose Busingye, Ecco il testo della sua relazione

Rose Busingye.La fede deve penetrare gli strati profondi dell'umano, deve arrivare là dove si formano i criteri di percezione delle cose, deve penetrare anche ciò che è considerato profano e lo trasforma in un bene per tutti.
C'è un punto di partenza. L'inizio è nel gesto di Dio. Se l'uomo ci crede, è la strada perché possa riconoscersi e vivere questa appartenenza, questo attaccamento a Dio, obbedendo alla sua compagnia, la Chiesa, arrivando così alla felicità, alla giustizia e alla pace per se stesso e per tutti. Un uomo che sa da dove viene e dove sta andando. Dalla fede nasce un criterio nuovo di rapportarsi con le cose, con i figli, con la scuola, la politica, l'ambiente.
Per costruire giustizia, riconciliazione e pace non possiamo non partire dal costruire l'umano, aiutare l'uomo a essere se stesso, essere uomo; non partire da un particolare, ma dalla sua totalità. L'uomo è desiderio di giustizia, di pace, di riconciliazione. Il Sinodo per me è un'occasione di scoprire qual è il significato di queste parole, cioè qual è il significato della vita e di tutti problemi che ci sono in Africa e nel mondo intero. Il Sinodo è per me una provocazione a scoprire la piena dignità della vita umana.
Senza la coscienza della nostra umanità non possiamo aiutare noi stessi e tanto meno dare un reale aiuto agli altri. Invece di aiutare gli altri e noi stessi, continueremo a lamentarci, ad offrire soltanto la compassione e, pur di rispondere qualcosa, li inganniamo.
Se uno coglie il significato per sé e il valore della vita umana, tratta se stesso e gli altri bene, ha le ragioni adeguate per il cambiamento della vita e diventa un punto di cambiamento per tutti, come sono stati i monaci benedettini che hanno costruito la civiltà europea. Ma quando anche loro hanno ceduto nella fede, è entrato il dualismo e la divisione, che porta distruzione e caos.
Dalla fede ho visto nascere un popolo nuovo, un popolo cambiato. In Uganda un gruppo di malati di Aids poverissimi vivono spaccando sassi e vendendoli ai costruttori; mangiano una volta al giorno. Quando hanno saputo dello tsunami e poi dell'uragano Katrina in America, quando gli abbiamo chiesto di pregare per le vittime, ci hanno detto: «Sappiamo cosa vuol dire vivere senza casa, senza mangiare. Se appartengono a Dio appartengono anche a noi». Si sono organizzati formando gruppi a spaccare i sassi; alla fine hanno raccolto duemila dollari e li hanno inviati all'ambasciata americana. E quest'anno, dopo il terremoto all'Aquila, hanno detto: «Questi sono in Italia, il Paese del Papa: sono nostri amici, anzi la nostra tribù!», e hanno raccolto e inviato duemila euro. I giornalisti si sono scandalizzati: sono venuti a vedere se questa gente era povera veramente. Secondo loro non è giusto: quando uno fa la carità dà ciò che avanza, non ciò di cui ha bisogno. Una donna malata ha detto loro: «Il cuore dell'uomo è internazionale, non ha razza, non ha colore, e si commuove».

venerdì 9 ottobre 2009

L'educazione del povero



Esistono molti autorevoli studi sulla povertà, ma in Italia non era ancora stata realizzata una ricerca sulla povertà alimentare. Il motivo è molto semplice: l’estrema difficoltà a individuare e raggiungere un campione rappresentativo della popolazione in condizione di indigenza alimentare e il rischio di poca attendibilità delle risposte, a causa della vergogna per la propria condizione e della paura che le informazioni date possano essere utilizzate a proprio svantaggio.


La lacuna ora è stata colmata con la realizzazione de “La povertà alimentare in Italia. Prima indagine quantitativa e qualitativa” realizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà in collaborazione con docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dell’Università di Milano Bicocca e presentata ieri in Campidoglio.



