venerdì 25 febbraio 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 febbraio 2011

Testo di riferimento: L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 3-15.
• Liberazione n. 2
• You
Incominciamo questo nostro percorso. Vorrei riprendere il testo “Buon cammino”, che avete visto tutti sul sito, il saluto che don Giussani aveva mandato anni fa, nel 1998, al Clu della Cattolica che incominciava il lavoro su Il senso religioso: ««Io non voglio costringere alla persuasione nessuno,
ma non voglio che si rinneghi quel che dico da nessuno che non abbia almeno letto le ragioni che io dico».
E poi ci dà osservazioni di metodo decisive per il nostro percorso, osservazioni che dobbiamo avere sempre presente lungo tutta la strada. «Non si capisce se non verificando le idee e i valori nella propria singolare esperienza». Cioè: non si capisce riflettendo, ma verificando idee e valori nella propria singolare esperienza; altrimenti parliamo per sentito dire, l’ideologia dilaga, e questo non ci farà capire, anche se ripetiamo cose giuste. «Questa esperienza può consistere anche
nello shock o nel particolare sentimento che si sorprende in se stessi, o nella storia di un popolo o del mondo. L’esperienza dice cose che dimostrano la sua verità [per questo senza esperienza la verità non si mostra, non si dimostra, perché la realtà si fa trasparente nell’esperienza, la verità si rende palese nell’esperienza]. Per me è l’esperienza [ancora: è la quarta volta che usa la parola esperienza] che insegna tutto il valore di idee e di cose permanendo nel tempo sia persuasivamente
sia dubitativamente». Perciò tutta la preoccupazione di don Giussani quando un gruppo del Clu incomincia a fare questo lavoro è sottolineare una cosa: l’esperienza. Perché? Perché è l’esperienza che dimostra la verità delle cose.
La realtà si fa trasparente nell’esperienza. Per questo è decisivo come metodo. Siccome questo è il punto centrale del primo capitolo, non possiamo non
ritornarci costantemente: «In questa occasione che mi avete data Vi auguro una sincerità [una volta che uno fa l’esperienza, la questione è questa sincerità,
cioè sottomettere la ragione all’esperienza, quel che uno pensava prima all’esperienza che ha fatto, altrimenti non impara niente], una franchezza in
tutto e un amore alla verità anche condiviso. La mia vita ha conosciuto la
letizia [questa è la promessa che ci interessa!] a queste condizioni».
La promessa è la letizia, la gioia della vita. Perciò, se insistiamo con le
nostre disquisizioni, oltre che perdere tempo perdiamo la letizia.
Ci eravamo dettiche il lavoro proposto era sintetizzato in due domande: quando
avete fatto esperienza e quando vi è capitato di sorprendere questa liberazione
in un giudizio (perché giudicare è l’inizio della liberazione)? Comincio
leggendo la testimonianza di uno che mi scrive raccontando l’esperienza
che faceva con don Giussani: «Io faccio parte di una generazione in cui
più che il legame tra giudizio e liberazione si viveva l’affanno del giudizio,
cioè una sorta di accanimento ad applicare la dottrina cattolica. Giudicare era spezzettare le idee che ci eravamo fatti del cristianesimo per buttarle sulla realtà, era proprio angosciante. E poi quanto nervosismo perché le cose non
tornavano[non è che noi non corriamo questo rischio]... Non era questo il giudizio come l’avevo imparato dal don Gius sui banchi della Cattolica, dove non c’era
nulla di forzato, era la realtà che si imponeva. Il don Gius mi commuoveva per
come seguiva le domande, le questioni che emergevano, le obiezioni,
e con una libertà impressionante era tutto teso a che le cose si mostrassero per quello che sono, per il legame che hanno con me. Io lì avevo incontrato un modo
di giudicare che aveva il suo fulcro sulla realtà. Il giudizio era l’impatto
con le cose che liberava il mio io. Poi l’ho tradito, questo metodo, l’ho tradito, e il giudizio era diventata la mia difesa dalla realtà. Una difesa accanita, nervosa, fredda. È stata la realtà stessa a rivelarsi il mio cappio,
anche dolorosamente. Una nuova strada in continuità con l’origine mi si è
aperta, e tu ora insisti su questo legame tra giudizio e liberazione: è una
sfida che mi interessa perché avverto che, mentre prima era in gioco il mio dover
essere in linea con un’idea, oggi sono in gioco io, la mia umanità, la mia
struggente mendicanza di Lui». Per questo partiamo con una domanda che mi è stata rivolta in una mail: «Mi interessa capire

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un po’ cosa vuol dire entrare nella realtà rischiando un giudizio e giudicare quello che succede a partire dall’ipotesi della fede, non per poter essere bravi o avere la frase giusta da dire di fronte alle cose [come diceva la mail di prima],
ma perché si possa crescere e non perdere niente, e il giudizio
sia la sorpresa e la possibilità di poterLo conoscere. Solo riconoscere Lui all’opera mi libera». Questo amico introduce una questione che adesso dovrebbe
essere più facile giudicare. Perché deve essere più facile giudicare, arrivare a questo giudizio e sperimentare la liberazione? Perché quanto più si è ridestato l’io, più facile è fare il paragone con quello che ho davanti. E se quello
che incontro è Lui, la presenza di Cristo, è ancora più facile perché, essendo
più eccezionale, è più facile riconoscerLo! Allora rileggendo questo capitolo dall’interno della fede, dovrebbe essere ancora più facile giudicare per tutti e
due i motivi. Ciascuno può vedere in che misura durante questi quindici giorni ha avuto l’impressione di questa facilitazione per il percorso fatto in questi
anni, perché tanto più si è ridestato l’io davanti alla Sua presenza imponente
quanto più dovrebbe essere facile, per la Sua eccezionalità unica. Per cominciare a rispondere leggo una mail dove uno racconta di questa esperienza: «Provo a rispondere alle domande che hai posto all’ultima Scuola di comunità raccontandoti un fatto e provando a dirti quello che ho imparato di nuovo. Qualche settimana fa mi trovavo in una situazione di disagio, quel disagio che si prova quando si scopre o
riscopre di essere poveracci. A me capita spesso di scoraggiarmi quando inciampo in un limite di me stesso che conosco e mi dico: “Ma sempre lì, non imparo mai”. A volte ho la presunzione di pensare che se non avessi quella debolezza in fondo sarebbe tutto più facile, la mia adesione sarebbe più pronta, e mi trovo anche a chiedere come san Paolo: “Levami questa spina dal fianco perché se non l’avessi sarei più tuo”. Niente di più parziale. Con questo disagio sono andato a confessarmi. Dopo avere detto al prete i miei peccati lui mi guarda e mi dice: “A ogni modo il
segno più grande che Cristo è presente è che tu continui a desiderare il bene; se
non ci fosse Lui diventeresti cinico, invece con Lui puoi rialzarti e desiderare continuamente quello che ancora non possiedi. Quello che fa diversi i cristiani dagli altri non è la maggiore capacità etica, ma la continua tensione al bene perché è possibile solo perché c’è Lui”. Questo giudizio mi ha liberato, non solo
perché mi ha sollevato psicologicamente dalla tristezza per la mia mancanza, ma perché mi ha costretto a considerare dei fattori della mia esperienza che io,
nella nebbia, non sapevo e non volevo vedere. In fondo mi ha costretto a essere
me stesso. Ma la cosa interessante è venuta dopo. Immerso nuovamente nella
battaglia quotidiana, mi sono ritrovato in una situazione simile a quella
descritta prima: cadi e infine ti trovi a dire: “Non cambierò mai”. Proprio in questa situazione tuttavia è riaffiorato alla memoria quel giudizio e quel modo
con cui ero stato guardato la settimana precedente. Lì mi sono trovato di
fronte a un bivio: o decidere di lasciarmi dominare dalla reazione
e dalla delusione della mia povertà o rimettermi di fronte a quello che mi era capitato e che avevo sentito in quel momento attraverso il segno di quel prete [questo è entrare nella realtà con l’ipotesi dell’esperienza che ha fatto]. Così è affiorata la domanda di sant’Anselmo che mi ripeto spesso e che da qualche tempo è diventata mia: “Fa’ Tu ciò che il mio cuore non può, Tu che mi fai chiedere
concedi”. L’attenzione dello sguardo si è spostata da me a un Altro e mi sono ritrovato, dentro la battaglia, dentro la delusione, dentro la tristezza, un filo
di letizia. Ora mi sembra di aver capito due cose. Primo: ciò che genera la liberazione nell’esperienza è l’accadere di un fatto esterno, oggettivo,
imprevedibile, imprevisto, che introduce un modo di guardare sé e la realtà vero, secondo la propria natura [che il contrario non sia secondo la natura lo dimostra il disagio o l’amaro che lascia, cioè che non mi libera]. Secondo: questo avvenimento di liberazione può intaccare sempre di più il centro del mio io, il modo di concepire e di trattare la realtà nella misura in cui avviene il passaggio
da una adesione per tradizione a una adesione per convinzione. Non basta dire: “Bello, vero”, di fronte a quello che succede. A me è capitato che il giudizio di quel prete sia diventato mio quando l’ho brandito nella circostanza in cui mi trovavo e ho provato a vedere se era in grado di rispondere al disagio che provavo. Qui ho sperimentato che giudicare è l’inizio della liberazione, di quell’ascesi di cui parla Giussani nella prima premessa». Questo è un esempio di come ciascuno
può entrare nella realtà, può avere questa esperienza di liberazione che avviene in contemporanea. Il giudizio, lo sguardo di Gesù a Zaccheo (o di questo prete al nostro amico), è un giudizio che

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introduce una liberazione, tanto è vero che Zaccheo lo ha ricevuto pieno di letizia. Non occorre fare non so che, è stato un giudizio che talmente corrispondeva alla sua esigenza che ha sperimentato la liberazione. E quanto più è eccezionale la presenza che mi guarda, tanto più facile è questo giudizio che mi libera. Non occorre fare particolari sforzi titanici: è semplicemente un riconoscimento, che è come la cima di questo giudizio che deve diventare quotidiano nel rapportarsi a tutto, perché allora tutto serve. Allora, quando abbiamo sorpreso in noi questa esperienza in un giudizio che ci libera? Avanti.



La scorsa volta, quando tu ci hai lasciato con questa provocazione, cioè quella di verificare quando abbiamo fatto esperienza di liberazione in un giudizio, immediatamente la memoria è andata a fatticoncreti in cui questo mi era accaduto; faccio un esempio su tutti. Nelle scorse settimane un’amica mi scrive un sms
dicendo di essere preoccupata per un amico comune, il quale aveva manifestato un grande sconforto derivante dal fatto di sentirsi solo. Questa persona è stata profondamente toccata da un dramma personale, e la necessità di far fronte alle
mille esigenze familiari, unite a un lavoro intenso, gli aveva tolto occasioni pratiche di frequentazione degli amici. Subito la preoccupazione della mia amica
ha coinvolto anche me, ma una serie di fattori pratici – la distanza fisica, la gestione dei figli di questo mio amico, unita alla sensazione di dovergli risollevare il morale – mi hanno trovato impotente e scoraggiato, privo di qualsiasi iniziativa, insomma ingabbiato.
Poi questo stesso amico, intervenendo a una Scuola di comunità,
ha raccontato di quando una sua amica gli ha fatto notare di come la sua figlia maggiore lo guardasse adorante e che, due giorni dopo, mentre lui l’aiutava a
fare i compiti, gli avesse detto: «Papà, ti voglio un sacco di bene». Io nel sentirlo raccontare mi sono commosso, come se quella bambina l’avesse detto
a me, ma era Gesù che lo ridiceva a me, e subito la memoria della tenerezza
di cui sono oggetto mi ha sciolto il cuore. Ecco, lì ho capito, o forse sarebbe meglio dire ho ricordato, che il mio amico, fermo restando il suo concreto
bisogno, era già preferito e amato, proprio come me, e che quindi l’unica possibilità per me di fargli realmente compagnia è in ragione di una sovrabbondanza di gratitudine per quella tenerezza ricevuta, sia da me che da lui.
E dentro questo nuovo giudizio che emergeva, improvvisamente mi sono sentito libero.

Grazie.

Ho letto sul libro che una delle cose più importanti è il desiderio di felicità dell’uomo. Siccome il desiderio più grande che ho è che mia moglie sia felice,
e il mio senso religioso si “limita” a ringraziare Dio ogni giorno per avermela fatta incontrare, regalandomi tutto ciò che il mio cuore desidera e rispondendo così al mio bisogno umano, la domanda è: per lei, don Carrón, che di Dio
ne sa più di me, va bene lo stesso? Perché se non va bene, o mi devo inventare un altro bisogno o devo far finta che questo non sia quello vero.
Grazie.

