venerdì 28 ottobre 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón, 26 ottobre 2011,

Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo X, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-150. «Vivere
sempre intensamente il reale», Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo
Mondo, Milano 2011, pp. I-XVI.
• Il mistero
• Alecrim
Gloria
Continuando il nostro lavoro sulla Scuola di comunità, vorrei incominciare leggendo qualche lettera
che mette il dito nella piaga della difficoltà in cui tante volte ci troviamo. Mi scrive uno: «Mi è
chiaro lo stupore della presenza. La natura mi colpisce, mia moglie e i miei figli mi stupiscono, un
bel pomeriggio passato insieme agli amici mi stupisce, suscitandomi una sincera gratitudine per
quello che mi è dato. Le cose belle mi richiamano al loro Creatore. Ma la distrazione e le
preoccupazioni gettano un velo su questo giudizio: le difficoltà sul lavoro, i rapporti lavorativi
spesso segnati da un unico criterio di giudizio che è la profittabilità del mio operato (prova a
immaginare in questo periodo quanto c’è da stare allegri), lo stress da prestazione, le
incomprensioni in famiglia, l’incertezza sul futuro. Insomma, le fatiche del vivere mi mostrano
quanto sia invece vacillante e fluttuante l’attrattiva verso la realtà. Il risultato è un disinteressamento
alle cose e un intristimento, una incapacità di riconoscere un positivo in tutta la realtà, anche quella
apparentemente ostile. È certamente un problema di poca fede che vorrei correggere, ma ti chiedo
come è per te, se puoi aiutarci a fare un passo». Mi sembra che descriva bene la situazione di tutti:
in qualche momento non possiamo non dire di essere stati colpiti o stupiti dal reale, ma poi tutte le
difficoltà, le distrazioni, le preoccupazioni, le difficoltà al lavoro, i rapporti eccetera «gettano un
velo su questo giudizio». Allora il risultato è chiaro: mi disinteresso delle cose, mi intristisco. Se
questo prevale, alla fine viviamo come tutti: quando le cose vanno bene va bene, quando vanno
male va male. In questa situazione quello che alla fine viene messo in discussione è il giudizio: ma
la realtà in ultima istanza è veramente positiva o no? Tutte queste cose gettano un velo sul giudizio
o no? La lettera conclude dicendo che è «certamente un problema di poca fede». Che cosa ne dite?
Io dico: no, non è un problema di fede, ma è un problema della ragione! E questa è la sfida
fondamentale che il capitolo decimo lancia a ciascuno di noi. Quando tutto il decimo capitolo de Il
senso religioso dice che la realtà, con tutta la sua radicalità, con tutta la sua imponenza, è positiva,
sta dicendo una cosa vera o no? Questo è il giudizio che dobbiamo dare perché altrimenti noi
dipendiamo da come vanno le cose, e allora «le fatiche mi mostrano quanto sia invece fluttuante e
vacillante l’attrattiva verso la realtà». Per questo emerge una domanda radicale: la realtà è
veramente positiva o no? Dipende da come vanno le cose? Già sappiamo che se dipende da come
vanno le cose, quando vanno bene vanno bene, ma il problema è quando non vanno bene (come
tante volte non vanno)! Allora quando diciamo che la realtà è positiva siamo dei visionari?
Ciascuno può fare il paragone con quello che dice Giussani, perché questo è fare la Scuola di
comunità: noi possiamo dire in pace, con certezza, con un uso pieno della ragione che la realtà è
positiva o ci troviamo, come dice questa lettera, in questa fluttuazione? Quando ci troviamo davanti
alle situazioni, come reagiamo? Davanti alla malattia o davanti alla crisi, o davanti alla difficoltà dei
rapporti, o davanti alla situazione della famiglia, siamo veramente convinti che la realtà è positiva
oppure continuiamo a dirlo soltanto per una sorta di accanimento volontaristico («Dobbiamo dirlo
perché siamo del movimento, perché siamo cristiani»)? Possiamo dire questo con un uso pieno della
ragione? Si capisce la sfida? Da qui non si può recedere, perché se noi non facciamo questo lavoro,2
anche se veniamo qui ogni quindici giorni questo problema non lo risolviamo (e poi il giudizio
dipenderà da come vanno le cose…). Il giudizio dipende soltanto dalle fluttuazioni della nostra
sensibilità? Che questo foglio sia bianco è vero oppure dipende dallo stato d’animo con cui io lo
guardo? Un giudizio: la mia malattia, il dolore ai denti, o il fatto che ho perso il lavoro può mettere
in discussione un giudizio? Se noi diciamo che si introduce un velo sul giudizio, vuol dire che non
abbiamo imparato ancora che cosa è un giudizio. Per questo ci interessa capire bene che cosa è un
giudizio. Perché la realtà c’è, qualsiasi faccia abbia c’è. E questo non dipende dallo stato d’animo
che noi possiamo attraversare. Allora questo vuol dire che dobbiamo re-imparare certe cose che
diciamo: che cosa è un giudizio (perché, appena succede qualcosa nella vita, vediamo che non è
chiaro che cosa è). E perché? Lo dice molto bene una seconda lettera: «Caro Julián, rileggendo la
Giornata d’inizio anno mi sono accorta che soprattutto mi sfugge quell’andare a fondo della ragione
fino a raggiungere il Tu reale da cui scaturisco. Tante volte il contraccolpo non lo sperimento e non
ne sono nemmeno consapevole, ma tante volte sì. Ma che uso della ragione è quello di cui parli? È
un uso, oserei dire, che non conosco. Il passaggio dal contraccolpo al Tu, dal fiotto alla sorgente,
nella mia esperienza resta astratto. A volte si impone nella vita in certe circostanze il Tu reale, ma
non dura. Niente sembra togliermi in modo definitivo dall’incertezza strutturale; nessun marito,
nessun figlio, nessun cielo, nessuna foglia, neanche il dolore. L’Avvenimento accade, mi strappa
dalle mie idee soffocanti, mi spalanca alla bellezza della vita, all’amore di Cristo, alla gratitudine
per essere salvata mille volte; mi risveglio, sì, per un po’, ma direi che poi si richiude. Va meglio
quando sono fedele alla Messa quotidiana, ma non è neanche quello decisivo [perché tante volte
“adoperiamo” la Messa per non usare la ragione]. Che esista un uso della ragione in grado di
cambiare, di operare carnalmente, di incidere su tutto, sulla dimensione del mio io, io faccio fatica a
concepirlo; la divisione resta». Mi sembra che questo dica in modo palese la difficoltà. Perché?
Perché a noi questo uso della ragione è sconosciuto. Quando parliamo di «positivismo» non stiamo
dicendo una parola complicata, lontana dalla nostra esperienza, stiamo descrivendo ciò che ci
troviamo addosso tante volte: un uso della ragione che rimane soltanto all’apparenza. Per questo il
passaggio dal contraccolpo al Tu, dal fiotto alla sorgente, resta astratto, perciò pensiamo che dire:
«Tu» sia qualcosa che noi aggiungiamo alla realtà perché siamo un po’ visionari. E, siccome lo
affermiamo soltanto come volontarismo («Perché lo decidiamo noi»), non dura. Se dico: «Questo
foglio è bianco», è un riconoscimento, mi posso riposare e rilassare perché continuerà a essere
bianco anche tra cinque anni. Questo foglio non deve essere bianco perché io sostengo che è bianco,
altrimenti non dura. Immaginate se da qui possiamo passare al dire: dal contraccolpo al Tu, dal
fiotto alla sorgente. Infatti quante volte obiettiamo: «Ma perché devo aggiungere il Tu?»; sembra
una complicazione – lo dicevamo alla Giornata d’inizio anno –, sembra che dire: «Tu» sia qualcosa
che noi aggiungiamo per abitudine volontaristica (e dunque altri, che non siano abituati così come
noi, dicono: «Il niente», «il nulla»). Vedete che possiamo stare qui e non fare questo passaggio,
questo lavoro? Se non accettiamo la proposta di Giussani di un uso vero e completo della ragione,
poi davanti al reale restiamo sempre in questa incertezza strutturale – è micidiale l’acutezza della
nostra amica: poi non c’è marito, né figlio, né cielo, né foglia che mi possa dare la certezza che non
ho –. Allora capite che legame c’è tra l’incontro con Cristo e l’uso della ragione! Se l’incontro con
Cristo non risveglia la ragione e non è una introduzione alla realtà totale – noi siamo insieme per
imparare a usare la ragione così, per aiutarci e sostenerci in questo uso della ragione secondo la sua
vera natura –, tutto quello che facciamo, anche il venire qui ogni quindici giorni, è inutile perché
non riesce a cambiarci sostanzialmente; dopodiché non ci interesserà più, perché se dopo un certo
tempo uno non cambia, perde l’interesse anche per quello che dice di avere, cioè la fede. Per questo
una fede che non ci fa usare la ragione diversamente, non solo ci lascia positivisti, ma ci rende
scettici in quanto la fede non è in grado di ridestare tutta la capacità della persona di riconoscere il
reale. Allora uno deve farsi questa domanda: la presenza delle cose (il fatto che le cose ci sono)
implica veramente l’esistenza di qualcosa d’altro? Cominciamo a usare la ragione! O è soltanto per
modo di dire? Partiamo dall’esempio più facile che abbiamo fatto tante volte, quello dei fiori. La
presenza di un mazzo di fiori sul tuo tavolo implica qualcun altro che te li ha regalati oppure no? La3
presenza della persona amata te la crei tu oppure implica qualcosa d’altro? La presenza del reale la
creiamo noi, si crea da se stessa oppure implica qualcosa d’altro? O noi incominciamo a farci queste
semplici domande, in modo tale da non essere ingabbiati in un uso riduttivo della ragione, o in
fondo la nostra fede sarà sempre qualcosa di aggiunto a un io – come dico sempre – perfettamente
già costituito, come un cappello sopra la mia testa che in fondo è decorativo, non cambia il modo di
guardare, non cambia la realtà delle cose. Perciò la maggioranza delle persone può prescindere da
questo cappello, perché in fondo è un’aggiunta decorativa, non è decisivo per vivere. Questa è la
verifica che stiamo facendo dal 26 gennaio: o il cristianesimo è in grado di ridestare la ragione, in
modo tale da poter riconoscere il reale così com’è; o noi stiamo nell’incertezza permanente, ma
allora la divisione permane, come dice un’altra lettera: «C’è un’altra questione che mi rode, è il
fluttuare dell’affettività [se non si arriva a toccare il reale nella sua origine, rimaniamo fluttuanti
nell’affettività]. Voglio capire come stare davanti alle cose che affettivamente mi determinano in
modo che mi parlino di più della Presenza che le fa, che mi svelino il Suo volto». Infatti, se noi non
arriviamo ad afferrare la realtà, l’affettività fluttua: ora è così, dopo cinque minuti è cosà, e
rimaniamo sempre in balìa di tutto. Per questo, se non incomincio non a ripetere le frasi, ma a
imparare un uso corretto della ragione, quando sono nella mischia, quando mi trovo a soffocare
nelle circostanze, sono finito. Ma questo è tutto o – anche qui – il fatto che io ci sia, pur soffocando,
non ridendo, io, proprio io, adesso, in questa situazione, implica un Tu che mi fa? Perché è allora
che io incomincio a guardare a me stesso come voluto da un Altro, al di là del sentimento che
provo. È proprio perché riconosco questo che posso cambiare il sentimento. Noi, invece,
concepiamo le cose alla rovescia: prima dobbiamo cambiare il sentimento perché è questo che mi
convince che il mio io c’è. No, è la ragione che mi convince che c’è, e per questo posso cambiare il
sentimento! Ma noi rovesciamo i termini e così rimaniamo vittime degli stati fluttuanti del
sentimento, e siamo sempre in balìa di tutto. Come descrive un’altra lettera che leggo, questa
mancanza di conoscenza a che cosa porta? «Ho deciso di scriverti perché mi sembra di essere
arrivata a un punto del lavoro di Scuola di comunità in cui non riesco a “saltarci fuori”. Parto dalla
mia esperienza. Attualmente sono pensionata, ho i figli grandi, non ho nipoti, ho sicuramente la
possibilità di vivere il tempo secondo criteri che mi sono congeniali, come, insomma, in un lungo
periodo di vacanza. Mi sono impegnata nell’aiutare persone che possono avere bisogno di me –
sono medico – nella preparazione infermieristica, in consulenze eccetera, ciò che faccio lo faccio
volentieri, non mi ha costretto nessuno, ho scelto io di farlo, ma poi è sorta una domanda: gli
impegni che porto avanti possono dare il senso alla mia giornata? La risposta è no. Non sono il
significato della mia giornata, ma anche se facessi altro... Persino il rapporto con i figli mi viene da
dire che non dà il significato della mia giornata, mi accorgo che desidero qualcosa d’altro, qualcosa
di grande, qualcosa che possa corrispondere fino in fondo al mio cuore, e al mattino mi alzo
desiderando che questo qualcosa di grande mi possa accadere. Il punto però è questo: perché Cristo
sia un’esperienza vera deve accadere ora, incontrabile ora, io vivo aspettando che accada ora, ma
non Lo incontro in ciò che vivo, e a me questo sembra una contraddizione. Non mi spaventa il
desiderio dell’infinito che ho, perché lavorando sulla Scuola di comunità ho veramente capito che
avvertire una mancanza è un positivo (perché uno avverte la mancanza di qualcosa che ha
sperimentato e conosciuto, non di qualcosa che non conosce). Dimmi, come posso ancora lavorare
per essere sempre più vera?». Vedete come non vediamo come presenza le cose presenti? Questa
amica dice di avvertire questo desiderio dell’infinito. Ha incominciato a capire, non ha capito fino
in fondo ancora; perché questo desiderio dell’infinito è un positivo, perché? Perché ha sperimentato
e conosciuto qualcosa. Il desiderio dell’infinito è già il primo segno della Sua presenza, ma non se
ne rende conto. Siccome non usiamo la ragione secondo la sua natura, non compiamo questo
passaggio dal contraccolpo al Tu, dal fiotto alla sorgente, dal riconoscere il desiderio dell’infinto a
riconoscere Colui che mi dà questo desiderio dell’infinito, che me lo ridesta in continuazione
(perché alla sua età, pensionata, tanti sono già scettici, assolutamente). Che uno abbia questo
desiderio dell’infinito ancora così vivo, ce lo diamo noi stessi o è una cosa presente come presenza?
Questa è la modalità con cui io incomincio a riconoscere che c’è Uno che ancora mi ridesta. Perché,4
come dicevamo la volta scorsa, se uno si trova davanti a questo desiderio così imponente di infinito,
deve chiedersi lealmente: ma questo desiderio di infinito noi, che siamo così poveracci, ce lo
ridestiamo da noi? O questo è il primo segno della Sua presenza? Allora vuol dire che su questo
punto abbiamo ancora tantissimo lavoro da fare, come dice quest’ultima lettera: «Ho capito
finalmente il punto per cui per anni sono stata bloccata [e qual è stato il punto?]. Ho sempre usato il
mio pensiero religioso e le parole del movimento come alibi per non lavorare. Più o meno
inconsapevolmente, il fatto di pensare e di conoscere la risposta al mio bisogno umano, Gesù Cristo,
mi ha bloccato nella ricerca. Ho ripetuto “Cristo” senza veramente cercare. Lo sapevo già e questo
me Lo ha fatto diventare [guardate che conseguenza!] sempre più estraneo e “antipatico”, e per
contro io sempre più scettica, miope e delusa [una fede senza senso religioso, una fede che, invece
che svegliare il senso religioso, appiattisce il senso religioso perché penso di sapere già, porta allo
scetticismo, alla miopia e alla delusione]. Ricordo come ho reagito anni fa al titolo degli Esercizi:
“Cristo me trae tutto tanto è bello”. Segretamente io mi sono domandata: ma dove? Non rispondeva
