mercoledì 31 marzo 2010

DAL MAGISTERO UNA NECESSARIA RIFORMA INTELLETTUALE




Mons. Negri, Vescovo di San Marino-Montefeltro, al Papa

Santità,
la menzogna e la violenza diabolica si avventano, ogni giorno, sulla Sua Sacra Persona.
Lei vive di fronte a tutta la Chiesa una singolarissima partecipazione alla Passione del Signore Gesù Cristo.
Di fronte alla Chiesa e al mondo Lei sta percorrendo “la via dolorosa”. Ci senta accanto a Lei, con un affetto infinito e con la volontà di confortare, per quanto possiamo, questo suo dolore. Nel suo dolore, Santità, vibra già tutta la potenza di Dio che, in questo dolore e per questo dolore, vince oggi il male del mondo.
Un grandissimo e comune amico, il Presidente Marcello Pera, mi ha scritto in questi giorni: com’è possibile che un miliardo di cristiani assistano in silenzio ed impotenti al tentativo di distruggere il Papa, senza rendersi conto che dopo questo non ci sarà più salvezza per nessuno.
Santità, è necessario che tutti noi lavoriamo, sotto di Lei, ad una grande riforma dell’intelligenza e del cuore della Chiesa, fondata sull’adesione incondizionata al Suo Magistero.
Solo questo può approfondire il senso della nostra dignità, di fronte a noi stessi e al mondo, e dell’ inderogabile compito della missione, che ci è conferito dal nostro battesimo.
Troppe cattive teologie, troppi vacui esegetismi, molte volte in polemica esplicita con il suo Magistero, avviliscono oggi la cultura della Chiesa.

A questa grande riforma dell’intelligenza e del cuore della Chiesa seguirà necessariamente una vera riforma morale, premessa di una nuova fioritura di santità. E cosi rifiorirà la missione della Chiesa in questo mondo, forte, lieta e sacrificata. Nei momenti più gravi della sua storia, la Chiesa ha sempre sperimentato tutto questo. Oggi, come allora, accoglieremo la grazia di questa sofferenza per vivere anche più profondamente le nostre responsabilità.
Santità Lei conosce i nostri cuori, sa che ci stringeremo in un abbraccio alla Sua Persona, pronti a morire per Lei e per la Chiesa.
Santità perdoni il nostro ardire e ci benedica
30 Marzo 2010

martedì 30 marzo 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón- Milano, 24 marzo 2010 nr.11

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 342-346.
• Canto “My Song is Love Unknown”
• Canto “Balada de caridade”
«La morale è imitare Dio nella carità». E qui dobbiamo essere molto attenti perché ho visto che già col passaggio precedente («Perfetti come il padre vostro») incomincia a introdursi una modalità di concepire la perfezione che non è secondo la natura di quanto abbiamo detto, perché c’è sempre in agguato il rischio che, a un certo momento, usiamo le parole non a partire da quello che la Scuola di comunità dice, ma da quello che pensiamo noi; se questo capita con la parola “perfezione”,
immaginatevi con le parole “morale” e “imitare”: siamo già smarriti, fuori strada. Per questo, mi raccomando, cominciamo a guardare insieme che cosa intendiamo noi per “imitare” o per “morale”: di solito, qualcosa che dobbiamo cercare di fare, un’imitazione di un altro, ma sempre qualcosa in fondo di estrinseco: copiare il modello di un altro, vedere un altro, cercare di fare come un altro.
Adesso, con questa immagine, leggiamo Giussani che ci dice: «La carità nel suo valore originale, che si identifica col sangue di Dio, con la vita di Dio», e per farci capire che cosa vuol dire, cita la frase di un inno: «La fonte è in Te dell’essere», la fonte dell’essere, del mio essere è in Te. Provate a immaginare il piccolo feto concepito dalla madre, tutto proviene dal corpo della madre, «infatti, è
parte del corpo di sua madre come il naso di sua madre è parte del corpo di sua madre, come il polmone di sua madre è parte del corpo di sua madre» cercando di arrivare perfino ai particolari, descrivendo ogni fibra come parte di sua madre; «se questo piccolo feto potesse essere consapevole, si sentirebbe fluire tutto dall’organismo di sua madre, sangue, nervi… . Pensate che razza di dipendenza totale». Cerchiamo di immedesimarci: che razza di dipendenza totale dovrebbe essere
l’autocoscienza, la coscienza di sé! E dice ancora: «L’uomo deriva da Dio [...] infinitamente di più che un bambino nasca dalle viscere di sua madre [guardate come siamo lontani noi da questa autocoscienza]; e mentre è appena accennato nelle viscere di sua madre, sua madre è tutto, tutto, nel senso letterale della parola. Se il bambino fosse autocosciente direbbe: “Tu sei tutto per me”». «Ora, se la carità è [...] il dinamismo di quel movimento senza fine e senza sponde che è Dio [se la natura di Dio, da cui io provengo totalmente, è la carità] [...], tutto ciò che nascesse da questo mare di dono e di commozione […] avrebbe lo stesso metodo, avrebbe la stessa vibrazione, avrebbe la stessa mossa, avrebbe la stessa dinamica, avrebbe la stessa legge: sarebbe carità». Come possiamo capire che Dio è questo mare di commozione? Guardiamo a noi quando siamo commossi, quando la commozione domina ogni fibra del nostro essere e pensate: Dio è questo “alla grande”. Per noi questo è semplicemente un riverbero di quel mare di commozione che è Dio, tanto è vero che
quando lo vediamo in un altro, quando vediamo questa commozione in un altro, diciamo: «Ma cosa ti è successo?»; noi vediamo che quell’essere che abbiamo davanti partecipa dello stesso mare di commozione che lo sta originando ora, e ci viene la voglia e il desiderio di essere commossi così, di partecipare a questa commozione, come mi diceva uno: «Io voglio guardare così, io voglio commuovermi così». Che Dio sia carità, che Dio sia questo mare di commozione, che sia l’origine del mio essere, vuol dire che Dio vuole condividere con noi questa commozione. E tutto ciò che
nasce da Lui ha la stessa vibrazione. Così noi possiamo adesso ritornare alla parola imitare e dire: «Imitare Dio è questo», non è qualcosa che è fuori di me, no, Dio è più me di me stesso. Posso imitare soltanto se partecipo di questa vibrazione; per questo, se noi stacchiamo questa seconda parte da quella precedente, iniziano i problemi, come mi testimoniate scrivendo (cito una mail): «“Anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri; morale è imitare Dio in questo, seguire Gesù e
imitare il Padre”. Spiegami un po’ come faccio io ad amare i miei genitori! Per me è impossibile quando sento da una madre che faccio schifo e me lo ripete una quantità innumerevole di volte, e
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quando un padre non prende mai le mie difese, ma solo quelle di mia madre, quando una madre non ascolta mai sua figlia e il padre fa finta di ascoltarla, ma poi fa di testa sua (potrei farti un miliardo di questi esempi)». Ebbene: può sembrare impossibile farcela, ma neanche uno così può evitare di partecipare a questa commozione dell’Essere per cui è libero nonostante la madre gli dica che fa
schifo, perché quella vibrazione dell’Essere è più forte di quello che dice la madre. È questo che Gesù ha introdotto nella vita, per liberarci da qualsiasi sguardo che ci riduca allo schifo che facciamo. Per questo ci conviene.


Affrontando questo capitolo, a partire da quella frase di San Giovanni: «Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri», il contraccolpo primo per me è stato che io, se sono leale come per qualche momento lo sono stato di fronte a quel testo, dico: «Io sono fatto per essere investito da quel mare di commozione e per investire la realtà e l’altro così», e poi viene fuori quella domandina: «Ma è possibile?»; ecco, io dico sì non perché ho ragionato, l’ho capito, ma
perché l’ho visto, l’ho visto e lo vedo. E qui racconto due brevi fatti perché l’ho visto ultimamente nel posto dove uno pensa sia impossibile, il carcere di massima sicurezza; con alcuni amici siamo stati lì a passare una giornata due sabati fa. Il primo fatto è questo. In tutte le carceri non esiste il mangiare insieme a mezzogiorno, non esiste la mensa, si mangia in cella due a due, non solo
perché c’è un problema di sicurezza, ma perché i detenuti non mangerebbero mai insieme, i primi che si rifiutano sono loro stessi perché all’interno del carcere ci sono “regole”, a seconda della pena o della condanna che hai, non esiste l’amicizia, normalmente non ci si rivolge neanche la parola. Io ho mangiato insieme ad alcuni amici con sessanta carcerati e mi hanno raccontato che quella da un po’ di mesi è la normalità, da quando i detenuti hanno iniziato a lavorare all’interno del carcere grazie alla cooperativa Giotto che li fa lavorare. Io, guardando, dicevo: «Questi hanno incontrato quello sguardo commosso di cui si parla nel testo attraverso detenuti convertiti, attraverso gli amici che entrano in carcere per farli lavorare», e vedevo che cominciavano a guardarsi definiti da quello sguardo che ricevevano, da quello sguardo di commozione che solo Cristo quando ti abbraccia genera, e hanno cominciato a guardarsi tra di loro dicendo: «Ciao, come ti chiami? Mangiamo insieme?». Si capisce già così, ma per chi frequenta il carcere è una
roba fuori dal mondo ed è impressionante! L’altro fatto è che alcuni di questi carcerati ultimamente si sono convertiti, hanno chiesto i sacramenti, in particolare due hanno chiesto il battesimo. Vi leggo la lettera che uno dei due, un cinese, ha scritto ai suoi amici carcerati perché questa lettera ha commosso me: «Carissimi amici, ho visto che questa strada che mi prepara al battesimo è la scelta più grande che abbia mai fatto nella vita. Da quel momento la mia vita ha trovato un senso e credo che su questa strada sarà sempre più certa. Da quando la sto seguendo mi sono accorto di come mi sta cambiando anche il carattere. Per esempio, una volta ero molto
nervoso e scattavo subito quando qualcosa non andava o mi dava fastidio e invece adesso mi trovo a essere molto calmo e sereno di fronte alle cose che succedono perché nella mia mente Gesù mi corregge e mi mostra come devo vivere e dove devo andare. Il vangelo di Marco, che ha scritto la storia di Gesù, e che sto leggendo, mi è piaciuto molto e mi ha colpito quello che fa Gesù e come tratta le cose e le persone. E così mi trovo a “copiare” quello che faceva Gesù nel superare le
difficoltà e nell’affrontare le cose. Io non posso fare i miracoli, perché li fa solo Lui, ma vedo che Lui li sta facendo per me e per voi. Ringrazio Dio che mi dà una seconda vita, perché per quello che ho fatto avrei dovuto essere rimandato in Cina e lì rischiavo la pena di morte. Ma Gesù mi ha salvato facendomi rimanere qui. Come nome cristiano ho scelto il nome di Andrea, perché è uno dei primi due che hanno incontrato Gesù e l’hanno seguito. Voglio salutare tutti e vi assicuro che
prego per voi perché possiate superare tutte le difficoltà e uscire dal carcere quanto prima possibile. E sono sicuro che il Signore mi ascolta perché sono l’unico cinese che prega».