Il bisogno è solo uno, è quello che il Mistero ci mette dentro. La questione è trovare qualcosa che corrisponda.

Volevo raccontare un fatto e poi fare una domanda. A Natale ho scoperto che un mio
ex collega della ditta dove lavoravo prima era stato licenziato, allora l’ho chiamato per fargli gli auguri e chiedergli se aveva bisogno di un aiuto,
precisando che io non avevo possibilità per lui, perché non abbiamo praticamente produzione (e lui è un direttore di produzione). Gli ho proposto comunque di
vederci. Subito gli ho chiesto come andava la famiglia e mi ha detto che sei mesi dopo che io ero andato via suo figlio, che sembrava completamente guarito da una malattia grave, si è riammalato della stessa malattia ed è morto.
Nello stesso periodo anche sua moglie si è ammalata, e si è salvata per poco.
Mi ha detto che sono stati momenti terribili e mesi passati dentro e fuori dagli ospedali. Questa situazione gli ha cambiato proprio la vita ed è anche stata probabilmente l’origine dei problemi relazionali che l’hanno portato a essere licenziato. Insomma, io ero preparato a parlare di lavoro, ma non a una situazione del genere.
Sinceramente sono stato in silenzio per un minuto buono senza sapere cosa dire. In quel momento ho provato un profondo

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senso di ingiustizia e quindi di non-compimento per quello che lui mi aveva raccontato, e non sono riuscito a giudicare quella circostanza.

Perché hai sentito un senso di ingiustizia? Spiega.

Un senso di ingiustizia perché gli era capitato qualche cosa che per me era assolutamente una circostanza troppo contraddittoria. Né mi è sembrato di poter dire nulla di più vero che raccontare di me, degli ultimi tempi. Alla fine gli ho proposto di venire a lavorare da noi per un po’, a darci una mano intanto che cercava un nuovo lavoro. Oggi è ancora da me, è molto contento, non so se
rimarrà o no perché alla fine le circostanze sono quelle che sono. La mia domanda è questa. La mia liberazione io l’ho sperimentata prima nel raccontargli di me e poi, soprattutto, nel proporgli di fare un pezzo di strada con me, e non nel cercare di giudicare quello che gli era accaduto con la morte di suo figlio perché non ne ero letteralmente capace. E mi è capitata altre volte questa stessa
cosa di fronte a circostanze così contraddittorie; allora la mia domanda è: non è che questo è ultimamente sfuggire al giudizio di pertinenza della realtà per come mi accade?

Infatti quello che non capisco è che esperienza di giudizio e di liberazione hai fatto. Dobbiamo raccontare dei fatti dove facciamo un’esperienza di giudizio in contemporanea con la liberazione. Vedete la fatica che facciamo? Primo capitolo de Il senso religioso...

Io ho una domanda su questa dif icoltà. È successo che sull’invito che tu ci stai facendo ci sono state, tra le tante cose, molte discussioni su quello che sta accadendo in Italia, la situazione politica del nostro Paese, anche stimolate dall’editoriale che è uscito su Tracce, con il tentativo di prendere
sul serio anche quella situazione. Ci sono state reazioni diverse e tante prese di posizioni critiche o meno critiche, quindi mi ha fatto impressione come, con i vari amici con cui si discuteva, si vedevano come diversi gruppi di opinione. Anche io mi sono shttp://www.blogger.com/img/blank.gifchierato, e ogni volta che si discuteva cercavo di capire di più perché una posizione era più giusta dell’altra. Mi ha impressionato poi,leggendo qui, tutta l’insistenza contro il rischio dell’alienazione, insieme all’importanza di un
lavoro su di sé che parta dalle esigenze personali, quello che dice dell’ascesi. Perché ho visto questo rischio…

Tu o mi racconti un fatto dove hai fatto un giudizio o ti siedi, capisci?

Ma la domanda era su una difficoltà.

Allora spiega qual è la difficoltà.

La difficoltà è che c’è il rischio di restare sempre fermo.

Possiamo sempre correre dei rischi, ma non veniamo fuori dalla difficoltà
che dici se non fai un’esperienza positiva di che cos’è il giudizio e perché
ti libera. A che cosa ti serve che io ti spieghi tutti i rischi? Tu li sai già benissimo. Dobbiamo aiutarci – ragazzi e non ragazzi – a testimoniare in che
misura quello che dice qua, che il giudizio è una liberazione, è accaduto.
C’è qualcuno che abbia qualcosa da raccontare su questo?
Mi rivolgo a tutti, perché in quindici giorni è impossibile che abbiate vissuto e
non abbiate giudicato niente. Se non abbiamo giudicato niente, vuol dire che siamo veramente alla frutta.


Una certa sera eravamo io e mia moglie, io ho fatto uno sbaglio, abbiamo litigato, aveva ragione lei. Tutto il giorno dopo è stato un pensare allo sbaglio; e sentivo proprio la fatica e il dolore, e vedevo di me il fatto che non sapessi andare oltre, non avessi da solo la capacità di superare questo sbaglio. Vedevo anche come non stava bene lei e anche questo mi feriva. Poi mia moglie è venuta a trovarmi in pausa pranzo. Abbiamo parlato un po’, lei ha cercato di capire come fosse la questione,
e poi alla sera ci siamo ritrovati a cena. Lei mi ha detto: «Pregavamo perché il Signore rendesse non scontato il nostro matrimonio, cioè non fosse scontato che io e te siamo qui, che capissimo che portata è per la nostra vita essere insieme. E io sento che questo episodio che non avrei mai voluto invece ci aiuta ad andare a fondo del nostro rapporto». Io sono stato oggetto di uno sguardo che ha guardato precisamente quello che io avevo fatto, l’ha giudicato, però l’ha messo da parte, e ha detto: «Io voglio stare con te». Cioè mi ha restituito a me stesso. Questo sguardo io ho potuto solamente riceverlo. Non potevo fare niente per averlo, eppure mi è stato dato. Questo gesto,

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questo sguardo, questo abbraccio è stata una liberazione perché io ho riacquistato il mio valore. Adesso, senza voler dire frasi troppo grandi, però è come se avesse rimesso al suo posto lo sbaglio, è come se avesse rifatto venire fuori tutto quello che voglio io, cioè voler bene a me, voler bene a lei, volere che la moglie sia contenta. Una cosa così, a guardarla, non viene né da me né da lei né dalla somma delle nostre capacità, ma è un frutto del sacramento del matrimonio per cui uno è segno per l’altro di qualcosa di più che arriva e libera. Lo sguardo di liberazione si è proprio visto.

Allora, sinteticamente, che esperienza hai fatto? L’esperienza di uno sguardo di lei che portava un giudizio perché corrispondeva a quello che tu aspettavi, che il tuo cuore desiderava, che si chiama liberazione.
Sì.

E lo sbaglio è il contrario di questo, capisci? È un giudizio, perché in un caso hai fatto esperienza di non-corrispondenza, nell’altro hai fatto esperienza di corrispondenza. Cioè hai fatto un’esperienza e hai giudicato in tutte e due le occasioni questo. Grazie.

Questo fine settimana sono tornata nella mia città di origine dopo tanti anni e mi è capitato di ritrovarmi davanti al liceo dove andavo prima di fare l’incontro. Devo dire la verità, è una fase della mia vita che io non guardavo più, su cui avevo un gran pasticcio dentro e, a un certo momento, ho guardato questo liceo e mi è salita l’immagine che io avevo, e improvvisamente la realtà, per quel che è adesso, si è sostituita alla mia immagine, e lì il giudizio che ho dato è questo: io per tanti anni sono stata aggrappata a un’immagine che mi ero fatta venendo via di come avrebbe dovuto essere la realtà qui, e per tanti anni essendo rimasta legata a quest’immagine non ho guardato la realtà e non mi sono accorta che il Signore mi era contemporaneo e mi veniva incontro nelle circostanze che mi dava. Adesso è come se fosse caduta quest’immagine e io mi rendo conto di com’è la realtà, ho ritrovato me stessa, quel che ero, e la cosa che posso dire è che
l’unica spiegazione del perché mi è successa questa cosa è: «Tu, Tu mi hai condotto, mi hai preso, mi hai portato fino qui e ora Ti rifai presente e mi tocchi, mi fai rivedere la realtà». Io non lo so dire diversamente, però è un’esperienza di liberazione in cui ho capito anche che il giudizio è un avvenimento, non è una parola e basta, è una parola che descrive il fatto che sta accadendo.

Mi scrive uno: «Rileggendo gli appunti dell’ultima Scuola di comunità a un certo punto, come spesso mi capita, è subentrata in me come una grande confusione. Mi sembrava di non comprendere più nulla anche dopo tanti anni di esperienza di appartenenza al movimento. Era come se capissi solo intellettualmente, ma senza comprendere né la portata né le conseguenze che quelle parole avevano sulla vita. Arrivo a un certo punto a leggere: “Con l’incontro ci è stata donata la certezza
che è solo Lui che compie la vita, e questa sta, […] ma senza la contemporaneità
non ci cambia”, e mi sono detto: “Come faccio a evocare questa contemporaneità?”, senza leggere e comprendere la frase successiva: “E questa è una grazia che va chiesta e, nonostante noi, accade anche quando meno te lo aspetti”. È stato proprio in quel momento che mi è arrivato un sms che mi avvisava che due amici vecchi del movimento della mia comunità d’origine erano stati colpiti da gravi malattie, per loro mi venivano chieste preghiere. Immediatamente ho capito che quella era ancora una volta la mossa di Cristo che riaccadeva nella mia vita. Incredibile una coincidenza del genere. Poco dopo ho preso il telefono e ho chiamato, e l’ho
fatto con molta trepidazione: come faccio a parlare io,sano, a una persona così seriamente malata? Anche in questo frangente sono stato sorpreso perché il mio
amico, mostrandomi una serenità eccezionale, mi ha detto: “Non ti preoccupare,
se il Signore ha deciso che mi vuole con Sé vuol dire che da lassù riderò di tutti voi che ancora siete lì a penare per i vostri problemi. Tutto quello che decide il Signore è sempre la cosa giusta perché Lui non si sbaglia mai”. Al termine della telefonata mi sono quasi messo a piangere perché proprio nel momento in
cui ero confuso e desideravo capire meglio [capire esistenzialmente, non intellettualmente] sono stato afferrato da Cristo presente attraverso una circostanza, e una circostanza non certo lieta. E la certezza che fosse Cristo
mi era data da quei tratti inconfondibili, indicibili, che solo il cuore sa decifrare. Così si è realizzato quello che dicevi subito dopo: che senza che
riaccada l’Avvenimento non si ridesta l’io e non si capisce niente [cioè non accade la

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liberazione]». Se questo può capitare in una circostanza così, la questione è:
in che modo questo riaccade costantemente nella vita? E su questo vediamo che facciamo una fatica enorme. Quel che sta succedendo stasera mi sembra un esempio della fatica che facciamo a fare un’esperienza. È il primo capitolo de Il senso religioso, capite? Dopo tutto il cammino dell’anno scorso, o noi facciamo
questo lavoro a cui ci invita il don Gius (questa ascesi per liberarci), o è impossibile. Perché la liberazione non c’è soltanto quando io incontro Cristo, ma anche nel modo di affrontare tutto.
Perché quando uno è preoccupato di avere una malattia, e fa tutte le verifiche, il giudizio che non ce l’ha è una liberazione; il giudizio è la liberazione, prima è preoccupato. Giussani dice proprio che soltanto quando uno non giudica è preoccupato, ed è quando giudica che allora è liberato. La questione è che noi tante volte siamo agitati, siamo sempre sulle sabbie mobili, perché se uno non
arriva a giudicare, se non diventa familiare il giudicare, siamo sempre confusi. Oppure – e questa è la seconda tentazione – siamo sempre in attesa che qualcuno, fuori dall’esperienza, ci confermi o ci dica quello che non abbiamo ritrovato come conferma nell’esperienza. Così non possiamo crescere come adulti, perché sempre diventiamo bisognosi di qualche supplemento di certezza che non troviamo nell’esperienza! Giovanni e Andrea non hanno avuto bisogno di chiedere a qualcun altro al di fuori dell’esperienza di dare loro il supplemento di certezza che non avevano. La certezza è dentro l’esperienza del giudizio, per questo è un giudizio a liberarci. Amici, se noi questo percorso non lo facciamo, saremo sempre nel “forse”, nella palude. E così è difficile costruire la vita. Invece devono essere pietre di una costruzione, anche quando sbagliamo; perché quando uno sbaglia, se
uno lo riconosce, se dà il giudizio, anche questo è un passo alla verità: non è questo che corrisponde, ma c’è un’altra cosa che corrisponde. Non tutte le volte “becchiamo” la risposta giusta, non importa; decisivo per me è stato che, quando io ho incominciato a fare questo lavoro, tutto quello che mi capitava, anche quando sbagliavo, era un cammino al vero: il cammino al vero è
un’esperienza. Quante volte è capitato che imparando matematica uno sbaglio è diventato decisivo per non dimenticare più una cosa? Questo è stato una parte
del cammino alla certezza sulla matematica, perché abbiamo imparato qualcosa per sempre. Il problema è che quando io giudico e mi rendo conto, anche quando sbaglio faccio un passo. Per questo è impossibile che, se viviamo da uomini, ciascuno di
noi oggi non porti qui quindici esperienze di questo... Vuol dire che c’è ancora
tanto lavoro da fare.