L’indagine ha potuto essere realizzata grazie all’utilizzo della rete del Banco Alimentare, composta da circa 8.000 opere sociali distribuite su tutto il territorio nazionale che, ricevendo dal Banco gli alimenti da distribuire direttamente ai bisognosi, ha rappresentato il veicolo ideale per individuare un campione valido della popolazione afflitta da indigenza alimentare. Chi si presenta quotidianamente alle porte di questi enti a chiedere sostegno instaura infatti un naturale rapporto di fiducia con chi lo aiuta senza secondi fini.



Quali sono le conclusioni principali di questa ricerca? Una fra tutte. La povertà, che colpisce oggi in italia 3 milioni di persone, ha come origine principale la solitudine, l’allentamento di quei legami familiari, di quella rete di amicizie, di quell’appartenenza a comunità locali, circoli, movimenti, parrocchie, realtà sociali di qualunque credo, in una parola, di quell’intreccio di legami personali che hanno fatto e fanno il nostro tessuto sociale e la nostra welfare society, caratteristica più profonda del nostro Paese. Tutto quello che distrugge questo sistema naturale e storico diventa fattore di ineguaglianza

Oggi può diventare un “nuovo povero” chi ha in casa un malato cronico da curare; chi perde il lavoro a 50 anni per una improvvisa crisi aziendale; chi, senza una pensione adeguata, si ritrova anziano senza parenti che lo sostengono; chi si trova ad affrontare separazioni matrimoniali e non riesce a mantenersi da solo. La famiglia che si disgrega può segnare anche l’inizio di un’esclusione nei casi di gravidanza precoce, malattia mentale, tossicodipendenza, abusi. Nella definizione di povertà non si può più considerare solo il reddito, ma bisogna includere la vulnerabilità, il rischio, la marginalizzazione, la limitazione nelle scelte.



Il vero indigente alimentare non è solo quello che non ha il pane: è colui che non riesce a migliorare la propria condizione. Così, questa indagine conduce a capire che la questione cruciale nella lotta alla povertà è l’educazione del povero a ricostruire questi legami, a prendere iniziativa verso la propria condizione. La povertà non si potrà mai vincere intervenendo dall'alto, ma accompagnando la capacità di azione delle persone svantaggiate ed emarginate a essere protagoniste di un possibile cambiamento del proprio destino. La stima per quanto ogni essere umano è in grado di fare è proprio il cuore di ciò che chiamiamo “sussidiarietà”.



Il Banco Alimentare italiano e la rete di realtà sociali con cui opera, oltre a soddisfare un'esigenza primaria come quella alimentare, favoriscono la tessitura di rapporti tra uomini, aiutano le persone più bisognose a giudicare la propria condizione e tutta la realtà con uno sguardo diverso.

Giorgio Vittadini

(Tratto da Il Giornale, 9 ottobre 2009)

mercoledì 7 ottobre 2009



Le 10 righe della tredicesima Giornata Nazionale della Colletta Alimentare

La confusione e lo smarrimento, in questo tempo di crisi, sembrano diventati lo stato d'animo più diffuso tra la gente.
Imbattersi, però, in volti lieti e grati, per la sorpresa di essere voluti bene, scatena un desiderio e un interesse che trascinano fuori dal cinismo e dalla disperazione.
Per questo anche quest'anno proponiamo di partecipare alla Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, perché anche un solo gesto di carità cristiana, come condividere la spesa con i più poveri, introduce nella società un soggetto nuovo, capace di vera solidarietà e condivisione del destino dei nostri fratelli uomini".

IMPEGNO NEL SEGNO DELLA SUSSIDIARIETÀ - Una «rete» per battere la povertà alimentare