Per chi mi domanda se è possibile, questa è la risposta; ciascuno può immedesimarsi con questo cinese che è in un carcere: dopo tutto quanto ha fatto, niente gli ha impedito di essere investito da una cosa così, che gli fa leggere il Vangelo come nemmeno noi, tante volte, lo leggiamo: ma chi di voi, leggendo il Vangelo, si è stupito davanti a come Gesù tratta le cose e le persone? Perché lui si
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stupisce? Perché per l’esperienza che sta facendo può riconoscere quello di cui fa esperienza e allora si rende conto che lì, nel Vangelo, c’è questa modalità nuova di trattare tutti: per il cambiamento che è successo in lui.


Per raccontare l’esperienza che ho fatto volevo leggere velocissimamente un passo del tuo intervento che c’è come Pagina Uno sul Tracce di marzo, la sintesi all’Assemblea Responsabili dell’Italia a Riva del Garda: «“La grande questione è non cambiare metodo”. Che cosa significa non cambiare metodo?“Andare dietro a quello che accade”, seguire la grazia che accade, che è per te ed è per me. Tutta la questione del percorso di questi anni sta qui: se ci siamo lasciati travolgere da quello che accadeva». Racconto un episodio che descrive in maniera lampante questo. Sono andato a trovare a casa un signore che è senza lavoro, un’amica che ha il figlio di
questo signore che va a scuola con lei mi ha detto se andavamo a trovarlo per aiutarlo a trovare un lavoro. Famiglia molto disagiata, lui ha tre figli, ha perso la moglie quando i bambini erano piccoli, un bambino non è riuscito a tenerlo e l’ha mandato in orfanotrofio, adesso i ragazzi sono grandi, il più piccolo a quattordici anni è rientrato con il papà, adesso ha sedici anni, la situazione è drammatica, lui è a casa dal lavoro da due anni. Tu entri in questa casa povera e c’è lui che
inizia a raccontarti le peripezie che sta vivendo, e tu sei già lì che cerchi di aiutarlo e poi dopo ti commuovi di lui e capisci che non lo aiuti neanche se gli trovi il lavoro, che il suo cuore è di più, mendica di più, tant’è che tu hai spostato il centro dell’attenzione e con lui ho detto: «Amico, noi dobbiamo iniziare a lavorare, al di là che sia retribuito o non retribuito, iniziamo a lavorare, ad
alzarci la mattina: è possibile vivere!». Lì è accaduto il miracolo della Sua presenza, il volto trasfigurato di Angelo: siamo entrati come se fosse stato biondo e siamo usciti che era ricciolo e nero, da non credere, un’altra persona, un altro! Esce raggiante e mi fa: «Ho capito», per dieci volte e più ci dice: «Ho capito, ho capito», gli chiedo: «Ma che cosa hai capito?», «Ho capito che sei forte», «Ma che forte? È forte Colui che Si è manifestato qui adesso», tant’è che gli ho detto:
«Io tra due settimane torno qua con te, voglio venirti a trovare ancora». Ma perché? Perché ho bisogno di sorprendere quella commozione, quello che lì si è manifestato; e l’amica che anche lei è venuta lì per farcelo conoscere ha detto: «Ma posso tornare anch’io?». E chiudo con una cosa che tu ci hai detto la volta scorsa: «La prima cosa che è successa ai discepoli non era essere caritatevoli con gli altri, la prima cosa che è successa loro è essere affascinati da Cristo, il primo
oggetto del loro amore, della loro carità è stato Cristo e da lì è nato tutto il resto». Questo è quello che sta capitando a me.

Ti ringrazio perché questo richiamo sul metodo, che trovate come Pagina Uno, è la modalità con la quale Lui oggi ci comunica l’essere. Come ci comunica l’essere? Come quel signore che era senza lavoro è cambiato fino a diventare raggiante? Attraverso l’avvenimento, un avvenimento che accade davanti ai nostri occhi: non è soltanto l’avvenimento della mia generazione (di quando sono nato), non è soltanto l’avvenimento di essere generato adesso, ma è questo “di più”, perché l’avvenimento
cristiano introduce questo di più di essere, questo di più di vibrazione. E come fa? Facendolo accadere; perciò la vera questione è se noi ci lasciamo travolgere da quello che accade. Possiamo imitare Dio se ci lasciamo generare dall’avvenimento che Lui fa accadere in noi, che a partire da un particolare ci raggiunge tutti: «Cosa vuol dire per noi, nati da Dio […], cosa vuol dire che anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri? Se la carità è descritta come dono di sé [attenzione a questa
espressione] sotto la pressione di una commozione, dono di sé carico di commozione, così deve essere per noi». Che cosa vuol dire «dono di sé sotto la pressione di una commozione»? Provate a pensare quando vi trovate veramente commossi e incominciate a rapportarvi con gli altri; che cosa succede? Ci buttiamo nel reale diversi, fino al punto che ci dicono: «Che cosa ti è accaduto?». E perché ce lo domandano? Perché questo rapporto comunica la stessa vibrazione dell’essere tanto è gratuito, tanto è libero, tanto è diverso dalla modalità normale con cui ci rapportiamo gli uni gli
altri: sotto la pressione di questa commozione. Immaginate quando veramente ci è successo qualcosa e poi ci rapportiamo con tutto; o immaginate la cosa di cui tutti avete esperienza, quando uno è innamorato, tutto investito da questo avvenimento, commosso, e si rapporta a tutto, anche al
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quotidiano, con una modalità tutta diversa, tutta nuova. La carità è questo dono di sé, questo lavoro, questo rapporto con gli altri, questo rapporto con il reale, sotto la pressione di questa commozione.
E allora si capisce quello che stiamo dicendo da tempo, si capisce il rapporto che c’è tra l’umano, tra il non tralasciare il nostro umano e la commozione; non lasciare fuori l’umano è la condizione della commozione, perché le pietre non si commuovono. Il problema è che io non sono una pietra e posso essere veramente travolto da questa commozione; e allora uno capisce che lasciare colpire il
proprio umano da questo dono, lasciarsi commuovere dall’amore di Cristo, da questo sguardo, dal Suo dono si sé, è quello che consente di imitare Dio, amare gli altri con questa novità sotto la pressione di questa commozione: un’altra cosa! Questo, sì, è imitare Dio – questo è tutto descritto nella Scuola di comunità, non ho aggiunto niente –, e allora la legge dell’io è questo amare perché «il dinamismo proprio dell’io, che è, dunque, direttamente derivato dal dinamismo di Dio, è amare,
cioè dare se stessi all’altro, commossi». Non come un moralismo, sarebbe impossibile darsi in questo modo, nessuno può generare da sé questo darsi così commossi all’altro; è soltanto se accettiamo di essere travolti da quello che accade, da quell’evento attraverso cui il Mistero ora, Cristo presente ora, comunica alla radice del nostro essere questa vibrazione, che allora io non sono determinato da uno che mi guarda con schifo, ma sono più determinato da quella vibrazione che mi
fa libero. Senza l’esperienza di Cristo saremmo determinati come tutti («Non mi guarda», «Mi tratta male»); è questa origine diversa che non dipende dal tornaconto, che non dipende da quello che l’altro può dirmi né dall’atteggiamento che ha verso di me, che può rendere possibile amare come Dio, il quale fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi ogni giorno. Ma questo non è un proposito che possiamo fare, la vera decisione non è questa: decidere di imitare Dio. La vera decisione è lasciarsi
travolgere da quello che accade, lasciarsi generare dalla stessa vibrazione, ineffabile e totale.
Per finire vi leggo l’editoriale di Tracce di aprile, che riguarda la lettera del Papa, perché questa lettera, che il Papa ha scritto davanti a un fatto così brutto come l’abuso dei bambini, è una testimonianza della “commozione” di cui parla la Scuola di comunità, che ci consente di guardare tutto, di non fare sconti, fino al giudizio, proprio per questo. Siccome tutti i giornali sono pieni di uno sguardo diverso, noi non possiamo fare questa Scuola di comunità senza parlare e senza
guardare questo fatto in un altro modo, aiutati da questa testimonianza del Papa, perché quello che viene da domandare è: «Da dove nasce questo sguardo?».

Editoriale di Tracce, aprile 2010
Ci sarebbe da discutere a lungo, sulle vicende che hanno portato Benedetto XVI a scrivere la sua Lettera ai cattolici d’Irlanda. E si potrebbe farlo partendo dai fatti, da numeri e dati che - letti bene - dicono di una realtà molto meno imponente di quanto possa sembrare dalla campagna feroce dei media. Oppure dalle contraddizioni di chi, sugli stessi giornali, accusa - a ragione - certe
nefandezze, ma poche pagine più in là giustifica tutto e tutti, specie in materia di sesso. Si potrebbe, e forse aiuterebbe a capire meglio il contesto di una Chiesa davvero sotto attacco, ben al di là dei suoi errori. Solo che il gesto umile e coraggioso del Papa ha spostato tutto più in là. Verso il cuore della questione.
Chiaro, la ferita c’è. Ed è gravissima. Di quella specie che ha fatto dire parole di fuoco a Cristo («Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina e fosse gettato negli abissi…») e ai suoi vicari.
C’è la sporcizia, nella Chiesa. Lo disse chiaro e forte lo stesso Joseph Ratzinger nella Via Crucis di cinque anni fa, poco prima di diventare Papa, e non ha smesso mai di ricordarlo dopo, con realismo. C’è il peccato, anche grave. C’è il male e l’abisso di dolore che il male si porta dietro. E c’è l’esigenza di fare tutto il possibile - pure con durezza - per arginare quel male e riparare a quel dolore. Il Papa lo sta già facendo, e la sua Lettera lo ribadisce con forza, quando chiede ai
colpevoli di risponderne «davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali».
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Ma proprio per questi motivi il vero cuore della questione, il focus dimenticato, sta altrove.
Accanto a tutti i limiti e dentro l’umanità ferita della Chiesa c’è o no qualcosa di più grande del peccato? Di radicalmente più grande del peccato? C’è qualcosa che può spaccare la misura inesorabile del nostro male? Qualcosa che, come scrive il Pontefice, «ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati e di trarre il bene anche dal più terribile dei mali»?
«Ecco dunque il punto: Dio si è commosso per il nostro niente», ricordava don Giussani in una frase usata da Cl per il Volantone di Pasqua: «Non solo: Dio si è commosso per il nostro tradimento, per la nostra povertà rozza, dimentica e traditrice, per la nostra meschinità. È una compassione, una pietà, una passione. Ha avuto pietà per me».
È questo che porta la Chiesa nel mondo, e non certo per merito, bravura o tantomeno coerenza dei suoi: la commozione di Dio per la nostra meschinità. Qualcosa di più grande dei nostri limiti.
L’unica cosa infinitamente più grande dei nostri limiti. Se non si parte da lì, non si capisce nulla.
Impazzisce tutto, letteralmente.
È capitato - capita - anche a noi di schivare quella commozione, di sfuggirla. A volte è nella Chiesa stessa che si riduce la fede a un’etica e la moralità a un’impossibile rincorsa solitaria alle leggi, quasi che aver bisogno di quell’abbraccio fosse una cosa di cui doversi vergognare. Ma se si
dimentica Cristo, se si fa fuori la misura totalmente diversa che Lui introduce nel mondo ora, attraverso la Chiesa, non si hanno più i termini per capire e giudicare la Chiesa stessa.
Allora diventa facile confondere l’attenzione per le vittime e il riguardo per la loro storia con un silenzio connivente, e la prudenza verso i colpevoli veri o presunti - accusati, magari, sulla base di voci affiorate dopo decenni - con la voglia di «insabbiare» (che pure a volte, evidentemente, c’è stata). Diventa quasi inevitabile straparlare di celibato senza sfiorare nemmeno il valore reale
della verginità. E diventa impossibile capire perché la Chiesa può essere dura e materna insieme, con i suoi sacerdoti che sbagliano. Può punirli con severità e chiedere loro di scontare la pena e riparare al male (lo ha già fatto, non da oggi; e lo farà, sempre), ma senza spezzare - se possibile - il filo di un legame, perché è l’unica cosa che può redimerli. Può chiedere ai suoi figli «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro» non per domandare un’impossibile irreprensibilità, ma per
richiamare una tensione a vivere la stessa misericordia con cui ci abbraccia Dio («siate misericordiosi come è misericordioso il Padre che è nei cieli»).
È proprio per questo che la Chiesa può educare. Che, in fondo, è la vera questione messa in discussione da chi la sta accusando («vedete che sbagliano anche i preti, e di brutto? Come facciamo ad affidargli i nostri bambini?»), come se il suo essere maestra dipendesse tutto dalla coerenza dei suoi figli, e non da Lui. Da Cristo. Dalla Presenza che - tra tutti gli errori e gli orrori commessi - rende possibile nel mondo un abbraccio come quello del Figliol prodigo ritratto da Chagall nello stesso Volantone. Lì, accanto alla frase di Giussani, ce n’è un’altra, di Benedetto
XVI: «Convertirsi a Cristo significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione
dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e di Dio, esigenza del suo perdono».
Ecco, l’abbraccio di Cristo, dentro la nostra umanità ferita e indigente e al di là del male che possiamo compiere. Se la Chiesa - con tutti i suoi limiti - non avesse questo da offrire al mondo, persino alle vittime di quelle barbarie, allora sì che saremmo perduti. Tutti. Perché il male ci sarebbe sempre. Ma sarebbe impossibile vincerlo.