Faccio un tentativo raccontando un’esperienza molto semplice, mi pare che tu oggi hai distinto l’esperienza quotidiana dall’esperienza dell’incontro con Cristo.

Quello che volevo dire è che non soltanto succede quando io faccio esperienza della corrispondenza con Cristo, ma che in qualsiasi circostanza io posso giudicare. Perché tante volte nella vita siamo incastrati, perché non giudichiamo le cose normali.

Ed è un fatto che, diciamo, di per sé è abbastanza banale, ma è diventato significativo perché alle spalle c’era un incontro di universitari in cui io ho sentito te parlare della realtà in un modo che mi ha molto colpito e mi ha molto aperto la mente nel senso che – perdonami se impoverisco un po’quello che avevi detto in quell’incontro – mi pare che tu avessi colto un punto di debolezza in noi quando ci sembra che le cose concrete siano quelle che incidono sulle conseguenze, mentre, guardando davvero la nostra esperienza, ciò che è veramente concreto è quello che muove noi e poi ci permette di arrivare fino alle conseguenze. Comunque, il fatto è questo. In queste settimane mi sono trovata in mezzo a tutto il lavoro di attuazione della riforma dell’università, per intenderci quella che ha provocato tanta confusione, tanto rumore nell’autunno, ed è una cosa che a me non piace fare. Dopo che in vent’anni di onorato servizio all’università ho evitato tutti i compiti amministrativi, questa volta ero in una situazione in cui non potevo dire di no. La mia antipatia istintiva verso questo tipo di lavori si è confermata dopo la prima riunione: il programma è veramente pesante, ho davanti dei mesi in cui ogni lunedì pomeriggio ci sono cinque o sei ore di riunioni un po’ inconcludenti, ma soprattutto la sensazione brutta è che questa grande apparente rivoluzione in corso, almeno così è stata presentata dai giornali, probabilmente partorirà un
topolino, perché l’impressione di tutti è che si tende a conservare l’esistente. Allora un pomeriggio

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ho chiesto un po’ di aiuto a un nostro bravissimo ricercatore che si intende di queste cose, ci siamo trovati con alcuni ragazzi a discutere un po’ per capire qualcosa in questa vicenda complessa. E la cosa che per me è stata significativa di quell’incontro è che con questi ragazzi in quel momento,quel pomeriggio, ma poi nei giorni successivi perché c’è un lavoro in corso, si percepiva una
chiarezza di giudizio sulle dif icoltà che ci aspettavano, che è un inizio di una operosità interessante e, oserei dire, a tratti gustosa. Per me questa è una cosa assolutamente nuova e corrispondente. Io ho l’impressione, per me, che quel fatto, quel giudizio che tu hai dato di che cosa è concreto e che cosa è astratto, c’entra tantissimo con questa possibilità di sperimentare un gusto in un lavoro che apparentemente non dà nessuna soddisfazione. Il giudizio: «Guardate che non è concreto quello che parte dalle conseguenze, ma quello che muove l’io», innanzitutto corregge la mia percezione del reale, perché io tante volte ho una percezione di cos’è la realtà molto povera e alla fine ingannevole, cioè un modo di guardare alla realtà che è come un pragmatismo che è l’anticamera dello scetticismo, perché è come ridurre la realtà alla sua apparenza e alla fine non può che deludere. Allora per me avere coscienza di che cosa è veramente reale, concreto, mi ha liberato con un ef etto paradossale, che io riesco a stare in quelle ultime conseguenze pratiche con tutte le energie che posso, senza delle aspettative che quella cosa non mi può dare, con quella posizione tranquilla e costruttiva che tu accennavi anche nella presentazione al Palasharp.

Che cosa è reale? È ciò che veramente mette in moto tutta la potenza dell’io. E questo è quello che ci consente di entrare in tutto quello che dobbiamo poi affrontare. Se noi invece riduciamo il reale soltanto alle conseguenze, queste ci soffocano.


Ci siamo trovati recentemente con un gruppo di avvocati che si occupano di diritto di famiglia edue magistrati (e già di per sé non è facile che degli avvocati e dei magistrati riescano a lavorare insieme...) a leggere un intervento che tu avevi fatto sulla famiglia (Julián Carrón, La trasmissione della fede nella famiglia, Valencia, 4-7 luglio 2006, Tracce.it) o, meglio, quella lettura che tu avevi reso pubblica della dinamica del senso religioso all’interno dell’esperienza amorosa: come, se non
è rettamente impostata, ciò porti al fallimento della relazione amorosa, e quindi del matrimonio.
Questo lavoro è nato da un’esigenza di riflettere proprio sull’origine di quella che è l’intollerabilità che poi porta alle separazioni, perché noi ci occupiamo di un settore molto delicato. Nessuno riflette sull’origine dell’intollerabilità, quindi, quando ci è capitato sotto mano quel testo che tu hai scritto, che è di un’intelligenza lucidissima, siamo rimasti folgorati perché tu
dici che l’origine della dif icoltà della coppia nasce dal fatto che l’uomo ha perso il senso di sé, cioè l’uomo non si ripete più la domanda fondamentale.
Non avendo consapevolezza delle esigenze e delle evidenze elementari dell’uomo, non si capisce quale sia il criterio di giudizio.
Quindi nelle dinamiche relazionali nascono delle pretese, perché io penso che tu possa soddisfare la mia felicità, cioè ciò che sono io. Ed è evidente che questo per natura non può essere, perché tu sei un essere limitato tanto quanto me, sarebbe come se io avessi la pretesa di dire che posso essere la tua felicità, è una follia. Ma se nella relazione di coppia si perde l’origine, che è quella della
domanda fondamentale sull’uomo, scattano poi quelle aspettative che restano deluse,necessariamente restano deluse e che portano a un certo momento al dire: «Tu non mi corrispondi più, quindi io cambio chi ho di fianco». E così si innesca il meccanismo della distruzione delle famiglie.
Soltanto per non aver fatto neanche un tentativo di giudizio, perché tutto è impostato su una apparente verità che il tempo dimostra che non era vera. Non avendo capito qual è l’esigenza elementare dell’uomo, io mi aspetto la corrispondenza dall’altro. E questo innesca una pretesa che è l’origine di tutta la violenza. Tutto questo perché? Semplicemente perché noi non giudichiamo,
perché se noi giudicassimo, subito capiremmo che io non posso pretendere dall’altro quello che l’altro non mi può dare, e allora si aprirebbe il varco per un tentativo di soluzione adeguata alla natura dell’altro. Perché altrimenti l’altro io lo “massacro” in nome del fatto che gli voglio bene. La

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mancanza di giudizio porta, poi, a tutte le conseguenze nefaste. Questo è un esempio, tra tanti che si possono fare nella vita quotidiana, di come l’assenza della verità ci porta a tanti dei disagi e delle fatiche che facciamo nella vita. Questo ci interessa. Giussani dice che uno incomincia a essere liberato dal giudizio («L’altro non è in grado di rispondere a tutto il mio desiderio di felicità e
quindi non posso imputargli una colpa»).
Ma guarda che è una tragedia vera, perché le famiglie saltano su questa cosa qui, i rapporti saltano per questa cosa qui, noi lo vediamo nel nostro lavoro.
Basterebbe giudicare secondo quanto ci diciamo qua. Questo ci sembra astratto rispetto al problema concreto, che sarebbe l’altra persona: «La verità del mio io è astratta, la persona che mi desta il sentimento di bene è concreta». Invece il tuo io è la cosa più concreta, perché è dietro tutta la pretesa e l’aspettativa assolutamente impossibile di farsi compiere da parte dell’altro.
Dunque succede questo. Finiamo di leggere e una collega, una donna fatta e finita, non una ragazzina, con un’esperienza tra l’altro familiare molto faticosa, separata, con una bambina, di botto dice: «Ma questo è un pugno nello stomaco per me, prima ancora che essere uno strumento che io posso utilizzare per un tentativo di giudizio nell’aiutare i clienti. Quel che c’è scritto qui è la ragione per cui io ho sbagliato tutto nella vita». Due giorni fa la incontro per caso, una cosa
velocissima, un paio di battute di due minuti, e le dico: «Allora, che cosa hai pensato di quella cosa che abbiamo letto? Ti ho pensato tantissimo per la reazione che hai avuto». E lei mi ha detto: «Tu non hai idea quante volte ho letto e riletto quell’articolo [e quindi quel giudizio che tu dai], perché io quella roba lì non l’ho mai sentita prima». E torna a dirmi: «Questa è la ragione per la quale io
ho sbagliato tutto nella vita. Tu mi conosci per come sono di temperamento. Io ho preso quell’articolo, l’ho fatto girare a tutti i miei amici, invitando tutti a leggerlo, ed è venuto fuori un putiferio nel senso che hanno incominciato tutti a telefonarmi e tutti a dirmi: “Ma dove hai trovato questa cosa? Noi non abbiamo mai letto una cosa del genere”».
Io che cosa ho fatto? Sono un esperto nel matrimonio? No, ho letto Il senso religioso. Vi rendete conto del potenziale che il don Gius ci ha dato tra le mani?
Io non ho fatto un corso sul matrimonio per fare questo, semplicemente ho giudicato a partire dall’esperienza che descrive qua. Questa è quell’intelligenza della fede che diventa intelligenza della realtà. E quando una persona la trova, si
stupisce di questo. Noi possiamo dare un contributo su ogni cosa se facciamo questa strada, perché questo diventa un giudizio culturale, un modo di stare nel reale proprio a partire da un’esperienza giudicata.

Mi ha detto: «Sono andata al lago un paio di giorni fa con un’amica. Ci siamo messe su una panchina e l’abbiamo letto e io l’ho letto con lei [quest’altra è una donna che è una giornalista affermata con una storia molto faticosa, separata con figli, ma con un cervello molto fine]. Finisco di leggerlo e lei è rimasta sorpresa, anche lei di getto ha detto: “Io non ho mai letto una cosa di questo tipo, ma dove l’hai trovata?”». Dopo due giorni le ha telefonato e le ha detto: «Guarda,
l’ho riletta in continuazione, quel passaggio sul segno [perché vai avanti spiegando la vera natura del rapporto che è il segno, e lei ha colto questo passaggio, è una cosa che mi ha lasciato senza parole] bisognerebbe volantinarlo in tutte le piazze». Poi le ha telefonato un altro amico dicendo pressoché le stesse cose. Quindi è un esempio di quello che è l’esperienza in atto con un giudizio che viene usato e brandito per leggere la realtà. Questo è pertinente anche nelle circostanze
concrete, non è per niente astratto.