mai alla mia nostalgia e la Sua pretesa diventava sempre più insopportabile perché deludente. Sono
rimasta nel movimento un po’ per abitudine, ma soprattutto perché grazie al Cielo tu e altri amici
non smettete di far vibrare quel qualcosa di me che ho scoperto essere il mio io più profondo, sede
di tutta me stessa, e da sola io so bene che non so starci davanti. La tua continua insistenza mi ha
fatto capire che c’è in ballo davvero la possibilità di qualcosa di grande per me, e ho deciso di
seguire. Seguendo davvero ho capito che non ho mai seguito, perché a me in fondo non è mai
interessato scoprire niente né di me né della realtà, mi sono sempre accontentata della convinzione
altrui [come ripetendo delle cose che scoprivano altri]. Ma al cuore questo non basta. Mi sono
guardata in azione: che spavento! Artificiosa, non libera nei rapporti, sempre alla ricerca di un
consenso [perché se uno non scopre qualcosa di vero è sempre alla ricerca del consenso degli altri],
ferma su me stessa, impietosa nel giudizio sugli altri. Seguire. Ho preso sul serio la Scuola di
comunità e i suoi avvisi, quindi ho cominciato a dedicare il mio tempo alla lettura attenta dei testi e
ho cercato di partecipare il più possibile ai gesti proposti. Seguire. La preghiera: ho incominciato ad
andare a Messa tutti i giorni, chiedendo che mi svelasse il mio e il Suo vero volto. L’origine di tutti
questi “seguire” è stata e continua a essere la sincera domanda che qualcosa di me e della realtà si
sveli a me stessa [che cosa ci mette in moto? La consapevolezza del bisogno: quando siamo
veramente consapevoli del bisogno incominciamo a muoverci]. Lo scontro-incontro con la realtà mi
ha fatto vedere la mia impotenza a trattenere ciò a cui tengo, non sono capace di salvare nulla della
mia giornata, e le persone a cui voglio bene mi scappano via, sono costretta a cercare qualcosa che
salvi me e i miei cari. Impegnata così [impegnata così!], la giornata è diventata interessante, i
suggerimenti dati uno spunto autorevole, è stupido non prenderli in considerazione; le parole lette e
ascoltate entrano in dialogo con la mia ricerca e ne cerco la compagnia [incomincia a cercare la
compagnia che la aiuta a questo]. Sono ancora titubante, ma trovo il coraggio di mettere a tema con
alcuni amici certe domande non più con l’affanno di dire la cosa giusta, ma di scoprire il nesso tra
Lui e me, mi slego dall’immagine di me che mi sono costruita e mi scopro libera nel rapporto con
gli altri. L’avventura è ricominciata [è così: l’avventura ricomincia quando noi ci lasciamo generare
dal carisma, cioè quando lo prendiamo sul serio, quando semplicemente incominciamo a seguire].
Tutto ha ripreso interesse e gli attimi sono passi [attenzione: gli attimi sono passi della strada], non
più istanti ingarbugliati, e mi sorprendo a guardarmi con tenerezza, non più con spavento, e mi
commuovo del fatto che potrei perfino innamorarmi di Chi riesce a farmi stare così bene con me
stessa. E già che ti ho scritto prendo l’occasione di chiederti conferma di questo». Ma la conferma
ce l’ha lì, ce l’ha lei nell’esperienza che sta facendo. Come dice Giussani, la fede è un’esperienza
presente dove uno ha la conferma della verità dell’esperienza che fa, come per lei: l’avventura è
ricominciata, la realtà è diventata interessante, i suggerimenti sono spunto, gli istanti sono passi;
non è che ha bisogno di una conferma “esterna” dell’autorità, perché l’autorità, il seguire è dentro
l’esperienza che fa, e qui si vede in modo solare. All’inizio, nella prima parte, c’era un certo
riferimento all’autorità, esterno, perché non era coinvolta nella sua persona, adesso si vede che
l’autorità fa parte dell’esperienza; in che cosa si vede? Che cambia l’esperienza. Si vede5
dall’esperienza stessa. Perché? Perché l’esperienza è totalmente diversa. Come dico sempre: gli
ingredienti sono gli stessi, la minestra è diversa. In che cosa si vede? Nell’esperienza stessa. Lei lo
dice sinteticamente con una parola: seguire. Cambia l’esperienza. Prima era un seguire senza
prendere sul serio la proposta – non è che fosse contro, non è che stesse facendo niente di diverso,
semplicemente non prendeva sul serio le ipotesi di lavoro per verificarle –; siccome, a un certo
momento, per il bisogno che aveva ha cominciato a prenderle sul serio, allora è incominciata la
sorpresa. La sorpresa: perché per lei è una sorpresa pensare che adesso comincia l’avventura che
prima era bloccata. Colpisce leggere queste vostre lettere, perché dicono meglio di qualsiasi
spiegazione che cos’è la vita. Gente normalissima, come ciascuno di noi, che semplicemente prende
sul serio quello che ci diciamo e comincia a verificarlo, a vincere, a rispondere a tutte le cose, a
usare la ragione in modo diverso, a non fluttuare come prima, a sperimentare una pienezza e
un’intensità che prima non conosceva. Dico questo perché è una speranza per ciascuno di noi; non
lo dice un “personaggio”, no, lo dice una persona come noi. Qual è la differenza? Non il ruolo, non
la carica, non la responsabilità che ha, ma che nella semplicità prende sul serio la proposta che
viene fatta, e succede questo che ho appena letto. Io sono il primo a restare senza parole davanti a
quello che succede nelle persone quando incominciano – come dice lei – a seguire.
Volevo provare a raccontare come il lavoro di Scuola di comunità sta illuminando l’esperienza del
mio ritorno a scuola dopo un anno di assenza. Ho scoperto che un uso non ridotto della ragione
c’entra con una possibilità di novità continua e di ripresa proprio nell’istante. I primi giorni del
mio ritorno a scuola ero molto preoccupata, perché un po’ temevo di non farcela fisicamente e un
po’ avevo il sospetto che il ritorno alla vita normale fosse un di meno rispetto alla possibilità di
vivere intensamente il reale; dopo i fatti eccezionali di cui ero stata fatta oggetto nell’anno rispetto
alla mia malattia, temevo che tornare alla normalità significasse un di meno, in qualche modo.
Quando, poi, all’ultima Scuola di comunità tu ci hai detto che il cristianesimo è la modalità
sovversiva e sorprendente di vivere le solite cose, ho capito che la Giornata d’inizio anno l’avevo
già fatta fuori ed ero da un’altra parte, e questo mi ha interrogato molto rispetto al mio ritorno al
lavoro. È vero che la stanchezza aumentava, ma questo mi ha costretto ogni giorno a verificare
quel punto della contingenza, perché non mi ero mai accorta come adesso che se io sto in piedi è
solo e unicamente perché mi appoggio a un Altro, e questo io lo vedo tutte le mattine proprio
andando a scuola. Poi ho cominciato piano piano a osservarmi in azione, e mi sono accorta che
rispetto al passato c’era tutta una serie di cose che quest’anno facevo in modo diverso: interrogare
i ragazzi, correggere i compiti, trattare alcuni studenti particolarmente di icili; ho cominciato a
domandarmi il perché. Io l’anno scorso non ho fatto corsi di aggiornamento, non mi sono
preoccupata del metodo di insegnare, e tornando a scuola non avevo programmato di cambiare
qualche cosa, però poi ho scoperto che il cambiamento dipendeva dal fatto che io ero diventata
molto più certa, per tutto quello che avevo visto, che entrando in classe c’è Uno che vince e che io
sono chiamata a riconoscere questo, innanzitutto. E questa cosa mi ha liberato dal mio sospetto che
la normalità non fosse un’occasione di vivere intensamente il reale, e poi mi ha fatto anche sentire
unite due cose che per me erano divise, cioè la mia malattia e il mio lavoro, che per me erano
sempre una contraddizione aperta, non capivo come potessero essere collegate. L’altra cosa che
sto scoprendo è che l’uso vero della ragione consiste, per il mio lavoro, nella possibilità di
riprendere realmente nell’istante, e quindi mi capita spessissimo che proprio da un istante all’altro,
nel momento in cui io mi accorgo che io sono Tu-che-mi-fai, questo riapre una possibilità che
altrimenti facilmente decadrebbe. Sto scoprendo che anche se io non sono una che molla di fronte
alle di icoltà, c’è un modo di non mollare che è un tuo proposito che appiccichi sul reale, e questo
dopo un po’ ti lascia senza fiato perché comunque, anche se le cose vanno bene, il tuo proposito ti
affanna, ti logora; e comunque esaspera l’altro, perché in questo modo tu non guardi quello che
hai davanti, ma insegui quello che hai in mente tu. La settimana scorsa è successo un episodio che
mi ha illuminato in questo senso. Il giorno del nubifragio pazzesco che c’è stato a Roma io sono
arrivata a scuola mezza morta, come molti romani, e a scuola c’era il caos più totale (corrente che6
non c’era, alunni che arrivavano mezzi distrutti), e il mio primo pensiero è stato: questa è una
giornata persa perché in queste condizioni è impossibile fare lezione. Poi, accorgendomi di quello
che stavo dicendo, ho capito che la mia ragione era già stata travolta dal nubifragio, perché stavo
dicendo che non c’era niente da fare in quella situazione. E mi sono detta: ma perché questi che
stanno qui, che sono riusciti ad arrivare a scuola, non li dovrei trattare come una presenza, che
cosa me lo impedisce? Da quel momento sono accadute, semplicemente dentro i dialoghi che
nascevano dalla lezione di storia o da quello che era il lavoro di tutti i giorni, tutta una serie di
spunti proprio belli. Uscendo da scuola ero contentissima, ma non perché ero riuscita a fare
lezione e quindi non avevo perso tempo, ma perché, per usare l’immagine che usavi tu la volta
scorsa, avevo attraversato le turbolenze in qualche modo: questo rischiare e il voler trattare quella
situazione presente come una presenza, mi aveva consentito di uscire più contenta anche in
giornate in cui ci sono tante cose che mi feriscono e che mi farebbero soffrire. E quindi anche
rispetto a tutte le cose che non capisco e che mi farebbero soffrire, queste esperienze che sto
vivendo – rispetto all’uso allargato della ragione – mi fanno essere certa che, comunque, c’è un
punto in cui io sono fatta in ogni istante, e che questa cosa mi sostiene e mi libera continuamente.
E questa coscienza che cosa c’entra con la tua malattia? Perché la tua malattia è stata positiva?
È stata positiva perché io in quella circostanza che non ho scelto mi sono accorta realmente che
c’era Qualcuno che mi faceva nell’istante e che attraverso anche questa situazione mi consentiva di
verificare la mia fede in continuazione. Vedere che c’era Uno che mi faceva compagnia mi ha
cambiato, ma mi ha cambiato nelle cose che poi riguardano il lavoro, non solo rispetto alla
malattia.
Quando diciamo che la circostanza è positiva stiamo dicendo questo, e stiamo dicendo che ci rende
più noi stessi, tanto è vero che possiamo vivere la normalità con una diversità rispetto a prima; la
circostanza non è soltanto un momento di passaggio che dobbiamo sopportare, è che introduce uno
sguardo nuovo su di me, tanto che posso incominciare a fare lezione diversamente e posso
affrontare la normalità senza la solita riduzione, perché la malattia (o la difficoltà) mi ha costretto a
non rimanere all’apparenza, a usare la ragione per poter vivere in un modo più vero. E si vede che
uno lo ha imparato perché, quando finisce un certo periodo, continua a usare la ragione
diversamente: è diventata sua una modalità nuova di stare nel reale.
In questi ultimi tempi mi sono trovata spesso ad accorgermi delle cose come presenti. Per esempio,
io faccio il dottorato, ho un laureando con me e lui ha un modo di fare che proprio non sopporto. A
un certo punto, però, invece di guardarlo volendo che facesse quello che dicevo io, mi sono fermata
e mi sono accorta che lui era lì e che tutte le cose che a lui interessavano, e che a me magari
interessavano di meno, potevano essere un’occasione anche per me di imparare da quello che a lui
piace. Però io non ho fatto nulla per trovarmi in questa posizione, e allora la mia domanda è
questa: qual è il mio lavoro per accorgermi sempre delle cose come presenti? Che cosa vuol dire
educare la ragione ad aprirsi al linguaggio dell’essere? Mentre ci pensavo mi è successa una cosa
che forse mi ha fatto capire un po’ la risposta, però vorrei chiederti un aiuto. Ieri ero in
metropolitana e stavo leggendo la Giornata d’inizio anno; a un certo punto, entra un tizio che
suona la fisarmonica, e io ho incominciato a pensare: ma guarda questo se doveva entrare qui, io
stavo leggendo, ora mi disturba, e in un primo momento cerco di concentrarmi sul testo. Poi, a un
certo punto, penso: ma qui Carrón che cosa sta dicendo? Di cogliere le cose come presenti, e io
questo qui non lo sto neanche considerando; allora alzo gli occhi e mi metto ad ascoltarlo. Mi
sembra che fare seriamente il lavoro di Scuola di comunità, in qualche modo, mi aiuti a guardare
le cose come presenti, però vorrei capire se c’è altro, se è questo e se c’è altro.
È così se non rimaniamo soltanto all’apparenza. Che cosa vuol dire riconoscere le cose presenti
come presenza? Che una foglia, che sta lì e non ti disturba – e allora non può neanche costringerti a
fare un lavoro perché non ti disturba, perché non ti dà fastidio –, grida una presenza? Che noi
incominciamo a intravedere, almeno, le cose presenti senza darle per scontate, cercando di
immedesimarci, per sperimentare che cosa potrebbe diventare la vita se io incominciassi a rendermi7
conto di non dare niente per scontato, niente, niente, niente, non so che cosa, niente! Cioè a
guardare le cose presenti come presenza. Al posto della foglia mettete qualsiasi altra circostanza,
pur dolorosa, pur soffocante, e anche in quella situazione provate a guardare le cose presenti come
presenza. Quando siete incastrati o state soffocando, le cose non sono presenti? Se guardassimo le
cose presenti come presenza, che respiro ciò porterebbe all’istante in cui stiamo soffocando! Se noi
non intravediamo questo, chi ce lo fa fare? Se noi non intravediamo che cosa guadagneremmo nella
vita nel fare questo lavoro che ci propone don Giussani – che, come vedete, non è altro che quello
che ci propone il Papa –, non colmeremo mai la distanza che sentiamo tra noi e le loro
preoccupazioni educative, è micidiale! Perché a noi verrebbe subito da pensare che qualsiasi altra
cosa è più importante, ma loro insistono senza sosta in questo. E noi su questo facciamo veramente
fatica, per questo se attraverso gli esempi e le testimonianze che leggo, non intravediamo dove le
persone incominciano a vedere che cosa potrebbe dire per la vita questo, chi ce lo fa fare? Perché,
come abbiamo detto alla Giornata d’inizio anno, se soffochi è perché sei positivista. Punto.
Soffochi? Non prendertela con la circostanza, non prendertela con il marito o con la moglie, non
prendertela con il datore di lavoro, non te la prendere con qualcosa fuori di te! Soffochi? Positivista!
Perché il capo può essere così, la moglie può essere così o il datore di lavoro può essere così o la
circostanza può essere così, ma nessuna di queste cose può impedire che io viva questa circostanza
in un modo non positivista, cominciando a respirare; altrimenti l’unica cosa che posso fare è
sperare, aspettare, attendere che qualcosa succeda che… No, io posso cominciare a vivere qualsiasi
circostanza in un modo diverso perché questa è la novità che ha introdotto Cristo! Ha introdotto una
novità nella vita che mi consente di usare la ragione secondo la sua vera natura, e perciò comincio a