L’avete sul sito per leggerlo a casa e per diffonderlo in questo momento in cui dilaga una mentalità che lascia tutti smarriti, perché non si può confondere il riconoscimento del male, che il male fa veramente male, e il fatto che noi non possiamo vincerlo se non aprendoci a qualcosa d’Altro:
questa vibrazione, questa carità che il Mistero ci testimonia.
Ringrazio tutti quanti, qui presenti o collegati in video, avete partecipato con tanta attenzione all’incontro sull’educazione con il cardinale Bagnasco (che è stato un gesto fatto insieme con la Diocesi di Milano, con la presenza del vescovo ausiliare in rappresentanza del cardinale
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Tettamanzi), e per aver dimostrato come abbiamo veramente a cuore l’educazione, così come ci ha insegnato don Giussani.
• Veni Sancte Spiritus

sabato 13 marzo 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 10 marzo 2010

Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 337-342.
• Canto “Un uomo cattivo”
• Canto “Amazing grace”
Cominciamo oggi il punto «Perfetti come il padre vostro», ma per aiutarci a fare questo passaggio fermiamoci un momento per cercare di collegarlo con il precedente, perché non possiamo lasciare indietro quello che abbiamo detto, affinché come per pressione osmotica possiamo entrare nel Mistero di Cristo. Soprattutto vorrei sottolineare queste cose che don Giussani dice quasi en passant, senza quasi che ce ne rendiamo conto, perché sono questi i passaggi dove si vede l’anima del don Gius attraverso cui passa la sua testimonianza a noi, perché soltanto una umanità così si
lascia colpire come lui; per tutti è nella Bibbia, sembra assolutamente banale, ma perché non ce ne rendiamo conto? Per questo immedesimarci con quella modalità con cui lui si lascia colpire è come essere generati, come lasciarci commuovere: «Perché Dio dedica se stesso a me? […] Perché, per di più, diventa uomo e si dà a me per rendermi di nuovo innocente [...]? […] Perché questo dono di sé fino all’estremo concepibile, al di là dell’estremo concepibile?». Noi passiamo sopra a queste frasi,
ma è lì dove don Giussani esprime il contraccolpo, perché è così che lui si lascia colpire dalla frase di Geremia che ci invita a imparare a memoria: «Ti ho amato di un amore eterno, perciò ti ho attratto a me avendo pietà del tuo niente»; possiamo dire questa frase senza lasciarci colpire, così come tante volte guardiamo gli altri senza lasciarci colpire, ma l’amore che il Mistero ci testimonia è questo sentimento che ha dentro una ragione, che è l’espressione di una ragione: «Mi commuovo
per il tuo valore, Mi commuovo per il tuo niente, ma questo tuo niente è per Me così prezioso». Prosegue il don Gius a pagina 330: «Questa pietà [...] è bello scoprirla nel Vangelo. Per esempio, quando – due volte è detto – una sera [Gesù] vede la sua città dalla collina e piange sulla sua città [...]. Quella città l’avrebbe ucciso alcune settimane dopo, ma per Lui questo non c’entra». E poi dice come singhiozzò davanti a quella donna che va a seppellire suo figlio: «“Donna, non piangere”, che
era una cosa inconcepibile; a parte il fatto che è tra il ridicolo e l’assurdo: come si fa a dire a una donna che segue in quelle condizioni il feretro del figlio “Non piangere”? Era il traboccare di una pietà, di una compassione». Senza sperimentare questo traboccare di compassione noi non sappiamo il vero significato di quello che qui il Vangelo esprime. Noi pensiamo di capire perché siamo così presuntuosi, così razionalisti… No, non capiamo. Quando si vede se capiamo? Quando riaccade; per questo, come è diverso fare la Scuola di comunità e rileggerla pensando di averla
capita dal fare la Scuola di comunità vedendo se riaccade (e allora non è che uno può passare sopra, come tante volte passiamo sopra, perché questo vuol dire che noi rimaniamo nella superficie di quelle parole e poi si vede che non cambia niente)! Di Zaccheo, a cui Gesù dice: «Scendi, vengo a casa tua», don Giussani commenta (basta una frase per dire tutta la sua commozione): «Ma non c’è possibilità di tenerezza come questa tra di noi»; che lontananza da questo! Oppure Lazzaro: il pianto per un amico che muore; solo quando ci immedesimiamo con questo possiamo capire che la
carità di Dio per l’uomo è questa emozione, questa commozione: «Ecco dunque il punto: Dio si è commosso per il nostro niente»: lo ripete per aiutarci a capire, gli viene dal cuore: «Che è mai l’uomo perché Tu te ne ricordi?». Il massimo è quando dice che non solo si commuove del nostro niente, ma addirittura della nostra meschinità: «Ho avuto pietà del tuo odio a Me. Mi sono commosso perché tu Mi odi, il tuo odio non può evitare la commozione, tutta la tua avversione verso di Me non è in grado di sconfiggere, di vincere tutta la commozione che Io sento nel guardarti, nel guardare il tuo destino». Questa commozione non è un sentimento, ma è un giudizio:
un sentimento che porta dentro la ragione di esso: «Per la stima che ho per il tuo niente Mi
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commuovo». E come il don Gius spiega questo? Affermando che «il palpito del cuore è la pietà del tuo niente»!
Guardate che questa non è la premessa logica (come spesso la usiamo noi: «Lo so già e lo applico»): questo è l’immergersi in una vita affinchè diventi nostra. Perché se io non mi commuovo, vuol dire che non lo so; e se non mi commuovo, non si comunica a me, e tutta la difficoltà del dopo nasce da qui. Quel che don Giussani ci dice si è fatto realtà in Cristo, perciò non c’è un altro sguardo su di noi, qualsiasi cosa abbiamo fatto; perché Egli piange di commozione anche per il nostro odio, non c’è un altro sguardo con cui possiamo guardarci che sia vero se non questo. Se mi guardo in un altro modo, è uno sguardo vecchio, è uno sguardo che non c’è più, è uno sguardo che non esiste, perché da quando è entrato questo sguardo nel reale non c’è reale che non lo abbia dentro; dobbiamo aggiornare il file, come dico sempre; non c’è, questo modo è vecchio, è come una carta geografica senza l’America dopo la scoperta dell’America, non c’è! Questo è proprio quello che dobbiamo aiutarci a capire: «La parola carità indica la natura stessa di Dio», cioè che Egli dà Se stesso con questa commozione verso di noi. Come questo diventa nostro? Solo Dio sfonda questa
estraneità. Mi scrive uno: «A pagina 339 di Si può vivere cosi? (quasi alla fine) il don Gius dice: “È perché c’è questo Cristo che non c’è più nessun uomo che non mi interessi». Volevo che mi spiegassi meglio questo passaggio: da Cristo agli uomini. Faccio fatica a capire come l’atto di misericordia su di me mi spinga a interessarmi di ogni uomo». Questo è il passaggio, e io lo lascio aperto perché è quello che dobbiamo testimoniarci: come questo passaggio accade?
Quello che dicevi mi è capitato proprio l’altro giorno.
Perfetto. È quello che aspettavo, è l’intervento giusto.
A pagina 341 dice: «Un particolare, tra parentesi: non esiste attaccamento a sé, se non è pieno di commozione. La commozione unisce, lasciando distaccato». Quando ho letto questo brano ho detto: «Sì, il solito discorso, allontanati di un passo…», l’ho come interpretata biecamente in modo letterale, come dicendo: «Ma sì, questa cosa - sono cent’anni che sono del movimento - la so». Poi è stato come se il buon Dio mi avesse detto: «No, torna indietro», e ho riletto, e Lui mi ha fatto
venire in mente questa quotidianità che mi sta capitando nel rapporto con mio figlio più grande che ha sedici anni, e mi sto rendendo conto che sta venendo fuori lui come persona, mentre fino a poco tempo fa era un bambinetto. Per me è proprio commovente vedere come ha le mie stesse domande, il mio stesso desiderio di essere amato, di amare, di bene, di bello, di vero, e questa cosa me lo sta rendendo assolutamente vicino, interessante.
Ti conviene che cresca.
Anche perché per me è affascinante, interessante, infatti quando don Giussani dice della commozione ho pensato: «Caspita, è l’esperienza che sto facendo con lui», poi però dice: «La commozione unisce lasciando distaccato», e qui...
Eh, la mamma qui…
Per la prima volta nella mia vita questo distacco non l’ho capito, è proprio usato in un’accezione che io non ritrovo nella mia esperienza, perché se penso all’esperienza che sto facendo con lui è che invece mi emoziona, mi interessa, vado a vedere le cose che fa, gli domando, cosa che non ho mai fatto prima, lo accudivo, per carità, non è che gli sia mai mancato niente, però adesso se tu mi dici “distacco”, “essere distaccati”, è proprio l’ultima cosa che penserei di avere in questo momento con lui; e così per le cose che mi appassionano, perché è la stessa cosa che mi capita anche per le cose che mi appassionano.
Tu parti dall’esperienza che fai, e poi pensiamo al termine “distacco”. Il fatto che tu incominci a vedere come è diverso da te, che è un tu, che è un altro, implica un distacco (cioè che tu lo lasci crescere)?
Sì.
Sì. Questo è il significato del termine, basta osservare quello che ti accade. Tu ti sei stupita di qualcosa che stava accadendo e che tu hai cominciato a vedere come positivo: questo venir fuori dell’alterità del figlio, perché questa alterità non è un di meno per te, ma è un di più, avevi un
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interlocutore, incominciavi a vederlo venir fuori, ma per questo occorreva lasciargli uno spazio, non soffocarlo, non continuare a pensare che ha dieci anni, non continuare ad asfissiarlo. Questo si chiama distacco. Puoi usare un’altra parola che ti piace di più, ma è questo. Si è trattato di un’esperienza in te, tanto è vero che ti ha colpito e l’hai percepita come un bene; questo è amare il destino di tuo figlio. Come dice il don Gius, il giorno che è nato ha incominciato a staccarsi, adesso comincia ad acquistare veramente un’alterità, non soltanto fisiologica (che c’era già), ma come “io”. Io faccio l’infermiera e questa settimana mi è capitato di incontrare una signora di cinquant’anni, ricoverata nel mio reparto, che ha una distrofia muscolare, per cui è destinata a rimanere
paralizzata e a non respirare più; e lei già il primo giorno che era entrata mi aveva preso il braccio e mi aveva detto: «Fatemi morire!»; l’altra notte mi aveva chiamata al campanello perché non riusciva a stare sdraiata, non stava ferma, poi tenta sempre di rimuoversi l’ossigeno perché vuole morire; siccome non voleva dormire, io sono stata un po’ con lei e lei mi ha raccontato la sua vita:
«Ho avuto tre mariti, ma non ho ancora trovato quello giusto», e poi mi continuava a dire: «Io vorrei morire, vorrei morire; ma perché non mi fanno morire?». Io le ho chiesto: «Perché vuoi morire?», e lei: «Perché sono imprigionata in un corpo, io vorrei conoscere, vorrei chiacchierare con la gente, eppure sono qua imprigionata in un corpo che non mi permette di fare quello che desidero». Mi ha colpito; io del suo desiderio mi sono commossa per lei (che non è una cosa che mi capita sempre davanti ai miei pazienti), per il suo desiderio di conoscere. La cosa che è successa
dopo è che io le dicevo: «Guarda che tu hai ancora da scoprire, tu nella vita hai ancora da scoprire», e lei, guardandomi, sfidandomi, mi diceva: «Ma io chi sono per te? Non sono tua madre, non sono tua parente, tu mi devi dire chi io sono per te». In quel momento mi sono resa conto che lei era qualcuno per me perché io, anche solo per il fatto che mi sia commossa per il destino di questa donna, mi sono resa conto ancora un’altra volta che era la Sua iniziativa per me.
Ti sei commossa per il destino di quella donna; questo è quello che corrisponde, questa è la nostra esperienza della natura di Dio come commozione; tutto il nostro male, tutta la nostra fragilità non può evitare, in certi momenti, di commuoverci per il destino di un altro, anche in queste condizioni.
Io ho un’impresa edile insieme ad altri tre amici. Qualche tempo fa avevamo dato del lavoro da fare a della gente; quelli fanno il lavoro e noi paghiamo il loro titolare. Passa qualche giorno e gli operai sottoposti a quel signore mi chiamano e mi dicono che li devo pagare. Io dico: «Il tuo titolare l’abbiamo già saldato», loro non ci credono, vanno avanti per un po’ di giorni a chiamare
e allora gli dico: «Vieni in ufficio, ci vediamo con il mio socio e ti spieghiamo la questione».
Insomma, questi operai hanno preso una fregatura dal loro capo (e se anche avessero fatto denuncia, sarebbe stato un boomerang e avrebbero dovuto pagare loro delle multe). Si stavano alzando per andar via e il mio socio gli dice: «Aspettate. Adesso noi non vi lasciamo soli. Non è giusto che io paghi il lavoro due volte, ma ho la possibilità di farvi lavorare, lavorate per me».
Allora loro piangendo han detto: «Non esiste gente come voi, che fa così». E io gli dico: «Non è vero che non esiste, ce n’è, eccome, potrei farti un lungo elenco, perché se noi abbiamo questo criterio di lavorare, questo modo di stare al mondo, è perché abbiamo imparato da qualcuno che ci ha trattato così e che ci tratta così». Quando se ne sono andati io sono andato dal mio amico e gli ho detto: «Ti rendi conto di che cosa hai fatto?». Mi colpiva che alla fine delle pagine che ci hai
detto di leggere per questa sera, a pagina 342 il Gius cita Madre Teresa: «Può esistere!» (non è una domanda, ma ha il punto esclamativo). «Può esistere!»: basta che uno guardi a come è stato guardato lui e di conseguenza reagisce così per questa carità che prima di tutto è accaduta a lui.
Questa sera dobbiamo capire il passaggio che don Gius fa per rispondere a questa domanda: come posso io essere perfetto come il Padre nostro è perfetto? Abbiamo detto qualche Scuola di comunità fa: «Non progetti di perfezione, ma guardare in faccia Cristo», non è che adesso cambiamo registro e diciamo: «Dobbiamo essere perfetti come il Padre è perfetto», e andiamo a casa tutti come se cambiassimo la parola d’ordine (e dopo un po’ “impazziamo”, perché non capiamo il nesso). Da