Lo studio sulla povertà alimentare elaborato dalla Fondazione per la Sussidiarietà con ricercatori di più università ha un'origine paradossale: è partito dalla risposta (già in atto) a un problema, per risalire all'analisi delle dimensioni quantitative e qualitative della domanda sottostante. Un punto di vista non convenzionale che ha valorizzato – con inedite elaborazioni – sia le informazioni statistiche ufficiali, sia il giacimento di informazioni in possesso degli enti caritativi che partecipano alla rete del Banco Alimentare. È stata così messa a punto una stima oggettiva dell' incidenza di povertà alimentare nel nostro Paese: 4,4% delle famiglie residenti (oltre un milione di unità) e 5,1% degli individui residenti (quasi tre milioni) e nello stesso tempo una stima della povertà assistita (almeno in parte) distinta per regioni, province, sistemi locali del lavoro. La differenza tra il numero delle persone che oggettivamente sono al di sotto della soglia di povertà alimentare (222 euro al mese di spesa per una famiglia di due persone) e il numero degli assistiti, offre un'attendibile stima del divario quantitativo e qualitativo da colmare per soccorrere più adeguatamente chi già riceve qualche forma di aiuto e chi ne è completamente escluso (almeno 700mila persone). L'impegno per una conoscenza più dettagliata si collega a un interesse per le politiche pubbliche, che devono prendere in maggior considerazione la componente alimentare della povertà e investire risorse adeguate per superare il paradosso della scarsità (per alcuni) nell'abbondanza (di molti). L'auspicio è che le analisi condotte trovino un ascolto effettivo e stiano alla base di nuove politiche sociali. Colpisce in proposito l'esperienza degli Stati Uniti, dove gli studi sulla povertà (iniziati 50 anni fa) sono in rapporto diretto con la messa a punto e il monitoraggio di 70 politiche federali a favore dei poveri. I dati sulla povertà alimentare assistita considerati nell'indagine provengono dagli enti (ben 7.705) che aderiscono alla Rete Banco Alimentare che nel loro insieme hanno assistito regolarmente nel 2007 un milione e mezzo di indigenti, pari al 65% dei 2 milioni e 300mila destinatari degli aiuti alimentari Ue, e rappresentano il 51% dei circa 15mila enti che distribuiscono tali aiuti. La speranza è di poter estendere l'analisi ad altre reti e di costituire un solido Osservatorio sulla povertà alimentare nel nostro Paese, in grado di monitorare il bisogno e la risposta effettiva.
Nell'attuale crisi economico-sociale, sono due le priorità politiche da perseguire: sostenere gli enti caritativi ed assistenziali che erogano aiuti, perché senza di loro i poveri diventerebbero ancora più poveri, numerosi e soli; coordinare meglio gli sforzi tra le istituzioni pubbliche, cui spettano le politiche generali e i finanziamenti necessari, le imprese della filiera agroalimentare che nel corso dell'anno danno un contributo rilevante alla necessaria 'colletta alimentare continua', le organizzazioni caritative e non profit perché prendano più coscienza del loro insostituibile ruolo operativo, informativo, educativo. La rete degli enti considerati nell'indagine mostra una capacità sociale e comunitaria di risposta al bisogno particolarmente mirata, in grado di affrontare il problema alimentare e di creare relazioni fiduciarie indispensabili alle persone per uscire dalla condizione di disagio e di emarginazione. Tra le cause principali della povertà c'è infatti la solitudine, che richiede forme di aiuto materiali capaci di generare anche nuovi rapporti personali e sociali.
Bisogna dunque impedire che questa rete si indebolisca, erogando maggiori aiuti pubblici e privati, in modo coordinato e tempestivo. Gli aiuti aggiuntivi servono anche a potenziare i servizi, a promuovere l'innovazione gestionale, a sviluppare il sistema informativo degli enti coinvolti. Nell'ambito delle difficoltà e delle risorse per andare oltre l'indigenza va considerata attentamente anche la gara contro il tempo, da cui dipende l'efficacia, l'entità e la sostenibilità delle politiche e dei singoli interventi.
Giancarlo Rovati Avvenire 07/10/09