guardare, come dice Giussani, le cose presenti come presenza. Senza di questo qual è la
convenienza umana della fede? Se, infatti, non ci è stato promesso che a noi sarà risparmiata la
fatica di tutti, perché dovremmo perdere tempo e stare qui questa sera, se non per aiutarci e
sostenerci in un uso della ragione, in un modo di vivere la realtà secondo la sua vera natura? L’ha
detto il Papa: ragione e natura nella loro correlazione, perché soltanto una ragione nella sua
correlazione con la realtà può essere non ridotta, e una realtà in correlazione con la ragione può
essere non soffocante. Senza di questo noi viviamo come tutti, e il cristianesimo è soltanto
un’aggiunta che non cambia, come dicevi, la normalità. Ma noi abbiamo visto uno che poteva
continuare a gridare la positività della realtà anche a ottant’anni, e tutti sappiamo il dolore che
sopportava. Almeno qualche crepa nella nostra monolitica convinzione che non c’è altro da fare una
testimonianza così la introduce! E un desiderio di partecipare a questa strada lo introduce!
Dobbiamo aiutarci e domandare che questa intuizione diventi operativa, affinché possiamo anche
noi respirare come don Giussani in qualsiasi situazione.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 9 novembre alle ore 21.30. Riprenderemo il
capitolo undicesimo de Il senso religioso, su cui avevamo fatto già gli Esercizi della Fraternità
dell’anno scorso e che potete riprendere.
Come avete visto sul sito di CL è uscito un documento di giudizio sulla situazione, un giudizio del
movimento di CL: «La crisi sfida per un cambiamento». È una documentazione di quanto stiamo
dicendo, cioè è un tentativo di guardare la realtà a partire da quello che abbiamo detto questa sera,
perché non possiamo affermare che la realtà non è positiva davanti alle montagne o alle stelle, se
non possiamo dirlo davanti alla crisi! Per questo, che cosa sostanzialmente dice il volantino? Già
cominciamo a ricevere delle reazioni a questo: «Il giudizio sulla crisi è arrivato come aria fresca.
Finalmente un aiuto concreto a guardare questa cosa che ancora non mi ha toccato personalmente
ma che investe diverse persone intorno a me e che si profila minacciosa all’orizzonte. Soprattutto
mi è sembrato un esempio chiarissimo di cosa voglia dire fissare come presenza le cose presenti.
Che la crisi c’è lo sappiamo tutti, ma normalmente io passo alle conseguenze: cosa fare, che
strategia adottare, come è meglio muoversi, cioè salto il dato, il dato che ho davanti agli occhi e non
ne conosco la vera natura. Invece nel volantino l’incipit è chiaro [questa è la sfida: la realtà è8
positiva, primo perché mette in modo la persona; prima di tutte le strategie la crisi è un dato che mi
mette in moto, dunque è un’occasione]. Al gruppetto di Scuola di comunità, lavorando proprio sul
quartino sulla crisi, dopo un lungo discutere, è proprio emerso chiaramente che di fronte alla crisi ci
possono essere due reazioni. Una, di chi guarda la crisi come un’occasione: la realtà è ultimamente
positiva, e si mette in moto; l’altra, di chi si arrabbia e si ribella [e scende in piazza a lanciare
sanpietrini contro le banche]. A un certo punto della discussione, un amico ha chiesto: ma qual è la
differenza tra le due posizioni? Da che cosa nasce una posizione come quella descritta nel
volantino? Mi è sembrata una domanda decisiva, soprattutto perché ha smascherato tante mie
riduzioni. Pur avendo presenti alcuni fatti in cui in me ho sorpreso una posizione di apertura rispetto
alla realtà che avevo davanti, in quel momento, di fronte alla sua domanda, non avrei saputo
rispondere che con teorie e, sotto sotto, mi sono accorta che avrei ridotto la questione a una
differenza di atteggiamento psicologico; invece quella domanda è diventata anche mia». Tante volte
pensiamo che fare il capitolo decimo de Il senso religioso è come una sorta di introspezione
psicologica, ma siamo matti? Non abbiamo altro da fare? Stiamo parlando della natura della realtà,
non della introspezione psicologica! Stiamo parlando della natura, della realtà e dell’io. Ma noi il
sentire dire Giussani: «Scendere al profondo del mio essere», lo confondiamo con una sorta di
introspezione psicologica – per dire che siamo veramente “fuori” noi; noi, non gli altri!
Allora qual è il punto, come dice questa lettera, il punto più rivoluzionario e decisivo del documento
«La crisi sfida per un cambiamento»? Proprio all’inizio, dove si propone e si mette in opera quel
cambiamento di prospettiva di concezione che è il contenuto del capitolo decimo de Il senso
religioso e della Giornata d’inizio anno: la realtà è positiva. Ma come si capisce dai primi dialoghi
avuti, per tutti la realtà non è positiva, tanto è vero che basta che appaia un’altra cosa per mettere in
dubbio e in discussione o per incominciare la fluttuazione che abbiamo visto; perciò ci si difende da
essa, la si maledice, la si incolpa e si vorrebbe fuggire lontano, non negarla e, se non è possibile,
nascondersi. La vera sfida allora è questa: perché noi possiamo dire che la realtà è positiva? Perché
se noi non possiamo dirlo con convinzione, noi, davanti alla crisi, rimaniamo zitti, zitti! Ci uniremo
al corteo dei lamenti – spero non ai sanpietrini, ma almeno dei lamenti, sì –. Ma qui vediamo che
noi non diventeremo una presenza, se non affrontiamo, ciascuno personalmente, e insieme come
comunità, la sfida del reale, la sfida della crisi. Altrimenti davanti ai compagni, ai colleghi, agli
amici che abbiamo e che hanno perso il lavoro o che attraversano delle difficoltà, noi non apriamo
bocca perché non sappiamo che cosa dire. Allora questo urge, prima di tutto, in ciascuno di noi.
Perché noi possiamo dire che la realtà è positiva? Attenzione, non si tratta di una interpretazione
“cattolica” della realtà, come a dire: siccome abbiamo una certa partenza, un’idea precostituita, un
preconcetto religioso, interpretiamo la realtà come positiva anche se in realtà è negativa, e per
questo non lo possiamo dire a tutti perché altri non condividono la nostra fede; invece altri che non
hanno questa partenza la interpretano diversamente e possono permettersi di dire che la realtà è
negativa, cioè possono dire pane al pane e vino al vino perché non sono costretti dalla loro
ideologia. No! Questa è la sfida: non si tratta di “battezzare” la realtà, ma di riconoscerla nella sua
vera natura. Per questo è veramente la verifica di quello che ci diciamo, perché quando leggiamo il
capitolo decimo de Il senso religioso o facciamo la Giornata d’inizio anno, pensiamo che sono
momenti “interni”, per gli addetti al lavoro, per quelli che sono già convinti nell’ovile, ma sulla
realtà noi non possiamo dire queste stesse cose, ne dobbiamo dire altre. Ma adesso abbiamo
stampato un giudizio dove diciamo le stesse cose applicate alla realtà; stanno in piedi o non stanno
in piedi? Perché se non stanno in piedi, non sta in piedi solo il giudizio del quartino, ma non sta in
piedi l’inizio d’anno, non sta in piedi il capitolo decimo de Il senso religioso; si capisce? Allora
questa è la sfida, che don Giussani e il Papa portano avanti, questa è la battaglia: è vero o non è vero
il giudizio che la realtà è positiva? Capite che questo non lo possiamo risolvere semplicemente con
le nostre chiacchiere e con una compagnia sentimentale. O con un modo di stare insieme che ci
risparmia questo uso della ragione così. Questo non vuol dire che lo dobbiamo fare
individualisticamente; dobbiamo accompagnarci a farlo, ma accompagnarci perché diventi
personale, di ciascuno di noi, perché altrimenti non potremmo stare davanti alla crisi. Per questo noi9
non battezziamo o ribattezziamo niente, in gioco c’è il riconoscimento operato dalla ragione della
realtà nella sua natura ultima. Tutto ciò che c’è, in quanto è accaduto, in quanto il Mistero ha
permesso che accadesse – perché tutto ha un’origine in quel Tu –, per il fatto che è accaduto, è una
provocazione alla nostra vita, cioè un invito al cambiamento, è un’occasione di un passo verso il
destino, è per noi, è via, è strumento del nostro cammino, è segno, diciamolo: la realtà è segno.
Questa è la natura ultima della realtà, e quello che la crisi mette davanti a tutti è questa sfida, a noi e
agli altri, perché la sfida è per tutti.
Nel quartino si parla di quella tradizione ebraico-cristiana per la quale la realtà è percepita come
ultimamente positiva. Questo vuol dire che è qualcosa che noi “aggiungiamo” in forza della nostra
tradizione? No. È che la nostra tradizione, la nostra fede, ridestando il senso religioso, ridestando la
nostra ragione, ridestando la nostra capacità di stare nel reale e di trattare la realtà secondo la vera
natura, ci consente di percepire come positiva la realtà perché è positiva; il che è diverso
dall’aggiungere qualcosa alla realtà come fossimo dei visionari: il fatto che la fede ridesta il senso
religioso ci consente di percepire la realtà secondo la sua vera natura. È ontologicamente positiva la
realtà. Il problema è che noi cediamo alla tentazione di intendere in modo sentimentale e
moralistico l’affermazione: «La realtà è positiva», come se positiva significasse desiderabile o
gradita. E poiché ci sono circostanze, dati che non possono essere percepiti come desiderabili, allora
ci sembra di barare, di giocare sporco, dicendo che la realtà è positiva. Perché? Perché se noi non
arriviamo a vedere una foglia presente come presenza o una malattia come presenza, o qualsiasi
cosa come presenza di un Tu che è all’origine, noi non riusciamo a dire che la realtà è positiva. Per
questo se riduciamo la realtà all’apparenza, non possiamo dire che è positiva, come mi diceva poco
fa un amico raccontando di Marco Simoncelli, il motociclista morto durante una gara; davanti a uno
che faceva una battuta sulla sua morte, una suora presente ha detto: «È una disgrazia che sia morto,
o è una fortuna che uno possa trovare la meta?». Nel modo di reagire davanti a una disgrazia si vede
tutto il nostro atteggiamento. Non è che uno lo desidera – non sappiamo qual è il disegno di Dio –,
ma siamo certi che è arrivato alla meta o che ha avuto sfortuna? Se non abbiamo risposta per
Simoncelli, non abbiamo risposta neanche per noi e per i nostri cari, né per i nostri ammalati. La
realtà è positiva perché c’è. In quanto c’è, la realtà è provocazione, è segno, e quindi occasione di
cambiamento, di risveglio dal mio torpore, come diceva prima l’amica insegnante, la malattia può
essere l’occasione del risveglio che dà frutti inaspettati, sorprendenti, come abbiamo visto. Ma un
riconoscimento così della realtà che cosa implica? La ragione, un uso della ragione secondo la sua
vera natura di conoscenza del reale secondo tutti i fattori; un uso vero e compiuto della ragione,
perché la ragione è fatta per cogliere la realtà come dato vibrante di un’attrattiva, come
provocazione e come invito, ci siamo detti. Ma per la nostra fragilità e per il condizionamento del
contesto, per il potere che ci circonda, questo uso della ragione tante volte, come abbiamo sentito in
una lettera, è strano. Questo è il contributo che è venuto a darci Cristo. Siccome siamo in questa
situazione, Cristo si è incarnato, è diventato carne, non per risparmiarci questo lavoro della ragione,
ma per diventare compagno, per ridestare tutta la possibilità della ragione di riconoscere il reale
come è. Quando Giussani dice che Cristo è venuto, come abbiamo detto il 26 gennaio, per
risvegliare il senso religioso, sta dicendo che è venuto per farci diventare uomini in modo tale che
possiamo guardare la realtà secondo la sua vera natura, senza essere visionari. Ecco, se noi
facciamo questo, possiamo dialogare con tutti, altrimenti dialogheremo soltanto con il nostro
ombelico nella nostra stanza, perché ci farà paura parlare con chiunque altro. Per questo non
perdiamo di vista che stiamo sempre facendo la stessa strada dal 26 gennaio; adesso vediamo
perché il senso religioso così vissuto, del quale la ragione è un segno palese e la realtà è un altro
segno, è la verifica della fede, perché se noi davanti a queste situazioni non viviamo la realtà nella
sua vera natura, vuol dire che la fede, la nostra fede, come diceva don Giussani, è mancante del
senso religioso, è una fede che non è in grado di ridestare l’umano. Ma di una fede che non è in
grado di ridestare l’umano, di salvare l’umano, chi se ne frega? È un ostacolo più che un aiuto. Per
questo ci interessa fare la verifica anche con il quartino, che è uno strumento per giocarci nel reale e
fare la verifica non soltanto qui, alla Scuola di comunità, ma nel reale, giocandoci con tutti sulla10
crisi. Per questo vorremmo usare questo quartino per una battaglia culturale pubblica, di CL in
quanto tale, come una modalità di stare noi nel reale, di dare un contributo ai nostri colleghi, ai
nostri amici, per portare loro la speranza che abbiamo in noi, ma una speranza che non può essere
portata ragionevolmente in questo contesto se non per un uso vero della ragione. Non possiamo
diventare credibili soltanto essendo “pii”, ma diventando veramente uomini con l’uso della ragione,
come succede al Papa, che va al Parlamento tedesco e sfida tutti con un uso della ragione diverso,
perché il nostro contributo sarà decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della
realtà, altrimenti ci possono non mettere in galera, ma saremo nella società come persone
insignificanti per gli uomini. Tale impegno non si esaurisce nel breve periodo, ma ci accompagnerà
per i prossimi mesi. Il quartino è stato pensato per aiutare noi stessi e chiunque incontriamo a
trovare ragioni adeguate per vivere la crisi come sfida per un cambiamento, come per ridestare la
speranza che per ciascuno c’è una possibilità anche nella crisi. E questo lo possiamo portare
soltanto noi come cristiani, soltanto noi, perché a tutti gli altri già vedete cosa succede. Il giudizio
che sottende il quartino è che l’impeto di ciascuno è un bene per tutti, perché l’energia dell’io non si
esaurisce in se stessa, ma costruisce un popolo. E la storia dell’Italia è una dimostrazione di questo,
come abbiamo visto nella mostra 150 anni di sussidiarietà: nella storia d’Italia, davanti a situazioni
molto peggiori della nostra le persone si sono messe insieme e hanno costruito l’Italia. Vediamo che
è stato possibile. Non è che quello che proponiamo non sia realistico, l’esperienza di 150 anni
documenta che è stato più realistico di qualsiasi altra teoria. Per questo i momenti pubblici promossi
direttamente dal movimento, possono essere associati alla mostra sui 150 anni di sussidiarietà.
Come esempio per tutti e come suggerimento di un’immagine, che invitiamo a proporre ovunque, si
svolgerà un primo incontro a Milano, venerdì 4 novembre alle ore 21 presso il Mediolanum
Forum Assago, per lanciare a tutto campo il contenuto del quartino, come un esempio che ciascuno
di voi, nelle vostre comunità, possa riproporre secondo la modalità che ritenete più conveniente.
È disponibile su App Store l’applicazione del libretto verde dei Canti per iPhone, iPad e iPod touch.
Prossimamente sarà disponibile anche quella de Il libro delle ore.
Concludiamo il nostro incontro pregando per l’incontro che avremo domani col Papa e coi
rappresentanti delle altre religioni, ad Assisi.
Veni Sancte Spiritus