questo punto di vista, dice il don Gius: «“Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro”. Perfetto
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come il Padre nostro: ma chi è capace? Come raccomandazione è sconsiderata, come
raccomandazione produce l’inverso: la paura». Allora come possiamo noi diventare come il Padre?
Che passo fa don Giussani per aiutarci a capire?
Racconto quello che mi è successo la scorsa Scuola di comunità e che mi succede in tutti gli ambiti che però difficilmente riesco a comunicare. Quando tu hai letto le parole del Papa e hai detto: «Rimanete nel mio amore», io lì sono stata soddisfatta e libera mentre lo dicevi, non dopo e non perché quelle parole mi davano un’indicazione di come fare, cioè che bastava rimanere, ma perché le stavo ascoltando, perché le sentivo, neanche quella era un’istruzione di qualcosa da fare per me, il motivo per cui ero felice non era che devo rimanere, che basta rimanere nel Suo amore, ma che quelle parole lì («Rimani») erano le parole di Gesù che io mi sentivo dire in quel momento lì, che uscivano dalla bocca di una persona che esiste e che quindi io e chiunque altro in qualsiasi momento, in qualsiasi stato, possiamo incontrare. Non generiamo noi l’avvenimento, l’umanità nuova non è qualcosa che dobbiamo fare noi; l’unica cosa che noi dobbiamo fare è essere semplici
e vivere il nostro bisogno umano fino in fondo. Ma allora c’è qualcosa che devo fare? Cosa dipende da me? Perché la mia esperienza è che quello che sono non dipende minimamente da me, anche il vivere fino in fondo il mio bisogno umano, quando mi accade, è una cosa che non mi do io.
Cioè, neanche il mio impegno è qualcosa che genero io, ma mi è dato sempre come un dono, veramente, e questo non lo vedo solo per me, ma guardo gli altri così. Per esempio, davanti a una persona che è completamente chiusa alla vita, che manifesta un odio verso chi lo ama o che non cede mai un istante alla bellezza di quello che accade, non basta dire: «Rimani», o: «Devi solo rimanere», o: «Basta vivere fino in fondo la tua umanità», dicendoglielo come un’istruzione, come qualcosa che deve fare, perché quello non ha nessuna intenzione di rimanere e di cambiare, non
riesce, bisogna che accada il Signore perché lui riesca, bisogna che accada il miracolo che Gesù lo tocchi, che lo prenda e io non posso guardalo, grazie a Dio non guardo più, con l’idea che lui debba fare una cosa che non sa fare come non so farla io, come dire a un malato: «Mettiti a guarire», ma è Gesù che deve toccarlo e guarirlo. Quindi il mio rapporto con il Mistero è solo un’invocazione: che venga, come in effetti viene (perché poi quando viene è l’unica cosa che mi dà
pace e felicità). Quando io dico: «Io sono Tu che mi fai», dico letteralmente questo. Ha pietà del mio niente: niente è niente, non è qualcosa.
Aspetta un attimo, dobbiamo riprendere certe cose, perché quanto hai detto è assolutamente vero: quello che stiamo affermando è questa precedenza della Sua azione su qualsiasi altra cosa. Quello che hai raccontato dell’ultima Scuola di comunità è l’avvenimento di questo, non sono istruzioni per l’uso che poi applico, accade in contemporanea e per questo è vero che noi non generiamol’Avvenimento, ma siamo così travolti da questo che non ce ne rendiamo conto. Quello che occorre
capire oggi dall’intervento che hai fatto è che tu non puoi evitare che questo accada, ma occorre chetu lo accolga: questa è la semplicità. Io posso darti un regalo e il regalo è tutto tuo, è tutto grazia, ma io non posso accoglierlo per te; è un esempio banale (perché il regalo resta fuori di te, mentre
l’Avvenimento accade in te), ma è sempre in gioco la libertà, anche se siamo così facilitati dal fatto che è proprio il segno che avviene che mi facilita la libertà, tanto è vero che il rispondere di sì è grazia, è provocato da questo fatto che è tutto gratuito. Per questo la Scuola di comunità dice che la gratuità è «come il riflesso della gratuità della mia grazia»: riflesso, ma noi dobbiamo accoglierlo,
questo è quello che il Vangelo chiama “semplicità” o “povertà di spirito”, chiamalo come vuoi, èquello che Gesù costantemente chiede perché per poter partecipare di questo - Lui è così consapevole, come hai detto tu, che tutto è grazia - la cosa che dobbiamo fare è accoglierLo, avere la semplicità di accoglierLo.
È che questa semplicità sinceramente... Per tanto tempo ho difeso il fatto che avesse bisogno di me.
Ha bisogno di te!
Ma nel tempo, se devo dire, non una virgola viene fuori da me, come dagli altri…
È vero, anche la risposta libera nasce da questa grazia, ma è mia la risposta e perciò non possiamo lasciar fuori questo aspetto perché altrimenti è meccanicistico, altrimenti è come lasciar fuori la tua
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collaborazione, pur piccola, pur tutta gratuita perché nasce dalla commozione, dalla Sua grazia, ma è tua; senza di questo non diventa nostro e questo è importantissimo non lasciarlo fuori; perciò anche la semplicità è data, ma nel senso che muove il tuo io per riconoscerla. La potenza della Sua grazia si dimostra proprio perché Cristo te la dona attraverso di te, attraverso il tuo “sì”, e questo è il
massimo, capisci? Coinvolgere te stessa in quella grazia per essere salvata! Per questo la mia invocazione è chiedere questa semplicità, altrimenti perché hai bisogno dell’invocazione?
Ho bisogno dell’invocazione perché avvenga.
Perché avvenga e perché tu riconosca.
Oggi abbiamo la fortuna di avere qui padre Aldo; non posso non invitarlo a dirci che esperienza fa, come questo sguardo, questa carità del Mistero con noi è diventata anche sua.
Prima di tutto grazie. Sono commosso perché il miracolo ogni giorno più grande della mia vita coincide con la grazia che avete voi di prendere seriamente, parola per parola, quanto Carrón ci dice. Cleuza e Marcos dicevano recentemente ad alcuni amici che chiedevano loro perché andassero in Paraguay: «In Paraguay non c’è niente di bello, è tutto brutto, non c’è niente di peggio al mondo: moribondi, malati di aids, prostitute, travestiti, bambini violentati, barboni della strada». «E quindi perché andate?». «Andiamo per imparare uno sguardo», che è lo sguardo di Cristo alla Maddalena, di Cristo a Zaccheo, di Cristo alla Samaritana. Questo sguardo per me possiede un punto sicuro su cui non ci sono più dubbi da molti anni: «Io ho la certezza di essere voluto istante per istante così come sono». La cosa più tragica della vita è l’incertezza affettiva, perché è la certezza affettiva che sostiene la vita e la certezza affettiva per me è che «io sono Tu che mi fai», che i capelli del mio capo sono contati, parole che in America Latina vanno da Panama alla Terra del Fuoco. Guardarmi con gli occhi del Tu, guardare la mia umanità con la modalità
stessa con cui mi guarda l’Essere; e l’Essere mi guarda così, anche quando sono incavolato, quando sto male, quello diventa un motivo di più, perché non ci sarebbe l’arrabbiatura, il malessere senza la mia umanità, quindi il malessere, la malattia, il cancro, la depressione diventano motivo per affermare: «Io sono Tu che mi fai», perché questi fattori appartengono alla mia umanità. E questo mi fa commuovere, perché, anche davanti alla mia malattia o ai miei malati, pensate cosa vuol dire: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, ha pronunciato il mio nome
prima di concepirmi nel ventre di mia madre, di un amore eterno mi ha amato, ha avuto pietà del mio niente». Parole che Carrón ci ripete continuamente e che sono come il leitmotiv di tutti i minuti della mia vita e della vita dei miei amici; capite che non c’è aspetto della vita che sia negativo, per questo i miei malati muoiono sorridenti, perché il punto della questione è questo sguardo pieno di tenerezza; questo per me è l’inizio della carità. Il secondo passo è che questo io
commosso per il Mistero l’ho incontrato visibile in Cristo; come posso io essere perfetto come il Padre? Io ho un criterio: guardare a Gesù, come Gesù viveva, come Giussani mi ha abbracciato, come Carrón mi guarda, è un criterio molto concreto, preciso, per cui il «Tu che mi fai» diventa Tu, o Cristo. Per questo con Cleuza e Marcos riprendiamo da mesi la predica di Carrón ai funerali
di Pontiggia quando diceva: «Chi sei Tu, o Cristo?». Questa domanda cruciale sta riecheggiando istante per istante, ma non con una risposta immediata, perché la risposta non terminerà neanche in Paradiso, se no ci stancheremmo; potremo sempre chiedere: «Chi sei Tu, o Cristo?». E poi c’è la tenerezza di Dio; sono i due punti su cui stiamo lavorando forte perché nel poter dire: «Tu, o Cristo», è nato tutto, è nata la certezza che mi fa porre in ginocchio davanti a ogni ammalato e
baciarlo, non perché i vermi non mi facciano schifo, non perché non mi provochi il vomito la carne che cade a pezzi, non perché sia più bravo di voi, no, ma è perché quella carne putrefatta è Cristo
che soffre, è Cristo che palpita, è Cristo che vive, e quando tu vedi Cristo non puoi non abbracciarlo, non puoi non baciarlo; e così anche la capacità di baciare o di togliere i vermi diventa piena di letizia, perché diventa un gesto di gratuità: togli i vermi da Cristo. E un Dio commosso dalla mia umanità diventa un io commosso davanti a ogni uomo, in particolare a questi rifiuti umani, perché io devo fare compagnia come Cristo la fa a me, perché Cristo non mi abbandona un istante, capite? Cristo è un appuntamento continuo con me, continuamente mi sta
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vicino, non mi dice: «Vieni domani», no, è qui presente adesso, e il segno più bello di questo dono commosso di me è la letizia (cioè tutto mi diventa amico). Allora ai lamenti si sostituisce lo stupore,
la mia impotenza, la distanza è riempita dal Mistero, in fondo io non sono padrone di niente, se il Mistero vuole questo vuol dire che è il meglio, e tutto comincia dall’io, dal mio io come certezza di essere voluto. Io mi domando come fa uno a dubitare – dice Cleuza –, come fa uno ad avere dubbi?
Come fa uno ad avere dubbi davanti alle crisi, davanti al cancro, come fa a non sentire che anche quello è il modo con cui Dio mi ama, anche non dormire è il modo con cui Dio mi dice: «Io sono qui vicino a te che veglio con te»? Per questo la mia umanità è sedotta, come dice Geremia: Dio mi ha sedotto e io mi sono lasciato sedurre. Che spettacolo! In ogni aspetto della mia vita, io sono stato scelto, io sono Tu che mi fai, i capelli del mio capo sono contati: «Chi sei Tu, o Cristo?», ci
diceva Carrón; è da novembre che continuiamo a ripeterci: «Chi sei Tu, o Cristo?», ogni volta che ci vediamo: «Chi sei Tu, o Cristo?», in ogni cosa davanti a ogni dettaglio. Questa è la carità che vivo.
Capite adesso perché don Giussani può dire: «Il primo oggetto della carità dell’uomo si chiama Gesù Cristo»! Questo è il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento: Dio per farci Suoi, per farci diventare come Lui, non dà solo le istruzioni per l’uso che sono i comandamenti, ma è diventato Uomo, per calamitare tutta la nostra affezione verso di Lui. «Chi sei Tu, o Cristo?». Per questo il primo oggetto della carità è essere calamitati da questa carità Sua, di Cristo; è soltanto il rimanere di
cui dicevamo prima, è il rimanere in questo, è il rimanere attaccati a questo Tu. E uno che L’ha incontrato non può evitare di essere attratto, sedotto. È da lì che viene tutto, tutto il resto è sviluppo di questo, ma noi non passiamo dalla carità di Dio ad amare così se non attraverso Cristo; non è che noi leggiamo le istruzioni per l’uso o leggiamo cos’è la carità e… No! Don Giussani fa questo passaggio, che è quello che ha fatto Cristo, la prima cosa che è successa ai discepoli non era essere
caritatevoli con gli altri, la prima cosa che è successa loro è essere affascinati da Cristo, il primo oggetto del loro amore, della loro carità è stato Cristo e da lì è nato tutto il resto. Per questo non potevamo finire senza fare questo passaggio consapevolmente: «Amare Cristo e in Lui [perché siamo trascinati, sedotti da Lui], cioè secondo il suo modo, i fratelli». Allora Péguy parla di «trovare in loro come una certa gratuità che sia come il riflesso della gratuità della mia grazia». E il don Gius finisce chiedendosi: qual è la sorgente di questa commozione? «La sorgente di questa commozione, in Cristo come in me stesso, è lo Spirito di Cristo». Lo Spirito Santo è Colui che dobbiamo
invocare, domandare. Per questo quando il don Gius ci fa dire: «Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam», ci sta invitando a chiedere questo. Perché, come dicevamo l’altra volta leggendo il Papa, «“Amatevi come io vi ho amato” […]. Non è un nuovo comandamento; il comandamento di amare il prossimo come se stessi esiste già nell’Antico Testamento. Alcuni affermano: “Tale amore va ancora più radicalizzato; questo amare l’altro deve imitare Cristo, che si è dato per noi; deve essere un amare eroico, fino al dono di se stessi”. In questo caso, però, il cristianesimo sarebbe un moralismo eroico»; così con le stesse parole del Vangelo possiamo mutare la natura del cristianesimo, con le stesse parole, con gli stessi ingredienti cucinare un’altra minestra. «È vero che dobbiamo arrivare fino a questa radicalità dell’amore, che Cristo ci ha mostrato e donato [è vero, questo è lo scopo: far partecipare noi stessi della stessa natura di Dio], ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui […] la novità è il dono, il grande dono, e dal dono […] il nuovo agire. San Tommaso d’Aquino lo dice in modo molto preciso quando scrive: “La nuova legge [non è un comandamento più radicalizzato, più complicato da compiere] è la grazia dello Spirito Santo. La nuova legge non è un altro comando più difficile degli altri: la nuova legge è un dono, la nuova legge è la presenza dello Spirito Santo”». Lo Spirito è la modalità
con cui Cristo entra fino al midollo nella nostra vita, facendoci diventare veramente Suoi.
• Gloria al Padre