martedì 6 ottobre 2009

Roba da uomini

C'è una formula che ormai è entrata in maniera stabile nel vocabolario della nostra cultura: «Emergenza educativa». Indica la consapevolezza che il vuoto dell’educazione, l’avere abdicato per un paio di generazioni a questo compito fondamentale, ha generato una situazione drammatica sotto gli occhi di tutti. Non era una consapevolezza di molti, all’inizio. Ora sì. È diffusa. Ed è un bene, perché la percezione del problema quantomeno è un primo passo per affrontarlo…
Tanto più che a questo primo passo se n’è aggiunto un altro, deciso, legato all’espressione finita, non a caso, sulla copertina di quel rapporto-proposta appena diffuso dal “Comitato progetto culturale” della Conferenza episcopale italiana (e di cui si parla abbondantemente in questo numero): La sfida educativa. Come dire: abbiamo accettato la provocazione e ora la partita è in corso. È difficile, si giocherà su tempi lunghi (l’educazione sarà al centro dei prossimi dieci anni di attività dei vescovi italiani), ma siamo in campo. Consapevoli che in gioco c’è il destino di tutti, non solo degli educatori di professione e degli “addetti ai lavori” scolastici, siano professori o studenti. Osserva il cardinale Camillo Ruini nella prefazione di quel volume: «Avendo come scopo la formazione e lo sviluppo del soggetto umano, l’educazione è intrinsecamente connessa ai grandi interrogativi riguardo l’uomo (…): in realtà, pur con diversi gradi di responsabilità secondo il ruolo sociale di ciascuno, siamo tutti in qualche modo attori del processo educativo».

Ma che cosa vuol dire «essere tutti attori del processo educativo»? Che cosa significa che l’educazione è una questione che riguarda me, che abbia o non abbia figli, che sia giovane o anziano, megastipendiato o neodisoccupato? E soprattutto, che strumenti ho per affrontare questa sfida?
È qui che si innesta - con tutta la sua potenza - la proposta educativa di don Giussani. Pochi giorni fa, nella Giornata d’inizio anno (un momento di lavoro rivolto a tutti gli aderenti di Cl e di cui trovate il testo nella “Pagina uno”), Julián Carrón la sintetizzava così, sorprendendone l’origine: «Mi stupisce rileggere quello che don Giussani dice della prima ora di lezione: “Fin dalla prima ora di scuola ho sempre detto: ‘Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per giudicare le cose che io vi dirò, e le cose che io vi dirò sono un’esperienza che è l’esito di un lungo passato, duemila anni’”. Cioè, lui sapeva che non poteva aiutare se non metteva in moto l’io di quelle persone; che non bastava quello che lui diceva, né bastava il testimone. Era consapevole che poteva aiutare soltanto offrendo un metodo perché potessero giudicare tutte le cose che diceva. Fin dall’inizio don Giussani sfida il cuore di quelli che aveva davanti. È l’esaltazione della persona».

Una sfida rivolta al cuore. Questo è il metodo. Roba da uomini. E che, in quanto tale, si spinge molto più in là dei banchi di scuola: riguarda la vita. Certo, quando hai a che fare con i tuoi figli, o con i tuoi studenti, è palese. Ma basta guardare con lealtà la nostra esperienza per accorgerci che, in fondo, non esiste un rapporto umano - dall’amicizia più intensa all’incontro più occasionale - che sfugga a questa dinamica, che non porti dentro di sé questa possibilità di una sfida reciproca a fare insieme un passo di conoscenza, a spingersi di più nella realtà. Non c’è rapporto che non abbia una portata educativa, anzitutto per sé. È la stoffa stessa della vita, l’educazione. Roba da uomini, appunto. Da chi accetta la sfida.
EDITORIALI
RIVISTA TRACCE nr. 9

Il cristianesimo non è filosofia ma unità di ragione e carità -La meditazione del Papa all'inizio dei lavori del Sinodo dei vescovi per l'Africa


Nella mattina di lunedì 5 ottobre, durante la celebrazione dell'Ora Terza che ha aperto i lavori della prima congregazione generale dell'assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei vescovi, il Papa ha pronunciato a braccio la seguente meditazione.