mercoledì 19 ottobre 2011

LA CRISI, SFIDA PER UN CAMBIAMENTO

«Una comunità cristiana autentica vive in costante rapporto con il resto degli uomini, di cui condivide totalmente i bisogni, ed insieme coi quali sente i problemi. Per la profonda esperienza fraterna che in essa si sviluppa, la comunità cristiana non può non tendere ad avere una sua idea ed un suo metodo d’a ronto dei problemi comuni, sia pratici che teorici, da o rire come sua specifica collaborazione a tutto il resto della società in cui è situata» (don Giussani).
Nella prospettiva delineata da don Giussani si colloca questo contributo di Comunione e Liberazione, che offriamo a tutti per un dialogo che favorisca una ripresa del nostro Paese
La crisi è un dato
Che lo si voglia o no, la crisi esiste. E sta cambiando le condizioni di vita di milioni di persone, in molti Paesi, di sicuro in Italia: aumentano i poveri, sempre più aziende chiudono, si rischia di essere tagliati fuori dallo sviluppo mondiale, declassati a Paese di serie B.
La crisi sta provocando reazioni diverse, spesso determinate dal prevalere di due tendenze contrapposte:
• subirla, pensando di esorcizzarla e di superarla addossando le colpe su qualcuno (che sicuramente esiste e ha più responsabilità di altri).Ma così facendo, non si produce alcun cambiamento, se non quello di aumentare il lamento che può finire nella disperazione.
• ignorarla, dopo averla provocata, continuando a comportarsi come se nulla fosse e soprattutto senza mettersi minimamente in discussione.
La realtà è positiva perché mette in moto la persona
È irrazionale pensare che basti essere contro qualcuno per sconfiggere la crisi, peggio ancora è negarne l’esistenza. È il contrario di quella tradizione ebraico-cristiana per la quale la realtà è percepita come ultimamente positiva, anche quando mostra un volto negativo e contraddittorio.
La realtà, infatti, ci rimette continuamente in moto, provocandoci a prendere posizione di fronte a ciò che accade.
Questa consapevolezza ha costruito la storia millenaria dell’Occidente. E a dispetto di ogni dualismo o manicheismo − per cui il male è sempre da una parte e il bene sempre dall’altra −, ha permesso di costruire il futuro proprio accettando le sfide della realtà, rispondendo ad esse con intelligenza, creatività
e capacità di sacrificio.

«Una comunità cristiana autentica vive in costante rapporto con il resto degli uomini, di cui condivide totalmente i bisogni, ed insieme coi quali sente i problemi. Per la profonda esperienza fraterna che in essa si sviluppa, la comunità cristiana non può non tendere ad avere una sua idea ed un suo metodo d’a ronto dei problemi comuni, sia pratici che teorici, da o rire come sua specifica collaborazione a tutto il resto della società in cui è situata» (don Giussani).
Nella prospettiva delineata da don Giussani si colloca questo contributo di Comunione e Liberazione, che offriamo a tutti per un dialogo che favorisca una ripresa del nostro Paese.
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Come ha detto Benedetto XVI, «un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale.
Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Spe salvi, 24).