È così. Questa è la promessa. Come diceva Giussani: «La mia vita ha conosciuto la letizia a queste condizioni», con questa capacità di giudicare. Questo è per noi. Se facciamo questa strada, potremo anche noi godere di questa letizia.Per la prossima volta faccio la stessa domanda sulla ragione. Non pensiamo di aver risolto la questione dell’esperienza, lasciamola aperta, perché, come vedete, l’esame non è stato molto brillante! Lo dico perché se qualcuno fa esperienza questa settimana e la prossima volta ci aiuta,può intervenire sempre. La questione è che adesso il secondo grande capitolo è la ragionevolezza, e la domanda diventa: quando abbiamo sorpreso in noi un uso vero della ragione, cioè come
9
coscienza della realtà secondo tutti i fattori, e quando abbiamo percepito la ragionevolezza del nostro agire? Sono due cose legate, ma diverse. Per questo vi chiedo di lavorare intensamente sul testo, perché se facciamo la lettura di questo capitolo con questa urgenza di cogliere nell’esperienza quel che Giussani ci testimonia, allora è diverso. Se avessi chiesto che cos’è l’esperienza, tutti,
credo, avreste dato la risposta esatta; testimoniare di averla fatta è una cosa diversa, come abbiamo visto.
La prossima Scuola di Comunità si terrà mercoledì 9 marzo alle ore 21.30 sul secondo capitolo “Ragionevolezza” (da pag. 17 a pag. 30).
Il libro del mese è uno strumento semplice che ci diamo per educarci alla lettura, ed è un altro modo per incontrare, attraverso la ricchezza di espressività, la testimonianza di persone che prendono sul serio il cammino al destino della propria vita.
Un esempio di questo è il libro del mese di marzo che è: Luce del mondo. Una conversazione di Benedetto XVI con Peter Seewald (Libreria Editrice Vaticana).
Come scrive Prades presentando il libro su Tracce di questo mese: «Prima di qualsiasi parola, nel libro si impone la presenza stessa del Papa, la sua umanità». Infatti nel libro emerge la testimonianza di un uomo che non ha paura di niente e non ha bisogno di difendere niente, ma, a partire dalla fede, è interessato a tutto e in ogni questione cerca la verità.
Esercizi Fraternità / Beatificazione Giovanni Paolo II
Molte persone chiamano in Segreteria per avere notizie dettagliate per la beatificazione e per questo stanno aspettando ad iscriversi agli Esercizi della Fraternità. Che siano capitate insieme la Beatificazione e gli Esercizi non può essere una ragione per non andare agli Esercizi, ci mancherebbe, perché allora che senso avrebbe?
La celebrazione avrà luogo in Piazza San Pietro a Roma, con inizio alle h. 10.00. Per la partecipazione non è richiesto alcun biglietto. Ci saranno degli appositi maxi-schermi in altri punti della città, che verranno precisati insieme alle indicazioni delle aree destinate a parcheggio per i pullman e per le auto.
Al momento non ci sono altre comunicazioni.
Perciò non aspettate ad iscrivervi agli Esercizi pensando di avere più notizie, perché arriveranno molto più avanti rispetto al termine fissato per l’iscrizione
agli Esercizi della Fraternità, che è il 14 marzo. Per questo mi raccomando, non lasciamo andare le cose senza prendere una decisione.
Adesso preghiamo.
• Gloria

La trasmissione della fede nella famiglia di Julián Carrón

Risulta ogni volta più evidente che non si può dare per scontata la maturità del soggetto umano che si accosta al matrimonio. Indipendentemente dalla loro buona volontà, la realtà è che tanti giovani arrivano al matrimonio senza la coscienza adeguata della natura dell’avventura che stanno per intraprendere. Ciò non si può dare per scontato neanche per i giovani cristiani, che in non poche occasioni si avvicinano al matrimonio in condizioni non dissimili da quelle dei loro amici non cristiani, con l’unica differenza che si sposano in chiesa e hanno quanto meno un desiderio di sposarsi secondo la concezione del matrimonio che la Chiesa difende e testimonia. Questa carenza di coscienza non si può risolvere con i corsi prematrimoniali che conosciamo, i quali per loro propria natura non possono dare risposta alla situazione di quanti li frequentano. Grande è la sfida che si presenta all’intera comunità cristiana: è messa alla prova la sua capacità di generare personalità adulte, uomini e donne, in grado di accostarsi al matrimonio con una minima prospettiva di un esito positivo.

In un intervento come questo, è impossibile affrontare tutta la problematica del matrimonio e della famiglia. Mi concentrerò su una questione che mi sembra essenziale per mettere in luce quella relazione particolare che si stabilisce fra un uomo e una donna.
La crisi della famiglia è una conseguenza della crisi antropologica nella quale ci troviamo. Gli sposi infatti sono due soggetti umani, un io e un tu, un uomo e una donna, che decidono di camminare insieme verso il destino, verso la felicità. Come impostano il loro rapporto, come lo concepiscono, dipende dall’immagine che ciascuno si fa della propria vita, della realizzazione di sé.

Ciò implica una concezione dell’uomo e del suo mistero. «La questione del giusto rapporto fra l’uomo e la donna – ha detto Benedetto XVI – affonda le sue radici dentro l’essenza più profonda dell’essere umano e può trovare la sua risposta soltanto a partire da qui. Non può essere separata cioè dalla domanda antica e sempre nuova dell’uomo su se stesso: chi sono? che cosa è l’uomo?».1
Per questo il primo aiuto che si può offrire a quanti vogliono unirsi in matrimonio è l’aiuto a prendere coscienza del mistero del loro essere uomini. Solo in questo modo potranno mettere adeguatamente a fuoco la loro relazione, senza attendersi da essa qualcosa che per loro natura nessuno di loro può dare all’altro.
Quanta violenza, quanta delusione potrebbero essere evitate nel rapporto matrimoniale, se fosse compresa la natura propria della persona!
Questa mancanza di coscienza del destino dell’uomo conduce a fondare tutto il rapporto su un inganno, che si può formulare così: la convinzione che il tu può rendere felice l’io. Il rapporto di coppia, in questo modo, si trasforma in un rifugio, tanto desiderato quanto inutile, per risolvere il problema affettivo. E quando l’inganno si manifesta, è inevitabile la delusione perché l’altro non ha compiuto l’aspettativa. Il rapporto matrimoniale non può avere altro fondamento che la verità di ciascuno dei suoi protagonisti. È la stessa relazione amorosa che contribuisce in maniera particolare a scoprire la verità dell’io e del tu, e insieme con la verità dell’io e del tu si manifesta la natura della vocazione comune.

In effetti, «il mistero eterno del nostro essere» ci viene rivelato dalla relazione con la persona amata. Nulla ci risveglia, nulla ci rende tanto consapevoli del desiderio di felicità che ci costituisce, quanto la persona amata. La sua presenza è un bene così grande che ci fa cogliere la profondità e la vera dimensione di questo desiderio: un desiderio infinito. Ciò che il poeta Cesare Pavese dice del piacere si può applicare al rapporto amoroso: «Quello che l’uomo cerca nel piacere è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di raggiungere questo infinito».2 Un io e un tu limitati suscitano l’uno nell’altro un desiderio infinito e si scoprono lanciati dal loro amore verso un destino infinito. In questa
esperienza si rivela a entrambi la propria vocazione. Sentono la necessità l’uno dell’altro per non restare paralizzati nel proprio limite, senza altra prospettiva che la noia della solitudine.

Ma nello stesso momento in cui si rivelano a noi stessi le dimensioni senza limite del nostro desiderio, ci viene offerta una possibilità di compimento. Più ancora, intravedere nella persona amata la promessa del compimento accende in noi tutto il potenziale infinito del desiderio di felicità. Per questo non c’è nulla che ci faccia comprendere il mistero del nostro essere uomini meglio del rapporto fra un uomo e una donna, come ci ha ricordato Benedetto XVI nella Enciclica Deus caritas est: «l’amore tra uomo e donna, nel quale corpo e anima concorrono inscindibilmente, […] all’essere umano si schiude una promessa di felicità che sembra irresistibile, […] al cui confronto, a prima vista, tutti gli altri tipi di amore sbiadiscono».3
In questo rapporto l’uomo sembra incontrare la promessa che gli fa superare il proprio limite e gli permette di raggiungere una pienezza incomparabile.4 Per questo storicamente si è percepita una relazione fra l’amore e il divino: «l’amore promette infinità, eternità – una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere».5
È l’esperienza che testimonia il poeta italiano Giacomo Leopardi nel suo inno ad Aspasia:

«Raggio divino al mio pensiero apparve,
Donna, la tua beltà».6

La bellezza della donna è percepita dal poeta come un “raggio divino”, come la presenza della divinità. Attraverso la sua bellezza, è Dio che bussa alla porta dell’uomo. Se l’uomo non comprende la natura di questa chiamata, e invece di assecondarla si ferma alla bellezza che vede davanti a sé, presto essa si manifesta incapace di compiere la sua promessa di felicità, di infinito.

«Or questa egli non già, ma quella, ancora
Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
Alfin l’errore e gli scambiati oggetti
conoscendo, s’adira; e spesso incolpa
la donna a torto».7

Vuol dire che la donna, con il suo limite, desta nell’uomo, anch’egli limitato, un desiderio di pienezza sproporzionato rispetto alla capacità che essa ha di rispondervi. Suscita una sete che non è in condizione di estinguere. Suscita una fame che non trova risposta in colei che l’ha destata. Da qui la rabbia, la violenza, che tante volte sorgono fra gli sposi, e la delusione nella quale vanno a cadere, se non comprendono la vera natura del loro rapporto.
La bellezza della donna è in realtà “raggio divino”, segno che rimanda oltre, ad altra cosa più grande, divina, incommensurabile rispetto alla sua natura limitata.8 La sua bellezza grida davanti a noi: «Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?».9 Con queste parole il genio di C.S. Lewis ha sintetizzato la dinamica del segno, della quale il rapporto fra l’uomo e la donna costituisce un esempio commovente. Se non comprende questa dinamica, l’uomo cade nell’errore di fermarsi alla realtà che ha suscitato il desiderio. Come se una donna che riceve un mazzo di fiori, rapita dalla loro bellezza, si dimenticasse del volto di chi glieli ha mandati, e del quale sono segno, perdendo il meglio che i fiori recavano. Non riconoscere all’altro il suo carattere di segno conduce inevitabilmente a ridurlo a ciò che appare ai nostri occhi. E prima o poi si manifesta incapace di rispondere al desiderio che ha suscitato.
Per questo, se ciascuno non incontra ciò a cui il segno rimanda, il luogo dove può trovare il compimento della promessa che l’altro ha suscitato, gli sposi sono condannati a essere consumati da una pretesa dalla quale non riescono a liberarsi, e il loro desiderio di infinito, che nulla come la persona amata desta, è condannato a rimanere insoddisfatto. Di fronte a questa insoddisfazione, l’unica via d’uscita che oggi tanti vedono è cambiare la coppia, dando inizio a una spirale in cui il problema viene rinviato fino al momento della prossima delusione.
Il poeta tedesco Rainer Maria Rilke ha identificato con singolare efficacia il dramma del rapporto amoroso, intuendo che entrare in questa spirale non può essere l’unica via d’uscita: «Questo è il paradosso dell’amore fra l’uomo e la donna: due infiniti si incontrano con due limiti; due bisogni infiniti di essere amati si incontrano con due fragili e limitate capacità di amare. E solo nell’orizzonte di un amore più grande non si consumano nella pretesa e non si rassegnano, ma camminano insieme verso una pienezza della quale l’altro è segno». Solo nell’orizzonte di un amore più grande si può evitare di consumarsi nella pretesa, carica di violenza, che l’altro, che è limitato, risponda al desiderio infinito che desta, rendendo così impossibile il compimento di sé e della persona amata. Per scoprirlo bisogna essere disposti ad assecondare la dinamica del segno, restando aperti alla sorpresa che questa possa riservarci. Leopardi ha avuto il coraggio di correre questo rischio. Con una intuizione penetrante del rapporto amoroso, il poeta italiano intravede che ciò che cercava nella bellezza delle donne di cui si innamorava era la Bellezza con la B maiuscola. Al vertice della sua intensità umana, l’inno Alla sua donna è un inno alla «cara beltà» che cerca in ogni bellezza; tutto il suo desiderio è che la Bellezza, l’idea eterna della Bellezza, assuma una forma sensibile.10 È ciò che è accaduto in Cristo, il Verbo fatto carne. Per questo Luigi Giussani ha definito questa poesia come una profezia dell’Incarnazione.11
Questa è la pretesa di Gesù, che troviamo in alcuni testi che a prima vista possono risultarci paradossali. «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; […] Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10, 34-37; 39-40).

In questo testo Gesù si presenta come il centro dell’affettività e della libertà dell’uomo. Ponendo se stesso al cuore degli stessi sentimenti naturali, si colloca a pieno diritto come loro radice vera. In tal modo Gesù rivela la portata della promessa che la sua persona costituisce per quanti lo lasciano entrare. Non si tratta di una ingerenza di Gesù a livello dei sentimenti più intimi, ma della più grande promessa che l’uomo abbia potuto mai ricevere: senza amare Cristo, la Bellezza fatta carne, più della persona amata, quest’ultimo rapporto avvizzisce, perché è Lui la verità di questo rapporto, la pienezza alla quale l’un l’altro si rinviano e nella quale il loro rapporto si compie. Solo permettendogli di entrare in esso è possibile che il rapporto più bello che può accadere nella vita non si corrompa e con il tempo muoia. Tale è l’audacia della sua pretesa. In questo momento appare in tutta la sua importanza il compito della comunità cristiana: favorire un’esperienza del Cristianesimo come pienezza di vita per ogni uomo. Solo nell’orizzonte di questo rapporto più grande, come diceva Rilke, è possibile non consumarsi, perché ciascuno trova in esso il suo compimento umano, sorprendendo in sé una capacità di abbracciare l’altro nella sua diversità, di gratuità senza limiti, di perdono sempre rinnovato. Senza comunità cristiane capaci di accompagnare e sostenere gli sposi nella loro avventura sarà difficile, se non impossibile, che essi la portino a compimento positivamente.
Gli sposi, a loro volta, non possono esimersi dal lavoro di una educazione di cui sono i protagonisti principali, limitandosi a pensare che l’appartenenza alla comunità ecclesiale li liberi dalle difficoltà.
In ciò si rivela pienamente la natura della vocazione matrimoniale: camminare insieme verso l’unico che può rispondere alla sete di felicità che l’altro suscita costantemente in me, verso Cristo. Così si potrà non passare, come la Samaritana, di marito in marito (cfr. Gv 4, 18) senza riuscire a soddisfare la propria sete.