Cari fratelli e sorelle,
abbiamo dato inizio ora al nostro incontro sinodale invocando lo Spirito Santo e sapendo bene che noi non possiamo in questo momento realizzare quanto c'è da fare per la Chiesa e per il mondo: solo nella forza dello Spirito Santo possiamo trovare quanto è retto e poi attuarlo. E tutti i giorni inizieremo il nostro lavoro invocando lo Spirito Santo con la preghiera dell'Ora Terza "Nunc sancte nobis Spiritus". Perciò vorrei adesso, insieme con voi, meditare un po' questo inno, che apre il lavoro di ogni giorno, sia adesso nel Sinodo, ma anche dopo nella vita nostra quotidiana.
"Nunc sancte nobis Spiritus". Noi preghiamo che la Pentecoste non sia solo un avvenimento del passato, il primo inizio della Chiesa, ma sia oggi, anzi adesso: "nunc sancte nobis Spiritus". Preghiamo che il Signore adesso realizzi l'effusione del suo Spirito e ricrei di nuovo la sua Chiesa e il mondo. Ci ricordiamo che gli apostoli dopo l'Ascensione non hanno iniziato - come forse sarebbe stato normale - a organizzare, a creare la Chiesa futura. Hanno aspettato l'azione di Dio, hanno aspettato lo Spirito Santo. Hanno compreso che la Chiesa non si può fare, che non è il prodotto della nostra organizzazione: la Chiesa deve nascere dallo Spirito Santo. Come il Signore stesso è stato concepito ed è nato dallo Spirito Santo, così anche la Chiesa deve essere sempre concepita e nascere dallo Spirito Santo. Solo con questo atto creativo di Dio noi possiamo entrare nell'attività di Dio, nell'azione divina e collaborare con Lui. In questo senso, anche tutto il nostro lavoro al Sinodo è un collaborare con lo Spirito Santo, con la forza di Dio che ci previene. E sempre dobbiamo di nuovo implorare il compiersi di questa iniziativa divina, nella quale noi possiamo poi essere collaboratori di Dio e contribuire a far sì che di nuovo nasca e cresca la sua Chiesa.
La seconda strofa di questo inno - "Os, lingua, mens, sensus, vigor, / Confessionem personent: / Flammescat igne caritas, / accendat ardor proximos" - è il cuore di questa preghiera. Imploriamo da Dio tre doni, i doni essenziali della Pentecoste, dello Spirito Santo: confessio, caritas, proximos. Confessio: c'è la lingua di fuoco che è "ragionevole", dona la parola giusta e fa pensare al superamento di Babilonia nella festa di Pentecoste. La confusione nata dall'egoismo e dalla superbia dell'uomo, il cui effetto è quello di non poter comprenderci più gli uni gli altri, va superata dalla forza dello Spirito, che unisce senza uniformare, che dà unità nella pluralità: ciascuno può capire l'altro, anche nelle diversità delle lingue. Confessio: la parola, la lingua di fuoco che il Signore ci dà, la parola comune nella quale siamo tutti uniti, la città di Dio, la santa Chiesa, nella quale è presente tutta la ricchezza delle diverse culture. Flammescat igne caritas. Questa confessione non è una teoria ma è vita, è amore. Il cuore della santa Chiesa è l'amore, Dio è amore e si comunica comunicandoci l'amore. E infine il prossimo. La Chiesa non è mai un gruppo chiuso in sé, che vive per sé come uno dei tanti gruppi che esistono nel mondo, ma si contraddistingue per l'universalità della carità, della responsabilità per il prossimo.
Consideriamo uno per uno questi tre doni. Confessio: nel linguaggio della Bibbia e della Chiesa antica questa parola ha due significati essenziali, che sembrano opposti ma che in effetti costituiscono un'unica realtà. Confessio innanzitutto è confessione dei peccati: riconoscere la nostra colpa e conoscere che davanti a Dio siamo insufficienti, siamo in colpa, non siamo nella retta relazione con Lui. Questo è il primo punto: conoscere se stessi nella luce di Dio. Solo in questa luce possiamo conoscere noi stessi, possiamo capire anche quanto c'è di male in noi e così vedere quanto deve essere rinnovato, trasformato. Solo nella luce di Dio ci conosciamo gli uni gli altri e vediamo realmente tutta la realtà.