CILE «Il volto che ci aiuta ad entrare in questo mistero»


01/03/2010 - Dopo il violento terremoto che ha colpito il Paese sudamericano, gli amici del movimento cileni hanno scritto un messaggio. Ecco il testo

Una casa distrutta a Santiago del Cile. Cari amici,
davanti al terremoto che ha colpito il nostro Paese, diviene ancora più evidente che la vita è un mistero e non ci appartiene.
Di fronte alla bellezza della natura cilena sorge sempre una domanda: «Chi ne è l’autore?».
Allo stesso modo, davanti alla grandezza di questo terremoto, ci sentiamo piccoli, impotenti e fragili.
Tuttavia, da questa esperienza nasce un’altra domanda: «Cosa chiede a noi il Signore attraverso questa circostanza?».
Anche recentemente, nella nostra compagnia e in molti testimoni, abbiamo visto il volto trasfigurato di Cristo che si rende conoscibile, e questa esperienza ci aiuta a entrare nel mistero della Croce.
Senza Cristo, la bellezza avrebbe come esito una triste malinconia, e il dramma si volgerebbe in tragedia, come ci ha ricordato Carrón in occasione del terremoto di Haiti.
Per questo siamo invitati a pregare per tutti coloro che soffrono le conseguenze di questo dramma, e abbiamo altresì il dovere di fare che la carità che abbiamo ricevuto trabocchi in una condivisione concreta delle necessità del popolo cileno.

Comunione e Liberazione (Cile)
CDO
LA RACCOLTA FONDI
AIUTI ALLA POPOLAZIONE CILENA

«Il mio pensiero va inoltre al Cile e alle popolazioni colpite dal terremoto, che ha causato numerose perdite umane e ingenti danni. Prego per le vittime e sono spiritualmente vicino alle persone provate da così grave calamità; per esse imploro da Dio sollievo nella sofferenza e coraggio in queste avversità. Sono sicuro che non verrà a mancare la solidarietà di tanti, in particolare delle organizzazioni ecclesiali»
(Benedetto XVI, Angelus di domenica 28 febbraio 2010

La Compagnia delle Opere del Cile ha lanciato una raccolta fondi per intervenire in aiuto:

1) delle famiglie delle comunità di Curicó, Talca e Concepción le cui abitazioni sono state danneggiate dal sisma

2) delle opere educative San Bernardo (Colegio Instituto San Pablo Misionero) e La Florida (Colegio Patrona de Lourdes) a Santiago

3) della Parrocchia Universitaria di Concepción

4) del Monastero delle Trappiste di Quilvo (Curicó)

Per contribuire alla raccolta fondi eseguire il bonifico in favore di:
Fundación Domus, c/c n° 18811566,
Banco de Credito e Inversiones, El Golf # 125 Las Condes (n° banco 016),
Codice SWIFT: CREDCLRM,
Causale: Terremoto Cile

giovedì 4 marzo 2010

Corrotti si nasce o si diventa?