La coscienza della propria incapacità a risolvere da se stessa il proprio dramma, neppure cambiando cinque volte marito, le ha fatto percepire Gesù come un bene così desiderabile che non ha potuto evitare di gridare: «Signore, […] dammi di quest’acqua, perché non abbia più sete». (Gv 4, 15).
Senza un’esperienza di Cristo come pienezza dell’uomo, l’ideale del Cristianesimo per il matrimonio si riduce a qualcosa di impossibile a realizzarsi. L’indissolubilità del matrimonio e l’eternità dell’amore appaiono come chimere irraggiungibili. In realtà esse sono frutto di una tale intensità dell’esperienza di Cristo che appaiono agli stessi sposi come una sorpresa, come la testimonianza che «per Dio nulla è impossibile». Solo un’esperienza così può mostrare la razionalità della fede cristiana, come totalmente corrispondente al desiderio e alle esigenze dell’uomo, anche nel matrimonio e nella famiglia.
Un rapporto vissuto così costituisce la migliore proposta educativa per i figli, che attraverso la bellezza del rapporto fra i genitori sono introdotti, come per osmosi, nel significato dell’esistenza.
La loro ragione e la loro libertà sono costantemente sollecitate a non staccarsi da tale bellezza; la stessa bellezza risplendente nella testimonianza degli sposi cristiani che gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno di incontrare.

Valencia, 4-7 luglio 2006
Congresso teologico pastorale in occasione del V Incontro mondiale delle famiglie con Benedetto XVI

Diamo voce a chi sceglie la vita

Ci sono storie che vanno dritte al cuore, che ci regalano una boccata d’aria fresca, che ci stupiscono facendoci percepire la profondità del mistero della vita e il dono dell’amore. Ci sono storie che non hanno raggiunto il palcoscenico di «Vieni via con me», le affabulazioni e le narrazioni di Roberto Saviano. Qualcuno le chiamerà «pro life», pensando di usare questa espressione in senso negativo.

Eppure, leggendo il racconto dell’esperienza di Mariagrazia Corno che oggi pubblichiamo su La Bussola, non si può fare a meno di constatare come proprio di queste esperienze abbiamo bisogno. Non si tratta di casi rari. La croce di una malattia invalidante, che sconvolge la vita familiare, è portata dalle spalle di tante persone nel nostro Paese. Da tante donne e da tanti uomini. Da tanti giovani. Abbiamo bisogno di sentire le loro voci, perché sulla vita e sulla morte non si decide a cuor leggero, sulla base degli slogan, dei videomessaggi, della caramellosa atmosfera creata da chi sceglie di raccontare soltanto una parte della realtà.

Ha affermato Piergiorgio Corno, ex calciatore e marito di Mariagrazia, che vive tracheostomizzato e immobile in un letto, comunicando grazie a un pannello trasparente dove sono segnate lettere e simboli: «Nella primavera ’99 avevo deciso che non valeva la pena di continuare a lottare, anche se, nel mio intimo non ne ero convinto. Avevo i polmoni vuoti che cercavano disperatamente aria che non arrivava, ma in casa respiravo tanta aria speciale fatta di presenza di affetto e tanto amore dei tre figli e di mia moglie Mariagrazia, anche dei tanti amici, che mi hanno fatto rivedere i miei programmi. Le suppliche accorate dei miei cari: “Rimani con noi”, mi hanno commosso. In un attimo ho rivisto la vita passata assieme, con le tante gioie che Dio ci ha donato e ho deciso di continuare a vivere sottoponendomi alla tracheotomia, consapevole di aver rubato la libertà a mia moglie e ai miei figli. Non è stato facile accettare di vedere spegnersi progressivamente la vita nei miei muscoli. Ma come sono riuscito a distaccarmi dal mio corpo, ormai inutile, ho avuto il conforto di una inaspettata e pacata serenità, che pian piano si è impadronita, senza che me ne rendessi conto, di tutto il mio essere. Da quel momento è iniziata per me una vita nuova».

Racconti come questo dovrebbero farci guardare in modo diverso al dibattito sulla legge per il fine vita, che in molti vorrebbero affossare perché vieta eutanasia e suicidio assistito, oltre a stabilire che idratazione e alimentazione non sono cure e non possono essere interrotte. Racconti come questo, insieme all’altro articolo che pubblichiamo oggi e che spiega come (non) funzionano le DAT, dichiarazioni anticipate di trattamento, negli Stati Uniti, dove sono presenti da circa quarant’anni.

Uno studio scientifico mostra che il 30-40% di pazienti colpiti da grave patologia cambia idea rispetto alle cure a cui vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposto nell’arco temporale che parte dal momento in cui è insorta la malattia fino a 7 anni dopo. I sostenitori delle DAT rispondono che questo non è un problema, perché le possono essere cambiate con il mutare delle decisioni dell’estensore. Purtroppo però nell’80% dei casi i pazienti non si rendono conto che ciò che loro pensano è diverso da ciò che è stato scritto nelle DAT: cioè non si rendono conto di aver cambiato idea.

Insomma, si tratta di una materia delicatissima, ben più complessa di quanto vorrebbero far credere i sostenitori dell’autodeterminazione. Anche le più recenti statistiche del Belgio dimostrano che in un caso su tre a decidere della vita o della morte sono stati i medici, non i pazienti.
Andrea Tornielli 2

lunedì 14 febbraio 2011

"OCCORRE STARE CON GESU' PER POTER STARE CON GLI ALTRI"


Il discorso del Papa alla Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo

"Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri. È questo il cuore della missione". Lo ha ricordatoil Papa ai partecipanti all'assemblea generale della Fraternità sacerdotaledei missionari di San Carlo Borromeo, ricevuti in udienza sabato mattina,12 febbraio, nella Sala Clementina.

Cari Fratelli e amici,

è con vera gioia che vivo questo incontro con voi, sacerdoti e seminaristi della Fraternità san Carlo, qui convenuti in occasione del venticinquesimo anniversario della sua nascita. Saluto e ringrazio il fondatore e superiore generale, Mons. Massimo Camisasca, il suo consiglio, e tutti voi, parenti ed amici, che fate corona alla comunità. In particolare, saluto l'Arcivescovo della Madre di Dio di Mosca, Mons. Paolo Pezzi, e Don Julián Carrón, Presidente dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, che esprimono simbolicamente i frutti e la radice dell'opera della Fraternità san Carlo. Questo momento riporta alla mia memoria la lunga amicizia con Mons. Luigi Giussani e testimonia la fecondità del suo carisma.
In questa occasione, vorrei rispondere a due domande che il nostro incontro mi suggerisce: qual è il posto del sacerdozio ordinato nella vita della Chiesa? Qual è il posto della vita comune nell'esperienza sacerdotale? La vostra nascita dal movimento di Comunione e Liberazione e il vostro riferimento vitale all'esperienza ecclesiale che esso rappresenta, pongono davanti ai nostri occhi una verità che si è andata riaffermando con particolare chiarezza dall'Ottocento in poi e che ha trovato una significativa espressione nella teologia del Concilio Vaticano II. Mi riferisco al fatto che il sacerdozio cristiano non è fine a se stesso. Esso è stato voluto da Gesù in funzione della nascita e della vita della Chiesa. Ogni sacerdote, perciò, può dire ai fedeli, parafrasando sant'Agostino: Vobiscum christianus, pro vobis sacerdos. La gloria e la gioia del sacerdozio è di servire Cristo e il suo Corpo mistico. Esso rappresenta una vocazione bellissima e singolare all'interno della Chiesa, che rende presente Cristo, perché partecipa dell'unico ed eterno Sacerdozio di Cristo. La presenza di vocazioni sacerdotali è un segno sicuro della verità e della vitalità di una comunità cristiana. Dio infatti chiama sempre, anche al sacerdozio; non vi è crescita vera e feconda nella Chiesa senza un'autentica presenza sacerdotale che la sorregga e la alimenti. Sono grato perciò a tutti coloro che dedicano le loro energie alla formazione dei sacerdoti e alla riforma della vita sacerdotale. Come tutta la Chiesa, infatti, anche il sacerdozio ha bisogno di rinnovarsi continuamente, ritrovando nella vita di Gesù le forme più essenziali del proprio essere.
Le diverse possibili strade di questo rinnovamento non possono dimenticare alcuni elementi irrinunciabili. Innanzitutto un'educazione profonda alla meditazione e alla preghiera, vissute come dialogo con il Signore risorto presente nella sua Chiesa. In secondo luogo, uno studio della teologia che permetta di incontrare le verità cristiane nella forma di una sintesi legata alla vita della persona e della comunità: solo uno sguardo sapienziale può infatti valorizzare la forza che la fede possiede di illuminare la vita e il mondo, conducendo continuamente a Cristo, Creatore e Salvatore.
La Fraternità san Carlo ha sottolineato, durante il corso breve ma intenso della sua storia, il valore della vita comune. Anch'io ne ho parlato più volte nei miei interventi prima e dopo la mia chiamata al soglio di Pietro. "È importante che i sacerdoti non vivano isolati da qualche parte, ma stiano insieme in piccole comunità, si sostengano a vicenda e facciano così esperienza dello stare insieme nel loro servizio a Cristo e nella rinuncia per il regno dei Cieli e ne prendano anche sempre più coscienza" (Luce del mondo, Città del Vaticano 2010, 208). Sono sotto i nostri occhi le urgenze di questo momento. Penso per esempio alla carenza di sacerdoti. La vita comune non è innanzitutto una strategia per rispondere a queste necessità. Essa non è neppure, di per sé, solo una forma di aiuto di fronte alla solitudine e alla debolezza dell'uomo. Tutto questo ci può essere, certamente, ma soltanto se la vita fraterna viene concepita e vissuta come strada per immergersi nella realtà della comunione. La vita comune è infatti espressione del dono di Cristo che è la Chiesa, ed è prefigurata nella comunità apostolica, che ha dato luogo ai presbiteri. Nessun sacerdote infatti amministra qualcosa che gli è proprio, ma partecipa con gli altri fratelli a un dono sacramentale che viene direttamente da Gesù.
La vita comune perciò esprime un aiuto che Cristo dà alla nostra esistenza, chiamandoci, attraverso la presenza dei fratelli, ad una configurazione sempre più profonda alla sua persona. Vivere con altri significa accettare la necessità della propria continua conversione e soprattutto scoprire la bellezza di tale cammino, la gioia dell'umiltà, della penitenza, ma anche della conversazione, del perdono vicendevole, del mutuo sostegno. Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum (Sal 133, 1).
Nessuno può assumere la forza rigenerante della vita comune senza la preghiera, senza guardare all'esperienza e all'insegnamento dei santi, in particolar modo dei Padri della Chiesa, senza una vita sacramentale vissuta con fedeltà. Se non si entra nel dialogo eterno che il Figlio intrattiene col Padre nello Spirito Santo nessuna autentica vita comune è possibile. Occorre stare con Gesù per poter stare con gli altri. È questo il cuore della missione. Nella compagnia di Cristo e dei fratelli ciascun sacerdote può trovare le energie necessarie per prendersi cura degli uomini, per farsi carico dei bisogni spirituali e materiali che incontra, per insegnare con parole sempre nuove, dettate dall'amore, le verità eterne della fede di cui hanno sete anche i nostri contemporanei.
Cari fratelli e amici, continuate ad andare in tutto il mondo per portare a tutti la comunione che nasce dal cuore di Cristo! L'esperienza degli Apostoli con Gesù sia sempre il faro che illumini la vostra vita sacerdotale! Incoraggiandovi a continuare sulla strada tracciata in questi anni, volentieri imparto la mia benedizione a tutti i sacerdoti e i seminaristi della Fraternità san Carlo, alle Missionarie di san Carlo, ai loro familiari e amici.