Mi sembra che dobbiamo tener presente tutto questo nelle nostre analisi sulla riconciliazione, la giustizia, la pace. Sono importanti le analisi empiriche, è importante che si conosca esattamente la realtà di questo mondo. Tuttavia queste analisi orizzontali, fatte con tanta esattezza e competenza, sono insufficienti. Non indicano i veri problemi perché non li collocano alla luce di Dio. Se non vediamo che alla radice vi è il Mistero di Dio, le cose del mondo vanno male perché la relazione con Dio non è ordinata. E se la prima relazione, quella fondante, non è corretta, tutte le altre relazioni con quanto vi può essere di bene, fondamentalmente non funzionano. Perciò tutte le nostre analisi del mondo sono insufficienti se non andiamo fino a questo punto, se non consideriamo il mondo nella luce di Dio, se non scopriamo che alla radice delle ingiustizie, della corruzione, sta un cuore non retto, sta una chiusura verso Dio e, pertanto, una falsificazione della relazione essenziale che è il fondamento di tutte le altre.
Confessio: comprendere nella luce di Dio le realtà del mondo, il primato di Dio e infine tutto l'essere umano e le realtà umane, che tendono alla nostra relazione con Dio. E se questa non è corretta, non arriva al punto voluto da Dio, non entra nella sua verità, anche tutto il resto non è correggibile perché nascono di nuovo tutti i vizi che distruggono la rete sociale, la pace nel mondo.
Confessio: vedere la realtà nella luce di Dio, capire che in fondo le nostre realtà dipendono dalla nostra relazione col nostro Creatore e Redentore, e così andare alla verità, alla verità che salva. Sant'Agostino, riferendosi al capitolo 3° del Vangelo di san Giovanni, definisce l'atto della confessione cristiana con "fare la verità, andare alla luce". Solo vedendo nella luce di Dio le nostre colpe, l'insufficienza della nostra relazione con Lui, camminiamo alla luce della verità. E solo la verità salva. Operiamo finalmente nella verità: confessare realmente in questa profondità della luce di Dio è fare la verità.
Questo è il primo significato della parola confessio, confessione dei peccati, riconoscimento della colpevolezza che risulta dalla nostra mancata relazione con Dio. Ma un secondo significato di confessione è quello di ringraziare Dio, glorificare Dio, testimoniare Dio. Possiamo riconoscere la verità del nostro essere perché c'è la risposta divina. Dio non ci ha lasciati soli con i nostri peccati; anche quando la nostra relazione con la Sua maestà è ostacolata, Egli non si ritira ma viene e ci prende per mano. Perciò confessio è testimonianza della bontà di Dio, è evangelizzazione. Potremmo dire che la seconda dimensione della parola confessio è identica all'evangelizzazione. Lo vediamo nel giorno di Pentecoste, quando san Pietro, nel suo discorso, da una parte accusa la colpa delle persone - avete ucciso il santo e il giusto -, ma, nello stesso momento, dice: questo Santo è risorto e vi ama, vi abbraccia, vi chiama a essere suoi nel pentimento e nel battesimo, come pure nella comunione del suo Corpo. Nella luce di Dio, confessare diventa necessariamente annunciare Dio, evangelizzare e così rinnovare il mondo.
La parola confessio però ci ricorda ancora un altro elemento. Nel capitolo 10° della Lettera ai Romani san Paolo interpreta la confessione del capitolo 30° del Deuteronomio. In quest'ultimo testo sembra che gli ebrei, entrando nella forma definitiva dell'alleanza, nella Terra Santa, abbiano paura e non possano realmente rispondere a Dio come dovrebbero. Il Signore dice loro: non abbiate paura, Dio non è lontano. Per arrivare a Dio non è necessario attraversare un oceano ignoto, non sono necessari viaggi spaziali nel cielo, cose complicate o impossibili. Dio non è lontano, non è dall'altra parte dell'oceano, in questi spazi immensi dell'universo. Dio è vicino. È nel tuo cuore e sulle tue labbra, con la parola della Torah, che entra nel tuo cuore e si annuncia nelle tue labbra. Dio è in te e con te, è vicino.