«Se la corruzione è un grave danno dal punto di vista materiale e un enorme costo per la crescita economica, ancora più negativi sono i suoi effetti sui beni immateriali, legati più strettamente alla dimensione qualitativa e umana della vita sociale» (Pont. Cons. Giustizia e Pace, Lotta alla corruzione, 4).
Leggendo i giornali di questi ultimi giorni la prima impressione è quella di un’enorme confusione. Il lettore normale, come penso di essere, non riesce a raccapezzarsi. Che cosa è accaduto? Che cosa sta accadendo? Siamo di fronte a qualcosa di nuovo o semplicemente al ripetersi di un vizio antico e inveterato?
Dobbiamo uscire da ogni visione moralistica ed entrare in un autentico giudizio morale. La storia dei popoli, da quando la conosciamo, è segnata dalla corruzione. Sant’Agostino parlava di magna latrocinia: «Se togliamo il fondamento della giustizia, che cosa sono gli stati se non delle grandi associazioni a delinquere?» (De civ. Dei, 4,4).
Eppure qualcosa di nuovo e di tragico sta accadendo sotto i nostri occhi. Non tanto la presenza del male, che caratterizza la vita di ogni uomo in ogni tempo. È nuovo il disorientamento che regna nel cuore di tanti uomini. Qual è la strada verso una vita buona? Quale la via verso rapporti tra gli uomini che diano la soddisfazione di vivere sulla terra?
Viviamo infatti in un’epoca in cui dominano l’ansia e la paura. L’ansia di non potere avere a sufficienza, la paura che venga la morte a portarci via tutto. Tutto deve essere ottenuto in un tempo breve perché non c’è altro tempo. Del doman non v’è certezza scriveva Lorenzo De’ Medici all’inizio dell’età moderna. L’incertezza nei nostri tempi porta taluni a un’avidità insaziabile che acceca.
L’insicurezza riguardo al proprio futuro è tipica delle età in cui viene meno la speranza. La crisi della natalità che caratterizza il nostro Occidente è un indice tragico di questa incapacità a guardare oltre la propria individualità e oltre l’attimo presente. Non ci sono più figli a cui tramandare qualcosa, non c’è una storia personale da salvare.
Anche la povertà delle esperienze affettive, che muoiono presto e hanno bisogno subito di essere sostituite da altre esperienze, porta le persone a rischiare oltre il ragionevole pur di avere qualcosa tra le mani che giustifichi il presente. Ci si attacca al denaro come all’unica sicurezza. Già Dante ricordava che superbia invidia ed avarizia sono / le tre faville ch’ hanno i cuori accesi (Inf., VI). Abbiamo spento troppi fuochi. I fuochi della carità, della bellezza, della gioia di stare assieme, di curvarci sugli altri, di godere di una canzone, di un tramonto, di un bacio. Il freddo che ne è nato porta a rischi spaventosi. Pur di avere qualcosa da stringere.

Dobbiamo tornare a riscoprire il valore sociale delle virtù cristiane, buone per chi crede e per chi non crede, capaci di fondare una convivenza ragionevolmente umana. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, ognuno può credere di essere dio. All’euforia succede la depressione. Le civiltà si chiudono così su se stesse e perdono ogni creatività.
La sfida di oggi è assolutamente radicale. Ci porta alle radici delle questioni, ci fa vedere il percorso semplice che può aiutare a scrivere una strada di rinascita. Primo: la vita è un dono positivo per chiunque, malato o sano, povero o ricco, colto o ignorante e non va sprecata. Secondo: da soli non si va da nessuna parte. Imparare ad accogliere e ad amare è una strada essenziale per amare se stessi. Terzo: quando scopriamo di essere perdonati, diventiamo anche capaci di costruire qualcosa che rimane e sa coinvolgere altre persone.
Volere il bene degli altri è la strada principale per voler bene a se stessi. Badare soltanto al proprio arricchimento porta inesorabilmente all’autodistruzione e a un male generalizzato.
Massimo Camisasca

martedì 2 marzo 2010

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón -Milano 24 febbraio 2010

Testi di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 321-337 e J.
Carrón, «Carità, dono di sé commosso», Tracce, n. 2, febbraio 2010.
• Canto “Favola”
• Canto “Negra Sombra”
Davanti ad alcune delle lettere e delle domande che mi avete mandato mi sono ricordato di quel pezzo della Scuola di comunità sull’amicizia («Il vero seguire è amicizia»), dove il don Gius ci diceva: «Ed io, che sono chi ti sta davanti, te lo dico, ma capisco di dirtelo male e perciò ti dico: “Vieni ancora domani, eh!”. Perché domani cercherò di dirtelo meglio, e dopodomani cercherò di dirtelo meglio, e poi, insomma, tutti i giorni dobbiamo dircelo, perché così ce lo diciamo meglio, e
dopo tanti anni e tanti giorni, diventa come una cosa fluente, come guardarsi negli occhi: ci si guarda negli occhi e ci si capisce». Mi veniva in mente questo, perché la prima domanda da cui volevo cominciare ne riprende una della volta scorsa, con la risposta che io avevo dato. «Ti scrivo in merito alla prima domanda che è stata fatta all’ultima Scuola di comunità. Io forse ho inteso male il significato di “concreto”, comunque credo che la ragazza, con questa parola, intendesse “reale”,
quindi che ci sono certi amori che le danno l’impressione di essere più reali dell’amore di Gesù. Io credo che in questa domanda ci sia una divisione già all’inizio, dato che l’amore di Gesù passa realmente attraverso persone reali; a me però la tua risposta non ha convinto fino in fondo quando dici: “Come mai poi lo si confonde con altri amori? Lo si può confondere con altri amori soltanto per una cosa, perché si è dimenticato di che è mancanza questa mancanza; se noi riduciamo la
nostra mancanza, se noi non prendiamo consapevolezza fino in fondo di essa, allora ci sembra che qualsiasi cosa ci corrisponda”. Io credo che potenzialmente ogni cosa ci corrisponda proprio perché la realtà, invece, è Cristo; di conseguenza non è un problema essere attratti dalle persone, dalle cose, da altri amori; piuttosto penso che la sfida interessante consista nel riconoscere in questi la presenza del Mistero; guardare a questi amori come segno della Sua presenza che si degna di passare dove e quando vuole. Che commozione pensare che si degna di passare anche attraverso di me. Altrimenti tutto rischia di rimanere diviso, e l’amore di Gesù rischia di essere vissuto come una frustrante mancanza: “Ah, non posso avere quella cosa lì, però tanto c’è Gesù!”. Il lavoro che sto portando avanti da un po’ di tempo è mendicare la Sua presenza e la grazia della semplicità di poterLo riconoscere, ma attraverso la forza del reale, attraverso anche le cose, le persone da cui in generale non mi aspetto nulla; sennò come potrò mai riconoscere che Lui, il Suo amore, è ancora di più di tutto questo? Però magari mi sbaglio, questa è stata la mia impressione, magari non ho capito bene quello di cui hai parlato, tu che ne dici?». Io rispondo con altre lettere che mi sono arrivate. Don Giussani all’inizio della spiegazione della carità in Si può (veramente?!) vivere così? dice che la prima carità è andare fino in fondo di questa mancanza, di questa insoddisfazione che ci costituisce, perché questa è la prima carità con noi stessi, potere capire il mistero del nostro essere, poter riconoscere quello che non mi basta – lo ripete venti volte in quel testo –; e questo lo si vede quando poi possono succedere – si diceva nel primo intervento della volta scorsa – altri amori; non capendo veramente quello che ha incontrato, uno è come travolto da un altro amore. Mi scrive uno: «Premetto che ho incontrato il movimento nel settembre del 1985. Nel 1993 mi sono laureato, poi ho conosciuto mia moglie e ho vissuto questi quindici anni travolto dalla carriera, totalmente dedito alla famiglia, niente più partecipazione
alla vita del movimento, niente più messa, niente più gesti di alcun tipo». Come è possibile? È possibile. Appare un altro amore e uno è travolto da questo; lui dice che ha vissuto tutti i quindici anni soltanto pensando a lei, tanto era bello vivere quel rapporto... A un certo punto sua moglie muore in pochissimo tempo: «Ha dovuto morire lei per spalancarmi il cuore e la mente a delle
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verità così semplici ma vere che io avevo incontrato, per farmi cogliere una serie di evidenze che non potranno mai più farmi vivere come ho vissuto fino a ora; è incredibile il metodo del Mistero che, sottraendomi la carne del rapporto sacramentale, ha aumentato la mia consapevolezza. Il giorno in cui è morta mi sono reso tragicamente conto che il dirci reciprocamente che il nostro stare insieme non sarebbe dovuto essere un guardarsi l’un l’altro (come se fossimo noi la ragione del
nostro agire), ma l’accompagnarsi verso un destino personale, era stato un discorso; quel giorno mi sono reso conto che mia moglie era la ragione per la quale vivevo. Poi, a un certo punto, sorgeva davanti alla morte l’esigenza di una ragione che permettesse di andare avanti, tanto è vero che era inesorabile che lei non poteva essere la ragione della mia vita». Fin quando lui si rende conto, si arrende a questo fatto, e il giorno del funerale davanti alla bara di sua moglie, davanti alle parole dell’omelia del prete, accetta questo, «e in quell’istante mi è scesa una serenità del cuore fino a farmi essere lieto». Può capitare, non dobbiamo spaventarci di questo, anche se uno Lo ha incontrato può capitare, può succedere che altri amori prendano il sopravvento, ma perché prendono il sopravvento? Perché pensiamo che essi ci possano riempire, e questo può capitare, come vedete, nella vita di sposati o può capitare a uno che ha la vocazione (come mi scriveva una del Gruppo Adulto, sconvolta per uno che se ne era andato; e poi un giorno trova un’amica, anche lei prima del Gruppo Adulto, che si era sposata e aveva la sua famiglia, che le chiede di andare insieme alla Scuola di comunità perché il marito e il bambino non le bastano: «Una sera dopo la Scuola di comunità è scoppiata a piangere per la nostalgia che prova verso la vocazione che Gesù le ha dato»). Può prendere il sopravvento per un altro amore, altroché. Allora, è vero – come dice l’amica della prima lettera – che potenzialmente ogni cosa ci corrisponde perché la realtà è Cristo; la questione è che noi, proprio per questa esigenza che abbiamo dentro, per questa mancanza, per questo inizio di provocazione che la realtà suscita in noi, attraverso questa forza del reale siamo lanciati verso qualcosa d’altro, ed è soltanto se abbiamo questa consapevolezza che non ci fermiamo al segno. Mi viene in mente quello che abbiamo detto alla Giornata d’inizio anno – occorre che andiate a riprenderlo –, quando Giussani, parlando della compagnia cristiana, diceva:
«“Ma come mai son così questi qui?”. [...] Dunque, tu incominci questa strada trovando un compagno, una compagna, oppure vedendo un gruppetto, che ha qualcosa di interessante e gli vai dietro. E senti questi qui che dicono che quello che d’interessante hanno è perché “C’è il Signore”; e gli vai dietro un po’ incuriosita, ma senza essere definita da quella cosa lì, senza essere determinata da quella cosa lì. A un certo punto, però, questo richiamo ingrossa, [...] sei colpita di più da quell’idea, da quella parola; e sei più colpita dal fatto che la gente ti dice: “Guarda che noi siamo insieme per quello lì [il Signore]”. Questo è un salto qualitativo rispetto all’impressione iniziale; allora tu incominci a prendere sul serio quello lì: [...] più tu segui con continuità questa evoluzione, tanto più Gesù diventa più importante delle facce messe insieme [questo è il nocciolo della questione: che Gesù – Gesù! – diventa più importante delle facce messe insieme]. Anzi, diventa così importante che capisci che senza di quello [Gesù] le facce scomparirebbero e tu ti “stufiresti”». Senza mancanza io mi fermo alle facce; ma se manca Lui, le facce scomparirebbero, come succede tante volte nei rapporti, nella vita di matrimonio della coppia: colei che più ti ha commosso, a un certo momento, non ti dice più niente. Come mai? Perché senza di “quello” noi non siamo in grado
di tenere desto, di tenere fresco, giovane, come all’inizio; senza Gesù, senza che Lui si comunichi alla radice di questo rapporto, «le facce scomparirebbero e tu ti “stufiresti”», non ti basta, ti stufi, te ne vai. È chiaro?