***

Centoquattro preti e quaranta seminaristi in sedici Paesi

Venticinque case in sedici Paesi del mondo, con centoquattro preti e quaranta seminaristi impegnati prevalentemente nella missione parrocchiale e nell'insegnamento, nelle scuole superiori e nelle università. È questa la realtà della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, nata venticinque anni fa dal movimento di Comunione e liberazione. A presentarla a Benedetto XVI all'inizio dell'udienza è stato il fondatore e superiore generale don Massimo Camisasca. "Al termine della nostra XI assemblea generale - ha detto nel saluto al Papa - abbiamo sentito tutti l'urgenza interiore di venire qui, nella casa del Padre, per deporre ai suoi piedi questi venticinque anni di vita. Conosciamo infatti il valore affettivo del nostro rapporto con Pietro. Portando al vicario di Cristo le nostre vite, le nostre attese, i nostri desideri più profondi, le nostre esperienze missionarie, le persone che abbiamo incontrato, rinnoviamo il nostro rapporto con il Signore e ripetiamo, con le stesse parole di Pietro: "Da chi potremmo andare? Tu solo hai parole di vita eterna"". Camisasca ha sottolineato che le radici della Fraternità affondano nell'esperienza di don Luigi Giussani, in particolare nella "sua sapienza cristiana" e nel "suo amore per Cristo e per l'uomo, indistruttibilmente congiunti". Nati venticinque anni fa "anche per la spinta missionaria data al movimento dal suo venerabile predecessore Giovanni Paolo II" - ha ricordato - i sacerdoti e i seminaristi della Fraternità vivono in comune in piccole case. "L'esperienza della comunione, di cui don Giussani è stato per noi un maestro - ha spiegato - ci ha portato, fin dall'inizio, a scegliere la vita comune e perciò la casa come luogo di irraggiamento della fede". "Sentiamo nel vostro magistero - ha detto ancora - un punto di riferimento essenziale per la nostra vita e la nostra missione. In particolare il vostro richiamo al valore affettivo della fede, la liturgia come esperienza che ci introduce alla forma definitiva della vita, la necessità di centrare la nostra esistenza ecclesiale su ciò che è essenziale, sulla fiducia in Dio che guida le nostre esistenze e non sulle logiche mondane che rischiano sempre di portare dentro di noi speranze ingannevoli e, infine, deludenti". All'incontro con il Pontefice hanno partecipato anche genitori e amici dei sacerdoti, insieme con alcuni collaboratori laici. Erano presenti, tra gli altri, monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, don Julián Carrón, successore di don Giussani alla presidenza di Comunione e Liberazione, e le missionarie di San Carlo, istituto femminile religioso nato recentemente dall'esperienza della fraternità e guidato da don Paolo Sottopietra.



(©L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)

venerdì 11 febbraio 2011

Appunti Scuola di Comunità con Julian Carron

Milano, 9 febbraio 2011
Testo di riferimento: incontro di presentazione del libro di Luigi Giussani Il senso religioso
(Rizzoli), 26 gennaio 2011. Palasharp di Milano.
• Mare nostre
• Negra Sombra
Gloria
Cominciamo il nostro lavoro dopo la provocazione dell’ultima volta, in cui abbiamo cercato di presentare lo scopo e il metodo del nostro lavoro: il senso religioso, verifica della fede.
Mi ha molto aiutato giovedì scorso sentire il racconto di una ragazzina di Gs dopo l’incontro del Palasharp. Mi ha da subito incuriosito il fatto che per raccontarci cosa l’avesse colpita partisse da come si era alzata mercoledì mattina: triste e non desiderosa di iniziare la giornata perché da qualche giorno la sua insegnante di italiano, cui lei si è molto affezionata, era andata in maternità.
Un’insegnante – lei dice – che già nel modo di fare l’appello la provocava. Quella mattina, mentre stava cercando una scusa per rimanere a casa da scuola, si accorge che suo papà, diversamente dalle altre mattine, si era alzato molto presto. E dunque lei gli chiede come mai, il perché di quella sveglia così anticipata. Il papà risponde che siccome doveva aiutare la mamma si era alzato così
presto e voleva portarsi avanti. Immediatamente lei si accorge della diversità: «Come è diverso alzarsi al mattino se qualcuno ti ama. Se uno si sente amato, la mossa è sempre positiva, tanto che ti alzi presto». Il pensiero torna subito alla sua prof e a quell’appello il cui valore era stato sempre di ricordarle ogni giorno che lei era amata. E allora dice: «Ma quello che ho incontrato con la mia prof c’è ancora, è vero; allora adesso che non c’è lei l’appello sono io». Allora quella mattina prende una scatola di cioccolatini e va a scuola, e comincia a distribuirli alle sua compagne. La prima è quella che le ricorda che la sera sarebbero andate insieme all’incontro. La seconda le fa questa domanda: «Senti, ma come si fa secondo te a non sentirsi schiacciate quando le cose non vanno come vuoi tu?». Allora arriva al Palasharp la sera con questa domanda, tutta trafelata un po’ per lo sciopero dei mezzi e un po’ perché aveva dovuto discutere con la sua famiglia perché non volevano farla andare. A un certo punto, si domanda: «Ma io perché sono qua adesso?». E risponde: «Con sorpresa quando ho sentito dire queste parole: “La realtà, che si presenta originariamente alla nostra ragione come segno, viene ridotta al suo aspetto percettivamente immediato, privata del suo significato,della sua profondità. Per questo tante volte […] soffochiamo nelle circostanze: quando è ridotta ad apparenza, la realtà diventa una gabbia”, in quel momento ho compreso che io innanzitutto ero di fronte a uno che stava rispondendo a me, senza lasciare fuori nulla di me, cioè stava leggendo la mia esperienza, e rispondeva alle domande con cui io ero arrivata lì, e quindi alla domanda della mia amica».

Questo che hai raccontato risponde a tante lettere e reazioni davanti all’incontro del 26 gennaio. Leggo questa lettera come sintetica di alcune reazioni: «Caro Julián, ho deciso di scriverti perché la presentazione dell’altra sera è stata davvero faticosa; non riuscivo a seguirti. Inoltre, avendo invitato alcuni amici nuovi, mi sono ritrovata a immedesimarmi in loro e questo, probabilmente, ha generato
tutta una serie di preoccupazioni che forse hanno impedito di ascoltarti in modo libero. Finito l’incontro, mi sono trovata di fronte a due categorie di persone: alcuni che condividevano totalmente la mia posizione anche in modo scocciato. Essi si chiedevano: “Ma perché ha parlato in modo così ostico di fronte a tante persone nuove, di fronte a degli studenti così giovani?”. Però ho trovato di fronte a me anche tante persone che sono uscite sorprese, e che di fronte alle difficoltà
delle tue parole hanno iniziato un reale lavoro, si sono lasciate provocare e non (come me) si sono fermate a dare un giudizio e a prendere una distanza. Non sopportavo, e non sopporto tuttora, sentire parlare le persone di questa seconda categoria, ma in fondo desidero profondamente la loro
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posizione. Allora ti chiedo: cosa deve avvenire o cosa non è avvenuto in me per fare il passo che tanti hanno fatto, e cioè lasciarsi provocare da quello che ci hai detto e starci di fronte e non far vincere il mio giudizio che non sta muovendo nulla? Sento di essermi un po’ incastrata. E soprattutto desidero questa semplicità e questa apertura di fronte alle cose che non capisco, non condivido, istintivamente». Mi sembra che questa lettera sia sintetica delle difficoltà davanti al fatto che abbiamo vissuto insieme. Anche la difficoltà sentita, o l’essere incastrati, non spegne il desiderio di avere questa semplicità che uno vede negli altri. Il fatto che i ragazzi – come abbiamo sentito: sedici anni! – abbiano percepito così immediatamente le cose, che cosa dice di tutte le nostre obiezioni? È come se tutte crollassero davanti ai nostri occhi, perché non è un problema di intelligenza, non è un problema di capacità, non è un problema di studio, di essere più istruiti per capire. Rispondo a questo con altre due lettere. Uno mi scrive: «Io ti comunico il mio contraccolpo alla presentazione. Mi sono sorpreso assolutamente non preoccupato per non aver capito tutto dal punto di vista intellettuale, e neppure lo ero rispetto all’amico che avevo invitato. Anzi, quasi paradossalmente, proprio quel deficit di comprensione ha fatto prevalere in me il desiderio di guardare l’insondabile che mi si parava davanti. Anche io ho raccolto le reazioni deluse di alcuni amici che dicevano: “Difficile”, o: “Non si capisce”, ma a mia volta ho reagito sottolineando come questa pretesa, che in alcuni casi ho scoperto come ansia e angoscia, aveva fatto e faceva letteralmente fuori l’avvenimento che avevano davanti, e impediva di addentrarsi nell’entusiasmante cammino di conoscenza vera a cui sei sollecitato quando, appunto, impatti con il Mistero. Come sempre è una questione di metodo. Infatti mi ha colpito il tuo richiamo a “mettere a fuoco la conseguenza del rifiuto del metodo scelto da Dio per rispondere alla esigenza di significato totale dell’uomo propria del senso religioso: «Senza il riconoscimento del Mistero presente la notte avanza, la confusione avanza e […], la ribellione avanza, o la delusione colma talmente la misura che è come se non si attendesse più niente”. Stare di fronte al Mistero, invece, è tutta un’altra cosa:
spalanca l’orizzonte della conoscenza, e quindi ti rende lieto e più baldanzoso rispetto al reale.
Guardando anche alla mia esperienza passata, il pericolo inerente alla pretesa del capire è quello di ottenere la ricetta pronta per il vivere. Un’illusione che cade presto miseramente nell’impatto con la realtà, proprio perché ti impedisce di iniziare e blocca quel percorso di conoscenza cui tu ci hai chiamato a partire dall’incontro. Tornando al contraccolpo personale di quella serata, ti ripeto che
ero assolutamente entusiasta della prospettiva del cammino proposto, desideroso e ansioso di scoprire che cosa si sarebbe potuto svelare durante il percorso e certo di una convenienza personale che tu ci testimoniavi in quel momento. La forza propellente del testimone è eccezionale, basta guardarla con semplicità». Questa non è una cosa da poco, guardate che cosa dice don Giussani descrivendo Giovanni e a Andrea: «Loro non capivano [non dice che capivano: non capivano!],
erano semplicemente afferrati». Che cosa vuol dire capire? Quando hai capito meglio la tua morosa, quando ti hanno raccontato dei dati su di lei prima di conoscerla o quando ti sei sentito afferrato dalla sua presenza in carne e ossa? E per essere afferrato occorre qualcosa in più delle istruzioni, occorre quella semplicità che si lascia attrarre da qualcosa che sta davanti. Questo è decisivo, perché altrimenti noi potremo capire soltanto quello che già abbiamo deciso di capire. Giovanni e Andrea erano due popolani – dice Giussani –, insieme a loro erano lì tanti farisei, pubblicani che erano forse più istruiti, ma soltanto due sono stati afferrati. Questa è la differenza. Per anni abbiamo ripetuto certe frasi o la logica di un pensiero (e forse l’abbiamo fatto consapevolmente, coscientemente), ma quante volte siamo stati afferrati? I ragazzi possono avere una semplicità che a noi tante volte sfugge.Dice , infatti, un’altra lettera: «Volevo raccontarti quale è stata la mia immediata reazione dopo il Palasharp. Siccome sono un’insegnante, avevo invitato alcuni alunni che però, alla fine, non sono venuti. “Che fortuna”, mi sono detta, “come avrei potuto invitarli altrimenti al triduo o in vacanza?”, non mi avrebbero più creduto. Mi era sembrata, infatti, una lezione difficile da seguire, anche per me, che penso di conoscere il senso religioso.Poi domando a quelli di Gs quali sono le loro impressioni. Ero certa che mi sarei trovata di fronte al mutismo dei ragazzi, e mi stavo preparando a tenere una nuova lezione, magari più semplice della tua. Cosa,invece, è accaduto? Prima di tutto nessuno ha detto che era difficile. Dopo aver dato la definizione