San Paolo sostituisce, nella sua interpretazione, la parola Torah con la parola confessione e fede. Dice: realmente Dio è vicino, non sono necessarie spedizioni complicate per arrivare a Lui, né avventure spirituali o materiali. Dio è vicino con la fede, è nel tuo cuore, e con la confessione è sulle tue labbra. È in te e con te. Realmente Gesù Cristo con la sua presenza ci dà la parola della vita. Così entra, nella fede, nel nostro cuore. Abita nel nostro cuore e nella confessione portiamo la realtà del Signore al mondo, a questo nostro tempo. Mi sembra questo un elemento molto importante: il Dio vicino. Le cose della scienza, della tecnica comportano grandi investimenti: le avventure spirituali e materiali sono costose e difficili. Ma Dio si dona gratuitamente. Le cose più grandi della vita - Dio, amore, verità - sono gratuite. Dio si dà nel nostro cuore. Direi che dovremmo spesso meditare questa gratuità di Dio: non c'è bisogno di grandi doni materiali o anche intellettuali per essere vicini a Dio. Dio si dona gratuitamente nel suo amore, è in me nel cuore e sulle labbra. Questo è il coraggio, la gioia della nostra vita. È anche il coraggio presente in questo Sinodo, perché Dio non è lontano: è con noi con la parola della fede. Penso che anche questa dualità sia importante: la parola nel cuore e sulle labbra. Questa profondità della fede personale, che realmente mi collega intimamente con Dio, deve poi essere confessata: fede e confessione, interiorità nella comunione con Dio e testimonianza della fede che si esprime sulle mie labbra e diventa così sensibile e presente nel mondo. Sono due cose importanti che vanno sempre insieme.
Poi l'inno del quale parliamo indica anche i luoghi in cui si trova la confessione: "os, lingua, mens, sensus, vigor". Tutte le nostre capacità di pensare, parlare, sentire, agire, devono risuonare - il latino usa il verbo "personare" - la parola di Dio. Il nostro essere, in tutte le sue dimensioni, dovrebbe essere riempito da questa parola, che diventa così realmente sensibile nel mondo, che, tramite la nostra esistenza, risuona nel mondo: la parola dello Spirito Santo.
E poi brevemente altri due doni. La carità: è importante che il cristianesimo non sia una somma di idee, una filosofia, una teologia, ma un modo di vivere, il cristianesimo è carità, è amore. Solo così diventiamo cristiani: se la fede si trasforma in carità, se è carità. Possiamo dire che anche lógos e caritas vanno insieme. Il nostro Dio è, da un parte, lógos, ragione eterna. Ma questa ragione è anche amore, non è fredda matematica che costruisce l'universo, non è un demiurgo; questa ragione eterna è fuoco, è carità. In noi stessi dovrebbe realizzarsi questa unità di ragione e carità, di fede e carità. E così trasformati nella carità diventare, come dicono i Padri greci, divinizzati. Direi che nello sviluppo del mondo abbiamo questo percorso in salita, dalle prime realtà create fino alla creatura uomo. Ma questa scala non è ancora finita. L'uomo dovrebbe essere divinizzato e così realizzarsi. L'unità della creatura e del Creatore: questo è il vero sviluppo, arrivare con la grazia di Dio a questa apertura. La nostra essenza viene trasformata nella carità. Se parliamo di questo sviluppo pensiamo sempre anche a questa ultima meta, dove Dio vuole arrivare con noi.
Infine, il prossimo. La carità non è qualcosa di individuale, ma universale e concreta. Oggi nella Messa abbiamo proclamato la pagina evangelica del buon samaritano, in cui vediamo la duplice realtà della carità cristiana, che è universale e concreta. Questo samaritano incontra un ebreo, che quindi sta oltre i confini della sua tribù e della sua religione. Ma la carità è universale e perciò questo straniero in tutti i sensi è per lui prossimo. L'universalità apre i limiti che chiudono il mondo e creano le diversità e i conflitti. Nello stesso tempo, il fatto che si debba fare qualcosa per l'universalità non è filosofia ma azione concreta. Dobbiamo tendere a questa unificazione di universalità e concretezza, dobbiamo aprire realmente questi confini tra tribù, etnie, religioni all'universalità dell'amore di Dio. E questo non in teoria, ma nei nostri luoghi di vita, con tutta la concretezza necessaria. Preghiamo il Signore che ci doni tutto ciò, nella forza dello Spirito Santo. Alla fine l'inno è glorificazione del Dio trino ed unico e preghiera di conoscere e di credere. Così la fine ritorna all'inizio. Preghiamo affinché possiamo conoscere, conoscere diventi credere e credere diventi amare, azione. Preghiamo il Signore affinché ci doni lo Spirito Santo, susciti una nuova Pentecoste, ci aiuti a essere i suoi servitori in questa ora del mondo. Amen.



(©L'Osservatore Romano - 5- 6 ottobre 2009)