Stavo entrando in classe il giorno dopo il terremoto a Haiti, e nel corridoio mi ha sorpreso questa domanda (dico mi ha sorpreso perché non stavo assolutamente pensando a quello che era capitato la sera prima): «Cosa c’entra questo fatto così grande con l’istante a cui io sto andando incontro?». E siccome mi ha sorpreso e mi ha anche colto abbastanza impreparata, ho deciso che la lezione sarebbe partita da lì; allora ho chiesto ai miei ragazzi: «Ma vi siete accorti di che cosa è successo?», e sono sorte un po’ di affermazioni molto diverse tra di loro: «No, sono lontani»,
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oppure: «Si tratta di una tragedia perché erano già disgraziati, adesso sono più disgraziati di prima». Poi un ragazzo dice: «Prof, a me interessa sapere come è stato per lei», e io, ancora impreparata, ho raccontato quello che, guardando le immagini e guardando il volto di mio marito che mi aveva detto cos’era capitato, mi è successo: «A me hanno colpito: primo, il limite delle cose; secondo, mi rendo conto che queste mi richiamano a un rapporto sempre più grande». Poi la
settimana dopo me l’hanno richiesto e un ragazzino, rispetto a questa seconda cosa che avevo detto, mi dice: «Prof, a me colpisce questo, che lei racconta del terremoto di Haiti in questi termini, ma in realtà è ciò che io vedo quando lei lavora». A me ha colpito tanto, per la lealtà di un ragazzo di undici anni (perché lui è stato leale con l’esperienza che stava facendo in quel momento, con
l’esperienza totale che stava vivendo in quel momento e questa era la ragione che gli faceva dire con così grande sicurezza questa cosa); inoltre mi ha colpito perché io ero in un periodo che avevo l’amaro in bocca, stavo facendo un lavoro con loro e non riusciva, l’esito era sempre negativo ed ero arrivata al punto di dire: «Va bene, lo abbandono, fa niente, vuol dire che io non dovevo andare lì», molto cinicamente. E invece questa sua affermazione mi ha fatto dire: «Vedi che la tua
incapacità, la tua incoerenza, non è sufficiente a cancellare che Lui ti ha preso in un rapporto visibile». Quel fatto lì ha come spostato il problema da me, quindi dalla mia incapacità, al fatto che un Altro mi aveva preso.
Che cosa c’entra questo con la carità?
Perché la cosa che mi sollecita è l’iniziativa di Lui su di me, tant’è che questa cosa non mi ha potuto far mettere via cinicamente e senza dramma il rapporto con Lui, ma l’ha come acuito, ha come riapprofondito: «Guarda che in realtà sono Io che ho preso te, non sei prima tu che devi amare Me». Sono io che sono stata presa.

Guardate che questo è fondamentale per quella transizione tra la prima parte della carità e la seconda perché: quel che stupisce del ragazzo è che scopre in lei quella novità che porta, che è più grande di tutte le nostre incoerenze. E questo è importante da capire: da dove nasce questo nuovo essere che si rende presente in come opero? Non perché io faccio il proposito. Da questo punto di vista, il Papa ha detto delle cose bellissime in un dialogo che ha avuto con i seminaristi di Roma il 12 febbraio: «“Rimanete [nel mio amore]” e “Osservate i miei comandamenti”. “Osservate” è solo il secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico», che è quella convivenza di cui parlavamo all’inizio la volta scorsa: come per osmosi, stando a mollo all’interno di un luogo
come il nostro, se noi ci immedesimiamo sempre di più con questo cammino, pian piano diventa nostro e questo “rimanere” (che non è un rimanere meccanico scaldando la sedia, perché allora non si comunica niente: siamo degli uomini, non siamo dei meccanismi!); immedesimandoci con quello che il don Gius ci testimonia, ci genera (perché questa è la generazione che, a cinque anni dalla morte, continua a donarci). Continua il Papa: «“Osservate” è solo il secondo livello; il primo è quello del “rimanere”, il livello ontologico, cioé che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anticipo se stesso, ci ha già dato il suo amore, il frutto. Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire […]. L’etica è conseguenza dell’essere: prima il
Signore ci dà un nuovo essere, questo è il grande dono; l’essere precede l’agire e da questo essere poi segue l’agire, come una realtà organica, perché ciò che siamo, possiamo esserlo anche nella nostra attività. E così ringraziamo il Signore perché ci ha tolto dal puro moralismo; non possiamo obbedire ad una legge che sta di fonte a noi, ma dobbiamo solo agire secondo la nostra nuova identità. Quindi non è più un’obbedienza, una cosa esteriore, ma una realizzazione del dono del nuovo essere. Lo dico ancora una volta: ringraziamo il Signore perché Lui ci precede, ci dà quanto
dobbiamo dare noi, e noi possiamo essere poi, nella verità e nella forza del nostro nuovo essere, attori della sua realtà. Rimanere e osservare: l’osservare è il segno del rimanere e il rimanere è il dono che Lui ci dà, ma che deve essere rinnovato ogni giorno nella nostra vita […], ma anche qui la vera novità non è quanto facciamo noi, la vera novità è quanto ha fatto Lui [e quanto continua a fare] […]: la novità è il dono, il grande dono, e dal dono, dalla novità del dono, segue anche, come
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ho detto, il nuovo agire». Bello! Questa è la questione: se noi seguiamo, cioè rimaniamo con tutto noi stessi, a un certo momento si comunica questo nuovo essere, che emerge non perché quel giorno io faccio il proposito, ma perché Lui rende possibile agli altri di riconoscerlo in noi.


Io l’altra volta sono andato a casa avendo spostato il punto di partenza su quello che dice la Scuola di comunità: la scoperta di quella Presenza che il cuore riconosce. Queste due settimane per me sono state dominate da questa cosa e dalla frase di Geremia che don Giussani riporta: «Ti ho amato di un amore eterno, perciò ti ho attratto a me, avendo pietà del tuo niente», e mi ha colpito come don Giussani in quel punto lì ci racconta come se fosse sua tutta la commozione di Dio verso l’uomo e io questa cosa qua, questa commozione la capisco; mi sono capitati dei
momenti precisi nella vita (giorno, ora, posto, fatti), per cui è stato evidente per me entrare nella realtà con questa commozione, perché il cuore sobbalza perché sei lieto, sei libero, perché è diverso. Tutto questo io non lo metto in discussione minimamente, però è come se poi dicessi: «Tutta questa commozione che vedo a me capita a intermittenza»; allora volevo un aiuto su questo, perché non posso mettere in discussione quello che mi è capitato, è un fatto, è un’evidenza, nessuno me lo può contestare, però…