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di senso religioso, un ragazzo dice: “Se non ho capito male, si intende il prendere in considerazione tutte quelle domande che abbiamo e vedere dove possono trovare risposta”. Sono partite le domande, ognuno riferendosi alla propria esperienza; la più gettonata è stata: come si impara?
Eccoli: desiderosi di fare un percorso. Mentre accadeva tutto questo, mi sono sentita ridicola. Alla fine ero veramente grata e desiderosa di andare a casa a riprendere tutta la lezione con lo stesso sguardo che avevano avuto loro. Non avevano di sicuro la preoccupazione di capire per ridire, volevano soltanto
vederlo accadere. L’ho riletto con le loro facce davanti e mi è sembrato tutto
nuovo [è questo che occorre per introdursi, occorre star lì con le loro facce davanti, perché allora tutto è nuovo; lo abbiamo detto tante volte, ma come una frase vuota: “Nelle nostre mani i codici, nei nostri occhi i fatti”].
Ho cominciato a intuire la novità che hai introdotto: il senso religioso come verifica della fede. La fede è riconoscere una Presenza ora, attraverso la contemporaneità di Cristo, la Sua contemporaneità mi era data dalle loro presenze [dai ragazzi: il Signore ha pietà del nostro niente, della nostra incapacità e ci risponde, non con un’altra lezione (come lei voleva), bensì facendo accadere, dandoci un testimone, uno che è stato afferrato], dal modo semplice con cui sono stati di fronte al fatto [è di questo che abbiamo bisogno per stare davanti a tutto, che riaccada un evento che ci ridesta l’umano, perché lei stessa, che non aveva capito, adesso, dopo aver visto i suoi ragazzi, comincia a capire; è diventata intelligente di colpo e prima era scema?]. Non volevo perdere nessuna occasione
per verificare la certezza della vittoria della fede su qualsiasi situazione, e
ho cominciato ad andare a scuola guardando quello che mi faceva accadere e prendendomi la responsabilità di fronte a tutto senza paura di sbagliare [no, non siamo scemi, è che per entrare nella conoscenza di quello occorre la Sua contemporaneità, e non detta come una formula o come una logica, ma come un
fatto che accade attraverso la carnalità dei ragazzi: come all’inizio del cristianesimo, letteralmente, come ha descritto Giussani]. Questo mi ha
permesso di stare di fronte a un ragazzino che vive un disagio familiare
con una grande libertà (l’ho provocato perché tirasse fuori la sua domanda più vera), o di rimanere davanti alla mia amica malata di tumore da anni senza
sentire il peso di quella condizione o, peggio ancora, dell’ingiustizia. Con l’incontro ci è stata donata la certezza che è solo Lui che compie la vita, e
questa sta – non possiamo sempre rimetterlo in dubbio perché siamo adulti –,
ma senza la contemporaneità non ci cambia! E questa è una grazia che va
chiesta e, nonostante noi, accade anche quando meno te lo aspetti».
Per questo è importante che la lezione del Palasharp – non voglio giustificare
di averla fatta così – sia l’occasione per individuare dove sono le difficoltà e
per poter vedere cosa succede, che cosa vuol dire capire.
Perché non è un problema di comprensione, la lezione era semplice: guardate,
senza che riaccada l’Avvenimento non si ridesta l’io e non capiamo niente.
Semplice. Si capisce? Semplice, perché è quello che dice don Giussani quando risponde a Scola, nel brano che ho citato: «Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme
sorprese dei poveri pastori.
Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso
o non religioso [di qualsiasi grado d’istruzione]. È la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia […] il nucleo di evidenze originarie cui
diamo il nome di “senso religioso”». Semplice. Senza questo il cristianesimo non è ragionevole, perché non è in grado di ridestare la vita. E Allora perché dovrei essere cristiano? Invece, quando accade, è semplice, come vediamo.
Così è semplice.


Di quello che hai appena detto (proprio di tutto) sono stato spettatore nel
rapporto con un collega che da sei mesi si è trasferito ed è venuto nella mia
sede. E da quando si è trasferito non ci molla, non ci molla, è sempre lì che ci chiede: «Ma andiamo a mangiare insieme? Facciamo questo, facciamo quello?», con
gli occhi sgranati. Una settimana prima dell’incontro su Il senso religioso mi dice: «Ti devo raccontare una cosa. Sai, ieri sera sono tornato a casa, io ho
due figli e quando siamo a cena chiedo sempre loro: “Cosa avete fatto di bello oggi?”, e i bambini mi hanno raccontato le cose belle che hanno fatto.
E poi dopo loro chiedono a me: “Papà, ma tu cosa hai fatto oggi?”».
E lui, tutto contento, ha detto: «Io oggi ho mangiato con una mia collega».
La moglie si irrigidisce: «Eravate tu e lei da soli?», e lui: «Eh sì, gli altri amici non son potuti venire,
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eravamo io e lei da soli». Finita la cena, la moglie lo vede che gioca con i
bambini e gli dice tutta stupita: «Certo è che, per come ti vedo giocare con i bambini, tu con quella collega devi andare a mangiare tutti i giorni!».
Io sono rimasto colpito e gli ho detto: «Devi invitarla all’incontro del Palasharp!». E lui che mi dice (è un ragazzo timido): «Guarda, ci provo ma non so». Insomma, sua moglie accetta. Il giorno dopo lui mi racconta: «Sai cosa è successo ieri? Mentre venivo con mia moglie – eravamo in macchina –, lei inizia a dirmi: “Però io e te non usciamo mai da soli, mai, una volta che possiamo uscire, dai ciellini mi devi portare! E poi, perché stiamo andando lì?”. “Dimmi tu perché stiamo andando lì”. E lei: “Perché tu non sei più tu”. Poi ci avviciniamo al Palasharp e lei dice: “Il Palasharp! Io l’ultima volta che sono venuta qua era due anni fa alla Festadell’Unità”.
Entriamo e lei che è un’insegnante vede tutto questo silenzio e mi chiede:
“Perché tutto questo silenzio?”. E io: “Guarda, ci hanno detto all’ingresso di fare silenzio e quindi si fa silenzio”. E quando Carrón ha iniziato a raccontare di Giovanni e Andrea, lei mi ha dato di gomito: “Questo sei tu, perché tu sei
sempre tu, ma adesso sei più tu”». Questo per dire che riaccadono oggi – oggi – gli stessi tratti inconfondibili di allora: ciò di cui abbiamo bisogno.
Semplice.
Per tanto tempo mi sono chiesta: ma questo senso religioso che cos’è? Che cos’è per me? Però non ho mai voluto scervellarmi per capire a tutti i costi. Ora volevo raccontare ciò che sto vivendo per capire se ci sono vicina o se sono ancora lontana anni luce. Sono nel movimento da quasi quindici anni, ma è come se l’avessi incontrato solo tre anni e mezzo fa. E su questo mi ricollego a una cosa
che hai letto del Gius: questa sorpresa dei poveri pastori è la mia sorpresa, e mi rimanda al mio incontro. Spesso ho sentito che dell’incontro ricordi il giorno e l’ora, e mi sono sempre arrabbiata perché se mi avessero chiesto quando avessi fatto l’incontro non sarei stata in grado di dirlo, mi sforzavo ma non mi veniva in mente nulla. Ora, invece, posso dire il momento in cui ho sorpreso finalmente Cristo all’opera: il 29 settembre del 2007, alla Giornata d’inizio anno, che è stata la
svolta di tutto. Ho sentito le tue parole rivolte a me, non più a questo o a quello (perché spesso quando sentivo le cose dicevo: «Chissà se questa cosa l’ha sentita quello lì, perché era una cosa per lui»). In quel momento, invece, c’ero io davanti al Mistero, ho avuto la percezione di dover uscire dal gruppetto di Fraternità che mi stava un po’ stretto e mi sono resa conto che la Fraternità era una sola, il resto era solo un aiuto. Questa decisione mi ha spalancato al mondo. È come se
prima, per più di dieci anni, avessi avuto la cataratta e poi, con un banale intervento, l’incontro fatto, avessi potuto vedere tutto limpido, di una bellezza incredibile. E ho scoperto che Cristo, che per anni volevo vedere a tutti i costi sforzandomi di capire, era lì come quando Lo sentivo presente da piccola nella mia famiglia; solo che ora Lo riconoscevo come presenza viva e non come sentimento moralista. Anche io, come Andrea, sperimento finalmente i segni del mio risveglio umano e, pensandoci, non posso non commuovermi. Mai mi era successo di lavare, stirare, cucinare, pulire la casa eccetera, non per dovere (perché devi avere la casa pulita, per il marito, per i figli), ma per me, perché ho scoperto che è bello, in quello che faccio, pensare al rapporto dipendente con un Altro che mi fa. La dipendenza totale da Lui mi fa capire che non sono io a fare le cose, ma è un Altro che opera attraverso di me, si serve di me, di me così piena di limiti.
Che commozione! Questa dipendenza mi è stata chiarita grazie a una cara amica che, di fronte alla grande decisione di rispondere a una proposta di adozione di un bimbo down, mi ha detto che il disegno di Dio c’era già e che se quel bimbo doveva venire da noi, sarebbe venuto. All’inizio, dopo aver detto di sì avevo quasi la pretesa dell’esito, perché se avevo detto di sì per una cosa così grande, sicuramente sarebbe arrivato. Invece più passavano i giorni, più mi rendevo conto di
dipendere e non più di pretendere. E così, quando ci è stato detto che il bimbo era stato assegnato a un’altra famiglia, non ci sono rimasta male. Dopo però, quasi quasi, pensavo che aver detto un sì a Dio senza avere l’incombenza di dover seguire quel figlio per tutta la vita mi faceva dire: «Che bello, ho guadagnato dei punti senza far fatica». E così ora, a distanza di due mesi, Dio si rifà vivo,
ed ecco una richiesta dalle Famiglie per l’Accoglienza quasi identica alla prima, ancora un bimbo down da adottare. Così abbiamo riconfermato il nostro sì, ma con una certezza più grande: che io
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non faccio nulla, non può essere opera mia, non ne sarei assolutamente in grado. Ma chi me lo farebbe fare? E anche questa è una conseguenza del cambiamento che mi è avvenuto, generato dal rapporto con Cristo presente. Come dice san Paolo, se uno è in Cristo è una creatura nuova, e le cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove. Mi sento quasi indegna, ma grata di essere stata scelta per diventare creatura nuova.

Grazie. Questa è la novità che nasce dall’incontro: toglie la cataratta, perché è una Presenza così viva che risveglia l’io. E si vede in tutti i fatti che hai raccontato, dal pulire allo stirare, al cucinare, perfino all’accoglienza di un figlio down.


Quello che tu hai detto alla presentazione de Il senso religioso mi ha chiarito un incontro che ho fatto. Quando facevo il liceo, c’è stata una persona che è stata decisiva per me, per l’umanità che aveva, per la vivacità umana che si portava addosso, per le cose che mi ha fatto capire, che mi ha fatto leggere. Poi è stata decisiva perché io mi accorgessi di Cristo quando L’ho incontrato. Io ho
incontrato il movimento e l’ho seguito, lui no. Mi ha fatto impressione che ci siamo rincontrati dopo quasi trent’anni, e io sono rimasta come ferita dal fatto che la sua umanità non era più quella di allora, si portava addosso come uno scetticismo che io non ho. E lui è rimasto così colpito da questo, come me, che a un certo punto mi ha detto: «Tu, perché sei cambiata, sei rimasta la stessa.
Io, perché non ho voluto cambiare, non sono più lo stesso». Questo è stato un incontro da cui io sono stata assolutamente commossa, perché mi sono accorta come non mai che il centuplo dell’incontro con Cristo è la mia umanità che resta fedele a se stessa, è la possibilità di non perdere me, è la voglia di vivere che mi ritrovo ancora addosso a cinquant’anni e che quelli della mia età hanno perso. E questo a me fa impressione, perché io mi accorgo che Cristo è contemporaneo perché fa vivere il cuore, non perché divento più buona. E viceversa, io mi accorgo che tratto Cristo come una cosa che so, come una cosa ovvia – Cristo non è più una presenza
contemporanea, ma un contenuto di cui parlo sempre e che non accade mai –, quando cerco la verifica della fede nella morale, cioè in quello che faccio e non in quello che sono.

«Perché sei cambiata, sei rimasta la stessa». Se siamo disponibili a questo cambiamento, rimaniamo con questa giovinezza che diceva Ada Negri: «Un’altra sei, più bella».