È questa la ragione per cui ancora il Papa, pur riconoscendo il disagio e il disorientamento che spingono ciascuno a muoversi in maniera solitaria e a compiere scelte di vita sempre più fragili, non ha potuto evitare di lanciare un appello: «Cari giovani, non abbiate paura di affrontare queste sfide!
Non perdete mai la speranza» (Ancona, 11 settembre 2011).
È un invito a guardare la crisi come opportunità: essa, infatti, costringe a rendersi conto del valore di cose a cui non si pensa finché non vengono meno: per esempio, la famiglia, l’educazione, il lavoro.
Del resto, di crisi l’Italia ne ha attraversate tante anche negli ultimi 150 anni, senza reagire con una difesa aprioristica del passato e nemmeno con chiusure preconcette, ma mettendo in gioco una capacità di un cambiamento che ha posto le premesse per un continuo inizio − tanto nuovo quanto imprevedibile − della convivenza sociale.
Allora la domanda da porsi riguarda il contenuto del cambiamento, che è frutto di una libertà in azione.
In primo luogo, occorre essere leali e ammettere che le ideologie non pagano più, che lo statalismo fa sprofondare nei debiti e che la finanza non salva l’uomo e aumenta solo la folla degli indignados, segno di una esigenza tanto positiva (che, cioè, i desideri e i bisogni concreti delle persone non siano continuamente estromessi dal dibattito pubblico) quanto scomposta.
In secondo luogo, bisogna riconoscere che nella situazione attuale sono reperibili le tracce di un cambiamento positivo.

Alcuni esempi
Ci sono persone che non si lasciano trascinare dal flusso delle cose, ma remano controcorrente anche a costo di sacrifici, e per questo sono riconoscibili. Proprio nel mezzo di una crisi tra le più gravi della nostra storia, esistono fatti virtuosi, segno di persone che si sono rimesse in azione senza aspettare che altri − sempre altri − risolvano i problemi. Non potendo cambiare tutto subito, hanno
cominciato a cambiare loro. C’è gente che affronta la realtà senza preclusioni, e prova a darsi da fare senza rinnegare e dimenticare nulla.
• Molte famiglie, che potrebbero sfaldarsi sotto l’urto delle difficoltà economiche, scoprono il valore del fare sacrifici, magari per garantire a tutti i costi l’educazione dei figli, fino al punto di accettare un regime di vita più sobrio; inoltre non smettono di tessere reti di solidarietà e, se possibile, di risparmio.
• Nel campo della formazione professionale, segnato dal perdurare del clientelismo, nascono realtà che tornano a insegnare ai giovani un mestiere, mettendo di nuovo in contatto il mondo dell’impresa e quello della scuola.
• Si incontrano sempre più spesso insegnanti che, in un mondo scolastico statalizzato e bu
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rocratizzato, immaginano metodi di insegnamento nuovi, individualmente o coinvolgendo i
colleghi, anche pagando di tasca propria quell’aggiornamento professionale che nessuno assicura loro d’ufficio.
• A dispetto delle enormi difficoltà a reperire fondi, continuano a nascere opere di solidarietà e di cooperazione; talune di quelle “storiche”, poi, si rinnovano invece di morire. E dilatano l’esperienza della condivisione gratuita del bisogno di milioni di persone, quel mare di carità che ha segnato la storia dell’Italia.
• Ci sono imprese che, pur tra mille ostacoli che potrebbero indurre a chiudere, hanno accettato la sfida del cambiamento e stanno creando occupazione aumentando il fatturato, anche se non riescono da sole a sostenere la crescita dell’Italia.
• Soprattutto in un panorama giovanile spesso sconfortante, ci sono molti giovani che non si accontentano di un futuro mediocre: per esempio, le università sono considerate un settore secondario della vita sociale, eppure molti studenti − a differenza del recente passato − non si accontentano più del pezzo di carta alla fine degli studi, ma imparano presto una lingua straniera, sono disponibili a trascorrere periodi all’estero, a fare stage, a studiare in modo adeguato; e trovano posti lusinghieri in aziende o atenei esteri.

I fattori di un possibile cambiamento

Che cosa accomuna tutti questi tentativi positivi?
La convinzione che la realtà, anche quando appare negativa e difficile − come vediamo oggi −, rimette in gioco la voglia di conoscere, di costruire, di impegnarsi, sebbene sia stata oscurata e mortificata da anni di omologazione del potere.
Allora la strada per attraversare − e per non subire da rassegnati − la crisi è vivere la realtà come una provocazione che ridesta il desiderio e la domanda che, per quanto riguarda l’Italia, significa anche ingegno, conoscenza, creatività, forza di aggregazione. Questi tentativi mostrano la risposta all’unica domanda che nessuno sembra affrontare: da che cosa può rinascere la crescita, da che cosa si può ricreare la ricchezza dell’Italia?
Da quell’imprevedibile istante in cui un uomo genera novità, prodotti, servizi, valore aggiunto, bellezza per sé e per gli altri, senza che nessun antecedente storico, sociale e politico possa ultimamente spiegare l’incremento di valore e di ricchezza che si genera.
Soprattutto nei momenti di crisi questo desiderio in azione è il più potente fattore che fa rinascere la certezza, come ha detto il presidente Napolitano al Meeting di Rimini: «Portate, nel tempo dell’incertezza, il vostro anelito di certezza», fino a riconoscere che chi accetta questa sfida è «una risorsa umana per il nostro Paese».

Dentro un popolo rinasce la speranza

Ma solo se sono collocati dentro un popolo il desiderio ridestato e i tentativi che nascono dalla persona hanno possibilità di durare. E il popolo è un mettersi insieme della gente non nella provvisorietà di un tornaconto, ma sostanzialmente. Non contro un nemico, ma per un bene desiderato e perseguito. Per questo la distruzione di un popolo − con tutta la sua ricchezza espressiva e associativa − è l’anticamera dell’uccisione del desiderio: infatti se i giovani non sono di fronte a una
esperienza umana diversa, come possono percepire che il mondo può cambiare? E come può nascere in loro la speranza del futuro?

3
Il compito della politica
Le scelte politiche devono essere in funzione di chi si muove in questa direzione e non più a vantaggio di chi agisce per schieramenti di potere e promette di cambiare tutto perché nulla cambi.
È l’esempio che ci viene dal discorso del Papa al Parlamento tedesco, che ha indicato che cosa deve essere importante per un politico: «Un cuore docile», che sappia «rendere giustizia al popolo» e «distinguere il bene dal male». E con questo ha messo nelle mani di tutti il criterio per giudicare l’operato di chi fa politica.
Questo spiega perché persone con ideologie diverse si possono incontrare persino in politica (come accade nell’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà, che raduna parlamentari di tutti gli schieramenti e che ha prodotto leggi come quella sul 5 per mille a vantaggio delle realtà non profit), rinverdendo quella tradizione per cui le contrapposizioni pur dure non hanno impedito di collaborare alla costruzione del bene comune, specialmente nei momenti più drammatici della nostra storia.
Questi elementi possono orientare le scelte politiche in modo opportuno, come strumenti per un cambiamento che viene inevitabilmente dal basso. La prima politica, infatti, è sostenere chi costruisce un bene per tutti e cercare insieme risposte pratiche alle difficoltà e alle speranze di un popolo.
Così si può rilanciare lo sviluppo del Paese, scommettendo sugli «io» in azione − persone e comunità −, e riconoscendo il ruolo decisivo dell’educazione, dalla quale dipende il futuro di un popolo. E l’educazione non riguarda solo i giovani, ma tutti.
Ecco alcuni strumenti che possono favorire una ripresa:
• difendere la vita in ogni suo momento e in tutti i suoi aspetti;
• investire in un sistema dell’istruzione e formazione professionale fatto di scuole statali, libere e paritarie, e di università competitive fra loro nella didattica e nella ricerca, valorizzando il merito degli studenti e dei professori fin dal reclutamento e negli avanzamenti di carriera;
• offrire le necessarie opportunità ai giovani capaci e meritevoli, affinché l’Italia non diventi un Paese per vecchi;
• aiutare selettivamente le imprese che investono, creano occupazione ed esportano, eliminando lacci, laccioli e aiuti clientelari che non producono alcuno sviluppo;
• allearsi − nella direzione di un welfare sussidiario − con le famiglie, i portatori di risparmio, di aiuto ai più deboli, di educazione; e ancora, collaborare con le miriadi di realtà sociali che
lavorano per il bene di tutto il popolo, secondo il principio di sussidiarietà;
• difendere un ambiente degradato e distrutto dalle speculazioni di ogni genere;
• favorire un federalismo fiscale che rinnovi la pubblica amministrazione, facendo pagare i costi e gli sprechi a chi li provoca ed eliminando le sacche di clientelismo e di spreco.
È a livello di queste preoccupazioni che si colloca il contributo dei cattolici alla vita sociale, come
afferma il cardinale Angelo Scola: «La vita del nostro popolo documenta anche l’esistenza di fattie opere buone che dicono questa sovranità sul male dell’umana libertà quando si lascia cambiare dalla grazia di Cristo. Sono segni ragionevoli che la speranza, alimentata dalla fede e dalla carità, praticata nelle nostre comunità, è veramente affidabile» (Milano, 16 ottobre 2011). Lo ha sottolineato il cardinale Angelo Bagnasco: «I cristiani da sempre sono presenza viva nella storia, consapevoli che la fede in Cristo è un bene anche per la Città»

a cura di comunione e Liberazione

venerdì 14 ottobre 2011

La sfida è culturale, non politica




di Luigi Negri*14-10-2011


Cerco di immedesimarmi nella complessità e nella contraddittorietà della situazione italiana, culturale, sociale, politica e, di riflesso anche ecclesiale, cercando di percepire il tipo di sfida che viene alla mia presenza di pastore, di guida di una comunità ecclesiale.

Ora è indubbio che come ho detto tante altre volte - ma mi sembra giustissimo ribadirlo – quella cui siamo di fronte è una gravissima crisi di carattere culturale. Culturale nel senso sostanziale della parola cultura, che io ho imparato congiuntamente da don Luigi Giussani e da Giovanni Paolo II: quella impostazione sostanziale della vita umana come senso, come significato, come bellezza, come giustizia, come bene. Questa cultura primaria – così la chiamava Giovanni Paolo II nell’indimenticabile allocuzione all’Unesco del 1° luglio 1980 - questa cultura di base è sostanzialmente sparita dal nostro paese.

Ed è anche l’occasione per dire che chi ha spazzato via la cultura del nostro popolo è questa specie di ideologia, blanda come formulazioni ma durissima come realizzazioni, che possiamo ascrivere a quel fermentare di posizioni massoniche, razionaliste, consumiste, comuniste (o meglio, materialiste) che sono ferreamente dominate dal massmediatico. I mass media – recuperando una bellissima immagine di Benedetto XVI in Germania – hanno fatto piovere sulla nostra fede e sul nostro popolo la pioggia acida di questa ideologia del massmediaticamente corretto.

E’ un vuoto, è un vuoto che si ammanta di perbenismo, di rispettabilità, di sviscerata devozione alle istituzioni sociali da cui deriverebbero tutti i diritti. In pratica siamo tornati all’assolutismo di stato, all’assolutismo della società, i diritti non sono recepiti dall’uomo nell’ambito della sua coscienza nel confronto aperto con il mistero, con Dio. No, i diritti sono quelli che la società riconosce, promuove. Ecco quindi servito Benedetto XVI con i suoi valori non negoziabili. L’abolizione dei cosiddetti valori non negoziabili, così come formulati dal Papa, sarà di fatto il fil rouge dei programmi di tutte le formazioni socio-politiche, soprattutto quelle che si collocano o si collocheranno a sinistra. E non ci si illuda di perseguire così il bene comune. Il bene comune - che è una realtà ampia e variegata che si attua in certe precise condizioni di carattere sociale - è l’espressione di un cuore più profondo. E Il cuore più profondo sono i valori non negoziabili.

C’è dunque un disagio, che è un disagio fortissimo, perché mancando la cultura mancano gli uomini, mancano le personalità capaci di assumersi le proprie responsabilità, capaci di dare giudizi, capaci di porre azioni conseguenti.

La politica è una miseria, ma quale altro campo della nostra vita culturale e sociale non mostra questa miseria? Questa assenza di personalità significative, questo morire ogni giorno nella polemica politica o culturale nella banalità della cosiddetta vita privata che diventa, per gli uni e per gli altri senza molta differenza, una questione di Stato.

Allora io credo che la Chiesa debba rifuggire la tentazione di intervenire velocemente per cercare di risolvere velocemente le cose. Questi non sono problemi che si risolvono velocemente, queste crisi hanno bisogno di un lungo processo educativo . E il processo educativo non si fa con le autostrade, il processo educativo si fa camminando per sentieri, salendo greppi – come dicono nei posti dove sono vescovo -, faticando giorno dopo giorno perché la cultura di base che la Chiesa propone diventi forma della personalità, riferimenti valoriali ultimi, obiettivi personali, familiari, sociali. L’educazione non si improvvisa e soprattutto non è frutto di qualche slogan ben detto o di qualche pubblicazione di grande o di piccolo respiro. Dobbiamo tornare a educare il nostro popolo a partire dalla fede in modo che il fenomeno della evangelizzazione diventi educazione, l’educazione diventi formazione di personalità.