Bello! La prima questione è che a volte, come vediamo, davanti a questa intermittenza è come se prevalesse quello che manca (che è ancora intermittente), non il fatto che già c’è, non il fatto che tu sai in certi momenti con un’evidenza che non ti puoi togliere di dosso (neanche l’intermittenza può) che c’è. La questione è che in noi, per quello che ancora manca, quasi prevale come sentimento di
noi stessi quello che manca invece di quello che c’è, e così un istante dopo, anche se stiamo facendo la strada, siamo bloccati. Per questo facevo altre volte questo esempio: immaginate che uno abbia avuto un incidente, è tutto paralizzato, non reagisce; se un giorno incomincia a muovere una gamba, siamo tutti gasati; e se uno ci dice: «Ma muove soltanto una gamba...», rispondiamo: «Sei matto? Tu non capisci un cavolo, prima non reagiva a nulla, ora muove una gamba!». Che cosa prevale?
Quello che manca ancora o quello che comincia a muoversi? Questo inghippo è frequentissimo tra di noi, perché è come se prevalesse quello che manca, ma chi è più realista? Chi incomincia a riconoscere questo con la speranza che possa poi allargarsi a tutto il resto, o chi per un’ottusità minimizza? Come dicevamo l’anno scorso rispetto al germoglio: uno vede tutto il tronco secco e dice: «Soltanto un germoglio!»… Ma se c’è, da lì può risuscitare tutto! Seconda questione: tu parli
di momenti che sono evidenti, e questo è fondamentale perché è come un punto di non ritorno: momenti che segnano la vita, che prendono una forma tale, che ci plasmano in un modo così potente che sono un punto di non ritorno. Ma capisco il tuo desiderio che questo diventi sempre più abituale, normale, ma quello su cui voglio insistere è che questa intermittenza non vuol dire lasciar perdere tutto il positivo che è venuto fuori nel fatto di aver riconosciuto, in quei momenti,
un’evidenza di questa Presenza che mi riempie di commozione. «Ti ho amato di un amore eterno»: è come se ogni volta che vengo fuori da questa intermittenza, quando il Signore per grazia mi prende per i capelli, mi tira via dalla distrazione, me lo fa riconoscere ancora; ed è una festa: «Meno male che c’è ancora e che mi riprende». E questo è quello che deve pian piano – perché succede pian piano – diventare abituale. Don Giussani ha parlato molto bene di questo in un testo che ho
usato per il ritiro del Gruppo Adulto questo fine settimana; a don Giussani fanno questa domanda: ma che cosa vuol dire la coscienza di una Presenza in tutti gli istanti della vita (cioè senza questa intermittenza)? E don Giussani risponde che è impossibile che avvenga in ogni azione, ma che non è neanche necessario. Ciò che è importante non è il numero di volte, bensì è il valore tendenziale: c’è un’amorosità che pian piano accade in noi e questa ripetizione, anche intermittente, tende a
diventare abituale: «È come se la memoria, lentamente, diventasse come un profumo, una freschezza che si comunica alla base del tuo essere [diventa tuo, come dicevamo prima, diventa tuo], che si comunica ad ogni iniziativa che tu prendi per agire […] e diventa stabile e ti rende più facile moltiplicare il ricordo». Questo livello si vive esistenzialmente, è esattamente quel “rimanere” che dice il Papa. Questa è la grazia del carisma: che quella verità che il Papa ci ha detto in modo così bello, il don Gius ce la rende possibile come esperienza, introducendoci a un metodo
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che ci fa fare i passi secondo una strada così umana che (senza diventare isterici per la misura, per il numero) diventa sempre più abituale. Dice: «Improvvisamente la vecchiezza diventa più giovanile della gioventù. Perché giungi ad un certo punto in cui ti trovi ad aver fatto diventare facile la non distrazione, ovvia la memoria, familiare il senso d’appoggio a Cristo presente […] È esattamente la traiettoria che uno che si innamorasse – veramente però, e questo è difficile! – avendo lì la donna,
vive con quella donna: prima la memoria è a pezzetti (la memoria è un notes con tanti punti, e il meglio è nei punti che son vuoti); col tempo, quanto più uno è abituato a scrivere sugli appunti della memoria, tanto più quella memoria diventa permanente. E dapprima diventa permanente come bisogno – se lei va via… Oddio, che stringimento! –; dopo, vada o stia, sarà più doloroso o più gioioso, ma è lo stesso [perché è diventata dimensione dell’io, non può dire io senza che ci sia lei
nell’essere, nel fondo dell’essere come coscienza]. Nell’essere esistenza siamo una cosa, una. Così come se uno, venendo lì di soppiatto, improvvisamente ti dicesse: “A cosa pensi?”, “Ah, sto pensando al lavoro”; un’altra volta, vedendoti lì un po’ assorto, ti dice: “Cosa pensi?”, stai pensando a lei. Sostituire questo “lei” con “Lui”, prima di tutto investe tutti i “lei” – tutti –, li investe secondo
la gerarchia che il tuo cuore esige, secondo la predestinazione di vicinanza, di prossimità che Iddio ha stabilito, con una ricchezza di varietà quindi, con una verità di rispetto delle proporzioni delle cose. […] E quanto più tu moltiplichi l’abitudine di questi gesti, tanto più essi diventano permanenti, come un substrato permanente, come la freschezza permanente di tutte le tue azioni.
Finché diventa proprio il contenuto preciso, obiettivo, del tuo pensiero e del tuo cuore, e non vorresti mai andar via di lì. [È così che diventa nostro, che si comunica alla radice del nostro essere] […] Allora è un altro mondo sconosciuto a chiunque». La realtà è più grande della nostra filosofia e così, pian piano, quella intermittenza è riempita e diventa più stabile non per il numero, ma per il
“valore tendenziale”, per questa amorosità che si esprime così.



Io parto dalla provocazione dell’altra volta, quando dicevi che la carità fa pensare
automaticamente a fare la carità agli altri. Di primo acchito, ho detto: «C’ha azzeccato, è giusto, sono così»; in realtà, con dentro questa provocazione, guardando quello che succede non è così; ti faccio un esempio: mi capita per una situazione familiare di assistere una persona e quando faccio
quel gesto io sono riempita di una tenerezza così profonda, che percepisco al fondo di me che sono io l’oggetto di un gesto di carità e questo è proprio quel prima che accade.

Grazie.

Ti racconto una storia brutta, antipatica e poco originale, così faccio un po’ di autocritica. Vengo da dieci-dodici mesi di corsa perché ho fatto tre documentari contemporaneamente, perché sono arrivate tre richieste e ci sono stati dei bei risultati (mi hanno pagato tutto, i committenti sono supersoddisfatti, gli estranei sono molto colpiti). La parte brutta è questa, che io ho conquistato il mondo, però ho perso me stesso; perché? Perché ho considerato ogni momento di memoria come
una perdita di tempo. In ogni singola giornata di questi dieci-dodici mesi c’era sempre qualcosa di più importante e io dicevo: «Cavolo, i cinque minuti che dice Carrón!», però c’era sempre qualcosa di più importante da fare.

Vedi come vincono altri amori? C’è sempre qualcosa di più importante, è un giudizio.

Io vedevo proprio l’umiliazione di me, nel senso che sentivo il cuore ingrugnito, le cose che mi facevano piangere prima non mi facevano più piangere.

Questa è la questione, amici, che possiamo aver fatto un’esperienza così, e a un certo momento, dice il don Gius, certe cose che ci hanno veramente commosso fino al midollo, se ci lasciamo andare, non ci dicono più niente.

Mi piacerebbe esser qua a dirti che ho vinto l’Oscar... Poi mi è successo che io (ogni tanto, per i pensieri non dormo una notte e lavoro) mi sono immaginato di incontrare Maria Maddalena: «Ma scusa, Lui è risorto, e ti ha detto: “Non Mi toccare”, mentre lo stavi per abbracciare. Perché gli hai obbedito? Ce L’avevi davanti!». E dopo ho capito che io mi sarei stretto a Lui proprio perché
non ce L’ho davanti, mentre lei non ne aveva bisogno.
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Perché c’è un modo di possedere più intenso che l’abbraccio; non è che non c’è l’abbraccio, non è che non sia veramente un rapporto, ma che c’è una intensità, quel mondo sconosciuto è una intensità più grande di quello che noi abbiamo in testa: si chiama “verginità”.

Io ho una grande paura, perché sento che se le cose vanno bene, io sono finito.

No! Tu sarai finito non perché le cose andranno bene, ma se ti dimenticherai di chi sei. Guardate ancora l’inizio della Scuola di comunità: se tu dimentichi di che mancanza è quella mancanza, se tu dimentichi chi sei, tu vai dietro come giudizio a una cosa che per sua natura non ti può riempire, e per questo tu senti che ti perdi. In questi momenti si capisce che razza di carità occorre per essere così veri con se stessi, per riconoscere questa mancanza: è quel che ti rende sempre più consapevole
che quella memoria è ciò che ti fa respirare, perché altrimenti tu ti perdi. Una volta mi han fatto la domanda: «Come riesco io a far memoria in mezzo a questa situazione?» (era analoga a quella che hai testimoniato tu adesso). Ho risposto: «E come riesci a vivere in questo caos senza fare
memoria? Soltanto perdendoti».


Cioè: noi barattiamo la nostra primogenitura, che abbiamo avuto, per un piatto di lenticchie…

E perché facciamo questo? Per un problema di giudizio, perché non capiamo che le lenticchie, anche se fossero lenticchie “alla Oscar”, non basterebbero. Più siamo consapevoli di questo, più non andiamo dietro ad altri amori; e allora uno capisce che la vera carità è quello che corrisponde a questa attesa del cuore, perché senza questo, anche con tutto il successo dell’universo, io vado in
crisi. Questa è la questione, che uno incominci a rendersi conto di questo, che cominci a domandarlo: non è un problema di minutaggio, ma è il valore tendenziale!
Per finire vi leggo un testo per documentare che cos’è questo “dono di sé, commosso” che è la carità; è un testo che mi ha fatto avere una nostra amica sulla pianista russa Maria Judina, quella che aveva commosso perfino Stalin; racconta questo: «Proprio nel mio gruppo c’era un rompiscatole, un ragazzino di otto-nove anni, praticamente senza famiglia, che viveva presso parenti che non amava e da cui non era amato, di nome Akinfa; era indisponente, stuzzicava tutti, prendeva in giro i
bambini ebrei, si azzuffava e così via. Noi tutti, e soprattutto io che ne avevo la responsabilità, lo esortavamo con la parola e con l’esempio, ma una volta Akinfa passò tutti i limiti: picchiò uno dei compagni, prese a male parole gli adulti, commise un furtarello e così fu decretata la sua espulsione.
Quando venne il momento di eseguire la condanna, il momento del distacco io, non so come, scoppiai a piangere, e a questo punto avvenne la seconda nascita di Akinfa: scoppiò a piangere anche lui, chiese perdono a tutti, rese la refurtiva e da quel momento mi seguiva sempre ovunque nel campo come un fedele cagnolino, spiegava a tutti che in vita sua non aveva mai visto che una maestra piangesse per un suo alunno, che piangesse, per dirlo con le sue parole, “sull’anima e sulla vita di un monello”; proprio questo era il senso del suo stupore e del desiderio di rimettersi sulla strada». Questo è quello che fa Cristo: questo dono di Sé fino alla commozione per il nostro destino. Questa è la carità che si può anche vedere nella commozione di una maestra davanti a un bambino. Mi colpisce perché questa è la commozione di Dio, del Mistero per ciascuno di noi, qualsiasi cosa sia successa.
La prossima volta continuiamo con Si può vivere così? alle pagine 337-342.
Voglio dire due parole su questo momento delle elezioni regionali italiane. Abbiamo una percezione della fede, così come ce l’ha trasmessa don Giussani, per cui l’avvenimento che ci è capitato riguarda tutto, ha a che vedere con tutto, con tutti i fattori del reale, perfino con la politica. Per questo le elezioni sono una verifica: se noi non percepiamo questo, allora incomincia a staccarsi un pezzo del reale, e via via se ne staccheranno altri: domani sarà la moglie e dopodomani sarà il
lavoro. Perché? Perché la realtà è una. Per questo aiutarci a capire che per noi le elezioni hanno a che vedere con tutto il cammino che stiamo facendo, hanno a che vedere con la fede, hanno a che vedere con questa modalità di vivere il nostro rapporto con la politica, è fondamentale. Ci sono già dei segnali che quando questo non è vissuto in connessione organica con un’esperienza totale,
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incominciano a vincere il disinteresse e l’indifferenza; lo vediamo dappertutto, in tanti altri che se ne infischiano e non si interessano più; e siccome anche i giornali alimentano non poco questo atteggiamento, allora andiamo dietro a questo pensiero alienante. Ma il nostro modo di agire non nasce da quello che dicono i giornali, bensì da quella Presenza a causa della quale ci interessiamo a tutto, anche a questa realtà che è la politica. Noi, come ci siamo detti sempre, non ci aspettiamo la risposta dalla politica; noi ci aspettiamo la risposta dalla fede, da quello che ci è capitato; ma chiediamo alla politica, e per questo ci interessa partecipare, di difendere e garantire lo spazio per fare un’esperienza del vivere che sia un bene per noi e per gli altri. Infatti quando noi viviamo autenticamente la fede, essa si comunica a tutti e diventa un bene per tutti. Per questo le elezioni
sono un’occasione educativa di “primo livello”, una verifica della nostra educazione, perché noi vogliamo che la nostra fede non rimanga soltanto nella “pietà” (come un’ispirazione devota), ma che sia in grado di esprimersi nella totalità del nostro io fino a generare in noi la passione per la
“cosa pubblica”, per il bene di tutti. Il volantone di Pasqua sarà in distribuzione nei prossimi giorni: il dipinto di Marc Chagall Le fils prodigue (il figliol prodigo) con un testo del Papa e uno di don Giussani.
• Veni Sancte Spiritus