Certo, la società è in crisi nel suo aspetto politico, ma la società non è forse in crisi nel suo aspetto familiare? La crisi sociale è un aspetto di questa impressionante crisi familiare per cui le famiglie, distrutte nella maggior parte della loro realtà, sono incapaci di dare ai giovani e ai più giovani degli orientamenti sicuri per vivere, e quindi quelle ragioni per vivere senza la formulazione delle quali non esiste possibilità di educazione.

Il compito è formare un popolo di laici che si assumano poi la responsabilità dei giudizi e delle azioni conseguenti; si deve fuggire la tentazione di creare un popolo o un pseudo popolo di credenti che poi accetti di essere telecomandato dall’ecclesiasticità nei punti di maggiore responsabilità. Non dobbiamo in nessun modo sostituirci ai laici nell’impresa totalmente loro di portare dentro una società come la nostra il loro contributo originale di intelligenza, di passione, di educazione, di capacità costruttiva.

Io credo che sia una grande sfida. Non possiamo disperderci su altre sfide pretendendo che noi siamo sfidati nel campo delle indicazioni alla soluzione dei problemi concreti sociali e politici, o che siamo sfidati nella individuazione di strategie a breve o lungo termine per la soluzione dei problemi socio-politici. Noi siamo sfidati sull’essenza della nostra identità, della nostra missione. Giovanni XXIII ha detto che se la Chiesa non è maestra non è neanche madre, se è madre non può che essere maestra. E’ una strada, lunga ma affascinante, lungo la quale è possibile incontrare persone vicine o lontane, ma che sono disponibili alla conversione dell’intelligenza e del cuore.

Sembra un discorso astratto? Credo ci sia una parte dell’ecclesiasticità che sbufferà sentendo queste cose come se queste cose fossero astratte. Ma questa è l’astrazione che cambia la storia. La concretezza di tanti, anche cattolici, finisce per morire nella storia.


* Vescovo di San Marino-Montefeltro

La fabbrica dell'infinito




Premiato Sotoo, erede di Gaudì nella Sagrada Familia di Barcellona













Chi guarda le cattedrali costruite mille anni fa nelle città d’Europa può farsi una domanda: ma chi erano, e come ragionavano, gli scultori e gli architetti, e i capomastri, che ci hanno lasciato una tale bellezza? La perfezione delle statue, anche di quelle in cima a guglie dove non le vedrà nessuno; l’imponenza di opere interminabili, che passavano come un testimone da una generazione all’altra; il grandioso lavoro corale, come di un’orchestra in cui anche l’ultimo violino conta, tutto questo, se guardi attentamente, meraviglia. Ma c’è almeno un posto oggi, in Europa, dove si respira qualcosa di quello spirito antico. È il cantiere, a Barcellona, della Sagrada Familia, consacrata da Benedetto XVI lo scorso novembre. Si dice che, al suo ingresso, il Papa abbia reclinato il capo all’indietro, sfidando l’equilibrio della mitria, per l’incanto di quel bosco di colonne e luci e ombre immaginato da Gaudí e ora finalmente in via di compimento.

Per questo il Premio Internazionale Cultura Cattolica, che viene dato questa sera a Bassano del Grappa a Etsuro Sotoo, sembra emblematico: lo scultore giapponese che prosegue l’opera di Gaudí rappresenta anche quel grande cantiere, i suoi architetti e i suoi 200 operai: con le sei gru altissime che dall’alba a sera ruotano sopra Barcellona, con i manovali e i tecnici imbragati come in parete, nella vertigine delle torri che salgono - arriveranno, un giorno, a 171 metri.

Ma oltre al fervore di una grande "fabbrica" si avverte qui, nel laboratorio di Sotoo come nell’andirivieni dei passi degli operai fra la polvere, qualcosa d’altro. È la cura scrupolosa per ogni particolare, anche per ciò che, sospeso a cento metri sul vuoto, non sarà mai visto da nessuno. Nell’atelier dello scultore i modellini di gesso, perfetti, di insetti e coleotteri e foglie, stanno in attesa di incarnarsi nella pietra. Chi li vedrà, lassù? Le delicate nervature delle foglie ti commuovono: sembra che qui lavorino non solo per una funzionalità o per un esito, ma per compiere una bellezza; e quindi la facciano il più possibile perfetta – a sostenere lo sguardo del cielo.

E poi si percepisce, nel frastuono dei martelli, nel clangore degli argani oscillanti sopra ai massi di pietra, che anche questa è un’opera corale; cresce dalle mani di tutti, e di nessuna potrebbe fare a meno. Si sa che ci vorranno ancora diversi anni per completare l’opera, ma forse, come per il Duomo di Milano, non si finirà mai davvero, giacché quella selva di guglie e statue, esposte alle intemperie, come cosa viva si deteriora, e va di nuovo sanata. Comunque i più vecchi degli operai non vedranno finita la Sagrada; ci avranno solo lasciato sopra, umilmente, una impronta. (Nei giorni di festa capita di vederne, accompagnati da figli o nipoti, che indicano un punto sotto le volte, e dicono: vedi, quello lassù l’ho fatto io, con le mie mani. Non accadeva forse lo stesso, nelle nostre antiche cattedrali?)

Gaudí se n’era accorto: questo tempio, diceva, edifica chi lo edifica. È questo il segreto che ci affascina, davanti a Chartres o alla cattedrale di Strasburgo? Come se la collettiva fatica per dar forma alla pietra e a una bellezza che sfidi il tempo, sapesse costruire anche gli uomini a quell’opera intenti. Lo ha intuito il giapponese Sotoo, che qui è arrivato poco più che ventenne e non cristiano, e dopo anni nel cantiere ha chiesto il battesimo («Ho capito – dice – che dovevo guardare dove guardava Gaudí»). Lo intuiscono gli operai che restano qui a lavorare per tutta la vita.

Si lavora, alla Sagrada Familia, come dentro uno sguardo che va più lontano. Sorprendente: nel 2011 ritrovi qualcosa dello spirito delle grandi cattedrali. Respiro non effimero, che non si esaurisce nell’oggi. Ma opera: alza sui pinnacoli delle guglie rigogliosi frutti di pietra, come offerti al cielo. Sotto, Barcellona è vivace, frenetica, forse distratta. Ma le sei gru, alacri, continuano ad issare pietre che restano. Che aspetteranno gli occhi dei figli dei figli.

Marina Corradi

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 12 ottobre 2011

Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo X, Rizzoli, Milano 2010, pp. 139-150. «Vivere
sempre intensamente il reale», Tracce-Litterae Communionis, n. 9 (2011), Società Coop. Ed. Nuovo
Mondo, Milano 2011, pp. I-XVI.
• Le stoppie aride
• Il mio volto
Gloria
«Nell’essere tu fammi camminare». Domandiamo che questo sia il cammino di quest’anno.
La Giornata d’inizio anno, come abbiamo visto, è una proposta alla ragione e alla libertà di ciascuno di noi per rispondere alle urgenze del vivere. Ma questa proposta si capisce soltanto nell’esperienza, perché noi dobbiamo essere fermi su quella decisiva indicazione che ci ha sempre dato don Giussani: la realtà si fa trasparente nell’esperienza. Perciò la verità della proposta non si raggiunge nei pensieri e nelle intenzioni: si raggiunge verificandola nell’esperienza. Per questo ciascuno è
chiamato, sfidato a verificare la proposta nel reale, nella vita, in modo tale che possa apparire davanti ai nostri occhi la sua verità; altrimenti saranno parole, e penseremo di avere capito. Ma non si capisce che cos’è l’amore leggendo libri sull’amore, anzitutto; si capisce se si fa esperienza! Per questo il lavoro che facciamo qui non può sostituire questa esperienza. Il nostro radunarci è un
accompagnarci insieme alla verifica di un’esperienza presente, confermata dall’esperienza stessa.
Qui stiamo insieme per testimoniarci il lavoro che abbiamo fatto, in modo tale da aiutarci gli uni gli altri, perché il lavoro che fa uno è un bene per tutti, la scoperta che fa uno è un bene per tutti, la grazia data a uno è un bene per tutti; e per raccontarci fatti che ci aiutano a capire la verità della proposta. Questo rapporto tra il lavoro personale e la verifica comune è decisivo affinché ciascuno
di noi possa essere aiutato, sostenuto, accompagnato nell’esperienza che stiamo facendo.


Io inizio da zero, cioè da quando tu ci hai richiamato alla Giornata d’inizio anno quella frase del don Gius secondo cui noi non trattiamo le cose presenti come presenti, dalla foglia in avanti. Ed è proprio vero questo, ed è vero anche che quando invece faccio un lavoro e davanti alle cose vado fino in fondo e arrivo fino a riconoscere Lui, quando arrivo lì cambia tutto, perché è vero che si
muove anche l’affettività e riaccade quell’unità. Ma questo accade una volta al millennio, invece tutto, tutto, tutto richiede da me un lavoro così, che non faccio mai, se non perché sono obbligato dalla realtà. Mi sono spaventato perché ho detto: ma io dove vivo? Se tratto tutte le cose “normalmente” e non arrivo mai alla verità di queste cose, a vedere Lui, in che realtà vivo io tutto il giorno? Dopo la Giornata d’inizio anno la cosa evidente è che è spaventosa questa distrazione, tanto che non mi accorgo neanche della grandezza del problema che don Giussani mi ha riposto.

Questo che dici è un lavoro che di solito non facciamo mai, e questo ci mostra fino a che punto noi siamo abituati, come dicevamo alla Giornata d’inizio anno citando don Giussani, a un uso debole della ragione. E come conseguenza di questo uso debole della ragione, vediamo che permane la frattura tra il riconoscimento e l’affettività. È importante che noi seguiamo davvero don Giussani,
perché noi facilmente pensiamo che ci sono altre questioni più decisive; e invece lui insiste che la vera questione è questa! Siamo disponibili a seguirlo o no? Perché di solito non lo facciamo mai: quante volte in vita nostra abbiamo letto Il senso religioso o il capitolo decimo, e quante volte l’abbiamo seguito in questo? Perciò è importante fin dall’inizio che non diciamo: «Ma questo io lo
so già...». La prima consapevolezza che dobbiamo avere è che questo non lo sappiamo affatto. E non lo sappiamo non perché non capiamo le parole: non lo sappiamo perché non l’abbiamo mai
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rischiato nella vita come ci dice lui! Infatti in tanti mi dite e scrivete: «Ma questo lavoro io non lo faccio mai». Sembra niente riconoscere questo, ma è il primo passo decisivo. Perché la conseguenza – come diceva chi è appena intervenuto – è: «Io non vivo nel reale». Vivere senza seguire il cammino proposto da don Giussani non è vivere il reale, perché così non raggiungo mai il reale per quel che davvero è. Allora possiamo agitarci per tante cose, ma quello che domina è la distrazione,
e la cosa più grave è che non ce ne rendiamo conto. E pensiamo sempre che ci sia qualcosa di più interessante da fare, di più decisivo da fare; poi possiamo anche riempirci la bocca di «Giussani, Giussani, Giussani», ma Giussani non lo seguiamo neanche morti perché su questo punto ce ne freghiamo di lui! Come mi scrive un amico: «Mi accorgo che quello che hai detto alla Giornata d’inizio anno è decisivo per la mia vita e ho bisogno che tu possa correggermi in questo lavoro.
Essere presenti al presente, poter vibrare con tutto me stesso di fronte alle cose presenti è quello che io più desidero, è quello di cui ho più bisogno, perché mi rendo conto che per me diventa insopportabile vivere con i pazienti, con la mia famiglia, con la mia morosa, con gli amici,aspettando la mia soddisfazione l’attimo dopo quello presente, cioè è insopportabile vivere come se il presente non ci fosse, come se quello che ho davanti agli occhi non potesse interessare la mia vita
[per questo desideriamo sempre che finisca l’attimo presente e che arrivi quello dopo, e così via: è insopportabile!]. E mi accorgo però che lo stupore di fronte all’essere e alle cose di cui parli, e a cui hai detto che dobbiamo riessere educati, io lo riduco nel 99% delle volte a uno stupore sentimentale, a una reazione che come tale non dipende da me e fluttua secondo la mia sensibilità e il mio stato d’animo. Mi rendo anche conto che questa attenzione all’essere, alla realtà, non può essere il frutto di un mio pensiero o di una mia intenzione buona e giusta; meglio, lo può essere, ma non dura perché del mio sforzo mi stufo subito, perché invece che rendere la vita più intensa la rende pesante.
È immediato, è facile riconoscere la differenza tra uno che è stupito e uno che pensa che dovrebbe stupirsi». Allora, il primo segnale della decisività del percorso che ci fa fare don Giussani è che se non lo faccio, la vita risulta insopportabile.


Nonostante l’abbia letto tante volte, non sono sicura di avere afferrato esattamente l’esperienza che ci vuole indicare don Giussani. Vorrei capire meglio quando il riconoscimento di questa presenza inesorabile è un vero atto della ragione e quando è solo un contraccolpo sentimentale.

E questa è la seconda questione importante di quel che stiamo dicendo. La differenza fondamentale è che un contraccolpo sentimentale ci lascia fluttuanti, cioè rimaniamo nel nostro stato d’animo sballottato, come se veramente non ci fosse qualcosa a cui attaccarci. Per questo mi piace l’esempio del sasso travolto dal torrente. Uno che è travolto dal torrente in che cosa vede se è soltanto un momento sentimentale o se afferra veramente qualche pezzo del reale? Che smette di fluttuare, che
ha qualcosa a cui aderire. Senza questo, io continuo a vivere dipendendo dallo stato d’animo; può cambiare in un momento, e nell’istante successivo è di nuovo in balìa della fluttuazione. Io mi rendo conto che c’è veramente un uso adeguato della ragione per il cambiamento che introduce in me. E questo lo vedo quando tutto il mio io è preso da quello che ho davanti. Per questo non trovo altra formula migliore di quella che usa don Giussani: tutto il problema della ragione e dell’intelligenza è contenuto nell’episodio di Giovanni e Andrea, perché tutti e due sono stati presi,
così presi che da allora, anche sbagliando migliaia di volte, sono sempre rimasti Suoi. Questo «Suoi» non può rimanere se non perché essi, in mezzo a tutte le cose, hanno afferrato qualcosa per sempre.


Mentre facevi la lezione ad Assago, mi ha colpito moltissimo una cosa di cui non mi ero mai accorta: la nostra storia usa la parola «presenza» per definire sia la natura ultima della realtà, sia l’avvenimento di Cristo ora, sia il nostro compito. Noi usiamo la stessa parola per dire tre cose che nel vocabolario del mondo si dicono con tre espressioni diverse (Cristo, la realtà, l’io). Mi ha fatto
molto colpo perché è come il suggerimento che io ho bisogno della Sua presenza per accorgermi che la realtà è una presenza, e questo mi rende presenza.
Ripeti questo. Ripetilo come l’hai detto che è una formula chiara.
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Che io ho bisogno della presenza di Cristo per accorgermi che la realtà è una presenza, ed è questo che mi rende presenza. Sennò il mio compito, per esempio nel mio lavoro, è sempre politico o ideologico. Il lunedì dopo la Giornata d’inizio anno sono entrata in una classe che mi preoccupa molto quest’anno, ho fatto una lezione bellissima e quando sono uscita mi sono domandata: perché è stata così bella? Che cosa è successo di così interessante?
È successo che io non ero dominata dalla mia lezione, ma dall’accorgermi di quello che accadeva nei ragazzi, e perciò mi sono messa veramente in dialogo con l’altro. È quando ti accorgi dell’altro come presenza che sei una presenza, se no non lo sei mai; puoi essere un capopopolo, puoi indottrinarli, ma non una presenza così.
E quel giorno che cosa ti ha fatto riconoscere come presenza quelli lì?
Quello che era successo il sabato prima.

Mi sembra molto interessante questo uso della parola «presenza» secondo le tre accezioni. La natura della realtà: le cose presenti come presenza. La natura del cristianesimo: una Presenza eccezionale. E la natura del compito: diventare una presenza per gli altri, nella realtà, nel mondo, nella storia. Invece questo essere presenza tante volte è come senza nessi, si percepisce in un certo modo dualisticamente, come mi scrive una persona: «Mentre parlavi ad Assago più volte mi sono entusiasmata e commossa fino alle lacrime, non a causa di una inclinazione sentimentale, che non ho, né perché stavo soltanto ascoltando una dottrina nuova, ma perché quel che sentivo era vero. In quel che hai detto e nelle parole del don Gius che ci hai ripetuto mi sono sentita guardata ancora come la prima volta, in un modo che senza dimenticare nulla né operare facili sconti mi ha ridetto,
abbracciandomi, chi sono e di cosa è fatto il reale. Mi hai ripetuto che il mio desiderio di essere non è un’utopia, ma ciò che, rendendo interessante la strada percorsa fino qui, ha cominciato davvero a diventare carne. E poi la cura con cui è stato preparato ogni particolare del gesto. Non era un’altra cosa che si aggiungeva alle tue parole, bensì un frammento effimero ma sacramentale di quella Presenza. Mi sono sentita spuntare dentro un po’ di quella baldanza ingenua che mi ha consentito di ridire proprio come mie le parole del salmo responsoriale della domenica: “Con Te mi getterò nella mischia, scavalcherò le mura”, e che mi sta facendo affrontare il lavoro e le varie incombenze quotidiane come l’alveo della grande domanda che tutto sia vero e quindi salvato. A fronte di questo mi ha un po’ sorpreso la posizione di alcuni amici a cui raccontavo di queste cose, che mi hanno detto: “Sì, è vero, ma poi ci dimentichiamo”, oppure: “Sì, ma poi guarda la vita, io vorrei capire qual è il lavoro da fare”, o ancora: “Sì, sì, ma poi, come ci giochiamo nell’ambiente?” [tutto staccato!]. Altre volte è stata una posizione anche mia, ma ora mi accorgo che quei “ma” e “però” distruggono ed esemplificano quel non vibrare di cui parlava il don Gius, che non consente di fermarsi neppure un momento di fronte a quel che hai detto, guardandolo e guardandosi con un istante di simpatia totale [non c’è neanche un momento di quella “passività” di cui abbiamo parlato]. Sembra che il lavoro di scoprire il reale come presenza, in fondo, sia ancora una premessa,
che prima o poi ci svelerai il mistero per essere presenti nell’ambiente [è impressionante: siccome questo ci sembra astratto, poi dobbiamo aggiungere qualcosa che ci renda presenti nell’ambiente!], per aiutarci fra noi, per essere contenti di quel che viviamo». È il dualismo, fatto e finito! Infatti, che cosa ci rende veramente una presenza? Che cosa ci fa riconoscere le cose presenti come
presenza? Fate questo test (io l’ho fatto su di me): alla fine dell’estate che cosa avete raccontato agli amici quando li avete visti di nuovo? Che cosa è stata presenza per voi durante l’estate, tanto che avete sentito il bisogno di raccontarla agli altri? Quegli aspetti, quei fatti in cui c’era qualcosa che vi aveva stupito. E perché vi aveva stupito? Perché lì c’era qualche eccedenza (che non si poteva
ridurre alle solite cose), per cui siamo stati facilitati da questa imponenza a riconoscere le cose presenti come presenti. Questo è quello che abbiamo raccontato. Le cose sono diventate così presenti per noi perché erano piene del Mistero che ci stupiva. La realtà è interessante, la realtà ci ha
interessato questa estate per quella possibilità di cogliere il Mistero presente in quelle cose. E sappiamo bene che cosa diventa la vita quando succedono queste cose. Attraverso queste cose noi siamo educati a riconoscere sempre di più ogni cosa presente, dalla foglia in poi, perché la presenza eccezionale di Cristo in questi fatti, in quello che succede, li rende così presenti a noi da farci venire
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fuori dalla distrazione in cui cadiamo costantemente. E questa è la modalità con cui il Mistero ci educa a riconoscere, poi, tutto come presenza, tutto some segno. E solo quando incominciano a vivere il reale così diventiamo una presenza. Il nostro diventare presenza non è un’aggiunta al modo di rapportarci al reale: è proprio il modo di rapportarci al reale! Lì noi facciamo la verifica se la nostra è diventata una presenza, perché questo è quello che fa la differenza; altrimenti nel reale
viviamo stufi come tutti, soffocando come tutti, e poi facciamo qualche gesto per dire che siamo presenti (che è un modo ridicolo di concepire la presenza). Per questo, poi, tante volte anche il grande gesto che facciamo – e quando occorre farlo si fa – non ha l’autorevolezza necessaria; perché non vedendoci presenti nel reale, nel quotidiano, che interesse ha il grande gesto?
L’autorevolezza, la possibilità di ascolto del gesto grande, del gesto che proponiamo a tutti, c’è se si è suscitata una curiosità rispetto a come viviamo il quotidiano, cioè se siamo diventati una presenza.
Se noi non superiamo questo dualismo le tre accezioni di «presenza» non coincidono più, e il cristianesimo diventa un’astrazione e allora dobbiamo «fare qualcosa» perché diventi concreto. Ma don Giussani ci ha detto che il cristianesimo è la modalità sovversiva e sorprendente di vivere le solite cose! Noi diventiamo una presenza vivendo le solite cose con una diversità che è il fattore costitutivo di una vera presenza. Una presenza non è più grande perché più numerosa o più
spettacolare. Ci sono tante cose enormi, spettacolari, che non sono significative, che non sono presenza; perché la vera presenza non è nella sua spettacolarità o nel numero delle persone coinvolte, ma è nella sua diversità! E questa diversità nasce soltanto da questo modo di imparare il rapporto vero con il reale. Senza di questo non c’è niente da fare.


Volevo raccontare un episodio che mi è successo quest’estate. Parto per le mie vacanze al mare un po’ insofferente a tutto, soprattutto a me stessa. Con noi c’era una mamma dell’asilo di mio figlio, assolutamente sconosciuta, e io cercavo di evitarla perché se non sopportavo me stessa, figurati gli altri. Un giorno la incontro per caso, lei mi racconta che suo marito non è stato bene e io mi sono
sorpresa della mia libertà nel consigliarle le cose (proprio una libertà per cui mi dicevo: «Ma io non sono io»). E mi sono accorta che era Cristo che accadeva in me; da lì ho guardato tutto con una gratitudine incredibile: mio marito e i miei figli e il mare. La cosa che mi ha stupito è stato come guardavo la mia normalità dopo, cioè con il cuore commosso, e l’istante era pieno veramente della Sua presenza.

Grazie.

In Cattolica è arrivata la mostra del Meeting sui 150 anni dell’Unità d’Italia; venerdì noi guide vecchie la stavamo spiegando alle nuove guide; alla fine una delle nuove guide ci chiedeva:«Quindi tutta la tesi della mostra è che nelle varie epoche storiche un uomo mosso dal desiderio, difatto, ha creato quest’Italia?». E io gli dicevo: «Sì, però un desiderio che è concreto, un desiderio di fare soldi, un desiderio di incidere in un dibattito politico, un desiderio di educare, un desiderio
di sopravvivere». Però subito ci accorgevamo che non bastava… Un’amica delle guide del Meeting diceva: «Però attenti, perché la tesi di Giussani che mettiamo nell’ultimo pannello è ben precisa,dice che le forze che cambiano il mondo sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo, ma la forza che cambia il mondo è un uomo che ha posto la sua dimora tra di noi, Cristo». E ci siamo accorti di come questa coscienza abbia riaperto tutta l’avventura della mostra: non perché fosse
una frase appiccicata, ma perché richiedeva veramente di dettagliarla nel particolare. E lì – come tu dicevi – arrivi a un punto che vince la paura, e allora lo dici al mondo, e lo dici con una consapevolezza e una dignità di cui ti accorgi. Allora rileggere quella frase è un riconvertirmi a quello che sta accadendo, e tutto è nuovo, tutto è dato: e la prima cosa data a me è il mio cuore
riacceso da quel che sta accadendo. E tutto questo ti fa essere presenza.

E a te – qui non dobbiamo perdere una briciola – che cosa ha fatto fare questo percorso?

Il rispiegare la mostra alle nuove guide.
E?
E ci siamo accorti che la tesi di Giussani aveva un nome e un cognome.
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Ma tu perché sei arrivato fino lì? Per un ragazzo che ti ha fatto una domanda. Se tu avessi lasciato perdere – «Ma che m’importa di questa domanda? Io ho spiegato tutta l’estate la mostra, e adesso arriva uno con le sue obiezioni?» –, non avresti fatto l’esperienza di cui parli. Tu ti sei lasciato
provocare dall’ultimo arrivato, forse. Avere accettato questo dato del reale ti ha fatto fare tutto questo percorso: «Ma il desiderio basta?». E allora sei andato a rileggere l’ultimo pannello che dice che il desiderio non basta, che un Uomo ha posto la Sua tenda in mezzo a noi. L’hai spiegato per una settimana intera, ma non te ne eri reso pienamente conto. Vedete cosa significa che le cose presenti diventano presenti? Ogni circostanza può essere, come in questo caso, l’occasione preziosa
di ricapire tutto. E questa è una novità che, adesso, può fare diventare ancora più interessante spiegare la mostra, no? Altrimenti sarebbe una ripetizione di quello che avete già fatto. Invece se noi siamo disponibili a non lasciar perdere niente del dato che accade, dell’imprevisto che succede, di quella modalità con cui la realtà mi sfida, noi incominciamo a vivere un’avventura appassionante, sempre più appassionante, perché tutto diventa sempre più nuovo. Perché? Perché non abbiamo
lasciato perdere neanche una foglia presente. Immaginate che cosa potrebbe diventare la vita, così! Invece di lamentarci riconosceremmo le circostanze non come un ostacolo, bensì come una risorsa che ci fa ricapire fino in fondo tutto. Ci conviene o no? Ciascuno deve decidere.


Dopo la Giornata d’inizio anno mi sono accorta che da un po’ di tempo vivevo abituata persino a me stessa, e quindi io ero la reazione o il sentimento di me stessa del momento. Per esempio, studiando – adesso sto facendo la tesi –, quello che mi capitava era che se riuscivo a scrivere più di cinque righe, allora ero contenta; e se invece non riuscivo a scrivere niente, allora tutto mi schiacciava. Oppure nei rapporti: se riuscivo a trattare in un certo modo i miei amici, allora ero a
posto ed ero contenta; se no, mi scandalizzavo subito di me e quindi diventavo la somma di tutti i vari stati d’animo. Accompagnata a questo, spuntava sempre quella nostalgia profonda che non mi lasciava e non mi lascia mai tranquilla, e quindi, quando ero tutta inquieta, diventavo la mia inquietudine. Invece questa settimana mi sono accorta di una cosa impressionante, che mi ha fatto
respirare ed essere lieta in tutto quello che vivevo. Ho iniziato a prendere sul serio il lavoro che ci hai proposto, cioè a usare la ragione in modo vero, e quindi non fermandomi alla pura reazione che avevo di me davanti alle cose, ma andando fino in fondo al mio volto, a chi sono. Mi sono iniziata a stupire innanzitutto del fatto che quando mi sveglio non mi do a me stessa, come non mi do da sola il desiderio di essere felice, non decido io di riavere quella nostalgia, e già questo mi ridice che io sono rapporto costante con Chi mi fa. Nemmeno il desiderio e l’irrequietudine me li do io, sono donati. E mi ritrovo così a dire, insieme al Papa: «Egli è più intimo a me di me stesso». Ho iniziato a guardare me stessa non come la somma di tutto quello che provavo, ma come la presenza del mio desiderio presente. Il mio nome è legato a un Tu che mi preferisce costantemente, sia che sia “sversa” sia che riesca nelle cose. E, come hai detto tu, la vita inizia ad avere un punto di appoggio saldo, non sentimentale o fluttuante, non dipendente dagli stati d’animo, ma certo, per quel legame della ragione con la realtà fino alla sua origine. Inizio a stupirmi di me stessa e a non essere in balìa dei miei stati d’animo, delle mie riuscite o dei miei fallimenti; addirittura inizio a guardare con simpatia anche la mia tristezza, al di là della circostanza favorevole o sfavorevole. E
questo dà ragione anche di quello che è successo ieri in università, dove abbiamo fatto un banchetto per raccogliere dei fondi per l’Avsi; ed è stato impressionante, perché davanti a tutte le persone che incontravo con i miei amici ero libera anche dal risultato, perché sapevo chi ero, e guardandoli li potevo rendere partecipi della stessa preferenza che fa essere me.

Grazie. Questo è un esempio rispetto alla domanda che è stata fatta prima: come possiamo riconoscere quando il nostro è un uso non ridotto della ragione e quando c’è soltanto un contraccolpo sentimentale? Perché noi vediamo benissimo che cosa vuol dire attraversare la fluttuazione degli stati d’animo per arrivare a quel fondamento più «intimo» di tutte le fluttuazioni.
E per rendermi conto che io sono più di tutti i miei stati sentimentali non basta il sentimento, occorre un uso vero della ragione. È come uno che è nella palude: per trovare un fondamento sicuro deve scavare fino a toccare la roccia. O quando uno va sull’aereo e ci sono le turbolenze: tenere la
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rotta è l’unica possibilità per attraversare le turbolenze. Noi non possiamo non vivere nelle turbolenze, per tutti gli stati d’animo che ci assalgono in continuazione, ogni cosa ci provoca qualche turbolenza. La questione è se noi rimaniamo nelle turbolenze o nella palude, o se attraversiamo le turbolenze e la palude. Questo attraversamento è l’uso allargato della ragione. E io
me ne rendo conto perché raggiungo qualcosa che è oltre le fluttuazioni dello stato d’animo. E in che cosa si vede? Che io acquisto una consapevolezza di me come rapporto col Tu, e questo mi porta una pienezza che mi rende libero dall’esito delle cose. Che consapevolezza! Mi viene in mente spesso questa affermazione di Gesù quando i discepoli ritornano “carichi” dalla missione in cui li aveva mandati: «Ma non vi rendete conto che questo non vi basta, anche se avete fatto miracoli e avete scacciato i demòni? Non rallegratevi soltanto di questo, non rimanete dipendenti da questo; rallegratevi piuttosto del fatto che i vostri nomi sono scritti nel Cielo, cioè del fatto di essere stati scelti». È come se Gesù li conducesse a una profondità nel rapporto con la realtà di se stessi che loro non avrebbero potuto raggiungere neanche con tutto il loro successo pastorale o missionario. Senza questa profondità noi dipendiamo da tutto, perché non troviamo e non
raggiungiamo un punto che rimane in qualsiasi fluttuazione; e questo ci rende incerti, in balìa di qualsiasi cosa. Cosa mi conferma che c’è qualcosa di più profondo di tutti gli stati d’animo? Che io in qualsiasi momento posso dire che questa nostalgia profonda, questo desiderio che mi trovo addosso, questa voragine di pienezza che mi costituisce, tutto questo non me lo posso dare, non lo do a me stesso. Nella mentalità positivistica in cui siamo immersi, quanto più uno si sente addosso questo struggimento tanto più lo ritiene il segno più palese che non c’è risposta. Ma guarda in faccia le cose: questa nostalgia, questo desiderio, questo struggimento, te li dai da te stesso? È esattamente il contrario: nel riconoscimento di questo desiderio è il segno più palese della Sua presenza, perché ci deve essere un Altro che te lo ridesta così potentemente. Allora ciò che per noi costituisce
l’obiezione fondamentale, è invece la conferma più decisiva. È alla rovescia, noi non capiamo niente! Perché? Perché per noi queste cose presenti non sono presenza, diamo per scontato che ci siano. Non è scontato, non è scontato!!! La cima di questo desiderio sconfinato testimonia la Sua presenza. E questo ci rende presenti nel mondo, nel reale, nel lavoro, con i colleghi, con la moglie, con i figli; diventiamo una presenza diversa. «Ma tu perché sei così?», è la domanda che si scatena,
non perché fai un gesto di non so quali dimensioni, ma per il tuo essere una presenza. E questo è incidente sulla storia, sì o no? Può muovere qualcosa nell’intimo di chi ci sta intorno, sì o no? Perché questa è la sfida più grande per un essere umano: vedere che quello che desidera è presente,è raggiungibile. E questo è ciò che destò in Giovanni e Andrea tutto il desiderio di seguirLo. Non si
comunica il cristianesimo in altro modo. Soltanto se noi accettiamo di fare questa strada, possiamo prima di tutto vedere in noi che cosa succede e per questo riempirci di una gratitudine e di una tenerezza verso noi stessi, di una commozione per questa preferenza di Cristo che ci consente di vivere così, fino al punto che possiamo testimoniarlo attraverso il nostro volto diverso. Questo che
ci rende veramente presenti nel reale, con questa diversità. Mi sembra che questa strada ci convenga; ma, come vediamo, essa si rivela soltanto a chi accetta la verifica della proposta del carisma.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 26 ottobre alle ore 21.30. Riprenderemo ancora il X capitolo de Il senso religioso e il testo della Giornata d’inizio anno su cui abbiamo incominciato a lavorare.
Ricordo che è attivo un indirizzo mail a cui potete inviare domande e brevi interventi sulla parte della Scuola di comunità a tema. Vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità. L’indirizzo mail è: sdccarron@comunioneliberazione.org Vista la portata degli interventi di Benedetto XVI in Germania, abbiamo stampato un quartino con stralci dai suoi discorsi, perché sono la testimonianza del Papa come presenza. Egli ci mostra che cosa vuole dire essere presenti, perché uno può arrivare al Parlamento tedesco e passare inosservato,
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e uno può arrivare al Parlamento tedesco e stupire tutti. E perché li ha stupiti, soltanto perché era il Papa? O per quello che ha detto? Cioè per quella diversità, per quel modo di usare la ragione tutto diverso, di non ridurre la realtà a positivismo, fino al punto di vedere una cosa che era davanti a tutti
e che non vedevamo, cioè il fenomeno dell’ecologia, per dire qualcosa su come tante volte noi riduciamo la realtà a qualcosa che non è vera: il Papa ha colto questa occasione, il movimento ecologista, per dire: vedete come c’è un modo di guardare il reale, se noi lo riduciamo, nel quale c’è qualcosa di sbagliato e adesso tutti lo riconosciamo? Per questo dice, con una frase che dobbiamo imparare a memoria, come scolpita: «La ragione e la natura nella loro correlazione».
Impressionante! Ragione e natura nella loro correlazione. Perché è soltanto quando la ragione sta davanti alla natura nella correlazione di tutte e due che possiamo non ridurre la ragione e non ridurre la natura. Questa è la grande battaglia che il Papa sta combattendo. Vi è familiare? Stiamo nella sua scia? È questa la stessa identica cosa che Giussani ha fatto dall’inizio, dalla prima ora di religione, capite? Stiamo sul pezzo o no? Quando il Papa dice: «La ragione aperta al linguaggio dell’essere», all’essere, stiamo cercando di capire questo o no? Perché non è che noi abbiamo un qualche pallino per la ragione o per la realtà (altrimenti sarebbe più interessante fare altre cose), ma stiamo su quello che il Papa vede come l’urgenza più grande, perché è l’unico a portare avanti questa battaglia per allargare la ragione, perché senza questo allargamento Cristo sarà sempre qualcosa di appiccicato, un’aggiunta a un uso della ragione ridotto o a una realtà già perfettamente costituita. Per questo mi sembra che ci convenga leggere il Papa, per capire anche la portata del cammino che stiamo facendo. Perché alcuni non arrivano a collegare le due cose.
In particolare segnalo il discorso ai Protestanti e quello ai politici al Parlamento tedesco. Tutti e due per motivi diversi. Uno al Parlamento tedesco per quello che ho spiegato, l’altro (ai protestanti) per la modalità con cui ha guardato, con cui è stato davanti ai protestanti, perché alcuni avrebbero potuto pensare: «Va dai protestanti, dovrebbe rinfacciare loro tutti gli errori che hanno fatto, da
Lutero in poi». Leggete che cosa dice, e come questo è una svolta nel modo di concepire l’ecumenismo. Possiamo imparare qualcosa su come il Papa è presente nel reale, anche davanti a chi non è in totale sintonia con lui? Affermando quello che abbiamo in comune e non soltanto le diversità. Possiamo dire di essere più presenti perché siamo accaniti nel dire quello che manca? Mi sembra che qualche cosa dobbiamo imparare ancora. Diffondiamo a tutti, allora, questo quartino, per offrire un giudizio e una speranza che aiuti a stare di fronte alla realtà drammatica che stiamo vivendo, perché è l’urgenza più decisiva.
Libro del mese per ottobre/novembre: Fine di una storia (conosciuto anche con il titolo: La fine dell’avventura) di Graham Greene, Mondadori. Ne Il senso religioso (nel capitolo «Educazione alla libertà») don Giussani cita un episodio di questo romanzo per aiutarci a comprendere che di fronte alla realtà è più umano partire con una ipotesi positiva. Dice infatti: «La cosa più terribile è porsi di fronte alla realtà con una ipotesi, non dico negativa, ma semplicemente sospensiva; non ci si muove più». Ma l’ipotesi positiva è una opzione, una scelta a cui dobbiamo educarci.
A fine mese, sarà disponibile anche in formato ebook Mondadori.
Veni Sancte Spiritus