Volevo farti una domanda; tu hai già iniziato un po’ a rispondere, però mi rimane come obiezione e se non la faccio fuori con te, rimarrà. Volevo che tu chiarissi che cosa significa «una sequela intelligente e affettiva» del movimento. Mi accorgo nella mia esperienza, anche per quello che è stato detto, quanto sia fondamentale il fattore affettivo nel mio incontro con Cristo affinché questo rapporto non sia un semplice intellettualismo fatto di tante immagini o un’astrazione che non è in
grado di cambiare la vita, ma un rapporto reale che porta a fare esperienza di completezza. Mi vengono in mente tanti esempi, però taglio corto. Il problema è che io percepisco l’accadere di questa affezione come qualcosa che non è nelle mie mani, che non dipende da me; deve accadere questo fascino affettivo, ma io su questo accadere non ho nessuna responsabilità, posso svegliarmi la mattina e desiderarlo, ma che accada con il carattere e il tenore di realtà perché cambi la mia
esistenza tutti i giorni, questo non dipende da me. Ma allora ti domando: cosa vuol dire quando tu dici: «Se non vogliamo essere consenzienti con il potere dobbiamo seguire il movimento in modo intelligente e affettivo»? Io dico: questa affezione non dipende da me, vorrei…


Questa affezione dipende da te. Non dipende da te generare il fatto, ma riconoscerlo e aderire a quello che riconosci, sì. Non dipende da te trovare la ragazza a una festa in cui non pensavi di trovarla, ma quando la trovi e sei lì attaccato, non puoi venire via dallo stupore, tanto ti attira la sua bellezza. Il cedere a questa attrattiva, a questa sequela intelligente e affettiva: questo è tuo. Che lei ci sia, no; che tu aderisca a quell’attrattiva che il Signore ti mette davanti, sì. La questione allora è che noi sempre di più siamo educati a quel senso religioso che ci consente di cogliere la Sua presenza. Per esempio, questa sera hai sentito tante cose. Adesso io ti chiedo: che cosa vuol dire una sequela tua intelligente e affettiva oggi, davanti a quello che hai sentito? Dove L’hai riconosciuto presente, in che cosa hai riconosciuto la Sua contemporaneità, non come una parola: «Ma guarda,
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ma quello che ha detto questo qua è impossibile senza di Lui», e ti sei commosso? E questo da che cosa dipende? Non dipende dal fatto che non succeda, perché tutte queste cose che abbiamo sentito questa sera sono impossibili, come tu dicevi: è impossibile. Che accada non dipende da te, ma che uno sia in grado, sia disponibile, si renda conto di questo, dipende da quella semplicità di cui
parliamo. Io ti dico che la novità che sempre più percepisco nella mia vita è proprio questa, che di tante cose che succedevano davanti ai miei occhi, prima non mi rendevo conto, adesso è come un sobbalzo. Cosa vuol dire questa intelligenza che sa cogliere la Sua presenza nei piccoli gesti, e che gli interventi di stasera ci hanno testimoniato in molti modi? È quello che dice don Giussani di Giovanni e Andrea. Per noi l’intelligenza è qualcosa di complicato, tante volte è una ragione che spiega, invece don Giussani dice che il culmine della ragione è una ragione che si apre, tanto è vero che il problema dell’intelligenza è tutto lì, in Giovanni e Andrea. Questo è educarci al senso religioso. E tu ti educhi al senso religioso rispondendo con tutta la tua intelligenza e con tutta la tua affezione a quello che accade davanti ai tuoi occhi. E questo è tuo: come aderire, come seguire, come cedere all’attrattiva. Tu puoi tagliare: «Adesso no, perché mi complica la vita»; tu puoi tagliare o puoi cedere. Che tu ti senta attratto non dipende da te; ma cedere dipende da te. È facile, è facile, basta solo cedere, ma questo cedere è tuo. Questa è la tua grandezza, questa è la tua dignità, questa è la tua grandezza umana a cui il Mistero si piega, non vuole sorpassarti. Noi, allora, ci educhiamo non perché “pensiamo” al senso religioso, ma perché diventiamo sempre più semplici davanti a questo accadere, senza ma, senza però, senza bloccare l’attrattiva, ma cedendo costantemente alla Sua presenza.


Un aspetto che mi ha molto colpito rispetto a due settimane fa è quando tu ci hai fatto la proposta di rileggere Il senso religioso a partire dalla verifica della fede. Questo mi ha colpito perché, in tanti anni di vita nel movimento in cui ho fatto Il senso religioso in varie riprese, questo aspetto non l’avevo mai considerato, non ci avevo mai riflettuto, non l’avevo colto. Questa questione genera un dinamismo impressionante nella vita, perché provoca una verifica nella vita concreta della Sua presenza. Quella sera lì posso dire di aver fatto la stessa esperienza di Giovanni e Andrea in modo misteriosamente diverso, perché chi, quella sera, ha potuto parlarmi in un modo così corrispondente, in modo così amorevole, in modo così profondo, conoscendomi addirittura più di quel che io pensavo di conoscermi, se non la Sua presenza attraverso il carisma cioè attraverso lo
spazio che tu (io debbo dire di aver riconosciuto questo) hai lasciato quella sera alla Sua presenza? E questo ha generato nei giorni scorsi un ribollire del cuore e della vita, un modo diverso di guardare le circostanze, per esempio i miei colleghi di lavoro, che non sono tutti simpatici e con i quali c’è anche un contrasto, una lotta. Ma li ho guardati finalmente in modo familiare, perché costituiti della stessa cosa di cui sono costituito io. E, paradossalmente, la mia distrazione, di cui la mia giornata è piena, contro cui io lotto in continuazione ma producendo
poco, viene intaccata da questo fatto, e così inizio a poter guardare la realtà in un modo vero così come io, anche per effetto di questo limite, non riuscirei a guardare.

La stessa identica esperienza: perché se non fosse così, il cristianesimo non continuerebbe. Una cosa sarebbe quel che hanno avuto Giovanni e Andrea, e un’altra cosa quello che facciamo noi. Non potremmo verificare la fede, sarebbe un’altra cosa quella che staremmo qui a verificare, non la fede
cristiana così come si è rivelata nella storia.



Faccio il consulente informatico. Qualche mese fa sono andato in un ufficio e c’era un quadro che mi ha molto colpito: erano due pezzi di legno colorati in modo diverso, uno era azzurro, uno era verde, accostati l’uno all’altro, e la linea che formavano era verticale. A legare queste due forme c’era un laccio di scarpe, anche abbastanza lacero. Allora ho chiesto di chi era quel quadro e poi sono andato a conoscere il pittore, un signore che lavora nella ragioneria della stessa struttura. E lui mi ha detto che quelle erano due forme diverse, come il corpo e l’anima, il mare e la terra, e quel laccio era il suo tentativo di appiccicargli un significato, di legarli insieme. Allora la prima cosa che mi è venuta in mente è stato Congdon. Congdon da un certo momento incomincia a fare i
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quadri con una linea, ma questa linea è orizzontale e divide il cielo dalla terra, e quella linea lì che li divide e li unisce è Cristo. Mosso da questa cosa, gli ho regalato il libro su Ermanno lo storpio, appunto per dirgli che ciò che mi rende possibile la verità e la bellezza della vita è Cristo. Da lì ho desiderato che in ogni circostanza potessi entrare in rapporto con gli altri non nascondendo il mio
essere cristiano. Questa cosa mi fa venire in mente la frase di Alexis Carrel che c’è scritta nel primo capitolo del libro: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Osservare non è semplicemente vedere; molte volte il mio capo in ufficio mi dice: «Sei una rottura di scatole, perché quando vanno gli altri non ci sono problemi, quando vai tu ci sono». Probabilmente perché osservo troppo. Allora il
problema è: ma perché uno osserva troppo? Perché uno è mosso così? Ogni cosa – io lo faccio sulla contabilità – per me è come se dichiarasse questa bellezza; il fatto che una cosa sia storta, venga male, di fatto è una minore bellezza. La cosa di cui mi sto accorgendo è che l’unica cosa che può permettermi di mantenere viva questa osservazione è la preghiera. Però, molto spesso, ho in me sentimenti contrastanti rispetto alla preghiera (e li vedo anche nei miei amici), cioè sento la paura, la vergogna, a volte anche la rabbia: «Ma perché devo pregare Te?». Però capisco che
senza un rimanere aggrappato con le unghie e con i denti a quello, uno non….

In che cosa ti ha corretto la Scuola di comunità di stasera?

Che cosa mi ha corretto?
Come se niente fosse accaduto durante tutto il percorso di questa sera!
Il punto è che…
Tu, in quello che dici, stai partendo dal senso religioso o stai partendo dalla fede?
Cosa intendi dire?
Appunto. Rilancio la domanda, perché che cosa abbiamo detto che è quello che desta l’io? Un incontro, cioè la Sua presenza, capisci? E la domanda che dobbiamo fare è di riconoscerLo. Qual è l’origine della preghiera? Che noi siamo lì tutti tesi con questo desiderio, con questa domanda di riconoscere Lui all’opera, come Giovanni e Andrea. Questo è decisivo perché altrimenti, come dici tu, pregare è staccato dalla Sua presenza ora. La preghiera è domanda e supplica di questo, è
memoria, cioè riconoscimento della Sua presenza che ci ridesta ora. Per questo la forma in cui tu sei ridestato a lasciar cadere la cataratta è riconoscere quella presenza storica che è la risposta alla nostra preghiera che si chiama Cristo, contemporaneo qui e ora, il quale ti dà la possibilità di guardare tutto in un modo diverso. Chiaro? Grazie.
Abbiamo già cominciato a intravedere qual è la promessa del percorso che stiamo per incominciare.
La prossima volta cominciamo con la prima premessa: «Realismo». Con le tre premesse don Giussani ci fa capire quali sono i fattori decisivi di una vera conoscenza – come dicevamo adesso –, di un vero rapporto con il reale, in modo tale da conoscerlo, come diceva prima una persona: «Desidero tanto questa semplicità, questa apertura che mi consenta di cogliere il reale». E qual è il metodo che don Giussani ci propone? Lo possiamo dire sinteticamente: il cammino al vero è un’esperienza.
Il metodo che lui ci offre è l’esperienza, e noi dobbiamo essere consapevoli di questo perché di solito, come dice don Giussani, la maggior parte delle persone si affida, per rispondere alle preoccupazioni che ha, a quello che dicono gli altri: Aristotele, Platone, Kant. E noi possiamo aggiungere anche: don Giussani. Ma questo sarebbe contro il metodo imposto proprio da don Giussani, perché don Giussani ha detto ai ragazzi fin dalla prima ora di religione: «Non sono qui perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per
giudicare le cose che io vi dirò». Questa è l’impostazione, cioè il metodo che lui ci propone: l’esperienza. Immaginate che cosa significherebbe per ragazzi di sedici anni il fatto che un professore desse loro il metodo per giudicare perfino quello che lui stesso dirà! Nessuno fa questo.
Che esaltazione dell’umano e che certezza che quello che lui dirà sarà vero! Potranno riconoscerlo loro. Ma lo riconosceranno soltanto se useranno questo metodo, perché questo metodo non è “un” metodo tra gli altri, ma è “il” metodo, perché l’esperienza, come dice don Giussani, è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà. Per esempio, se
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dobbiamo capire che cos’è l’amore, il Signore non ci fa una lezione sull’amore, ci fa nascere in una famiglia o ci fa innamorare. Per farci capire che cos’è il risveglio dell’io, si fa carne, si fa incontrare, come abbiamo sentito oggi, perché altrimenti non avremmo saputo di che cosa stiamo parlando.
Per questo noi dobbiamo essere “feroci” – e vi giuro che io lo sarò – su questo metodo, perché altrimenti di venire qui a sentire i pensieri degli uni o degli altri o miei non ci interessa niente; ci interessa che ognuno che interviene racconti un’esperienza. Per questo, per poter fare un’esperienza occorre – come vedremo bene –un criterio che è il cuore, e quanto più sarà cosciente di queste esigenze ed evidenze originali, tanto più saprà giudicare, e questo giudicare sarà l’inizio di una liberazione, di una novità nella vita, perché cominceremo a capire.
Allora vi propongo una traccia per il lavoro di questi quindici giorni – perché non si potrà più intervenire se non ci si sottomette al metodo dell’esperienza –: quando avete fatto esperienza, quando vi è capitato di sorprendere questa liberazione in un giudizio? Don Giussani dice, infatti, che giudicare è l’inizio della liberazione.
Scuola di comunità. Si terrà mercoledì 23 febbraio alle ore 21.30 sul capitolo primo «Prima premessa. Realismo» (da p. 3 a p. 15).
Ricordo che la partecipazione a questa Scuola di comunità è totalmente libera, come ho detto sempre. Se ciascuno percepisce che c’è un altro luogo che lo facilita di più, deve seguirlo. In secondo luogo, questo incontro non sostituisce i gruppi già esistenti di ripresa della Scuola di comunità. Ripeto: questa è una proposta libera, ma tutti coloro che vogliono devono essere in grado di potervi partecipare.
In tutto il mondo in questo periodo verranno celebrate le Messe per il VI anniversario della morte di don Giussani e il XXIX del riconoscimento pontificio della Fraternità, riconoscimento incoraggiato e approvato da Giovanni Paolo II.
Quest’anno la gratitudine a Dio è ancora più grande per la beatificazione di Giovanni Paolo II, come ho scritto nella lettera a tutta la Fraternità ricordando anche il suo profondo legame con don Giussani. Nella lettera ho scritto – tra l’altro – che «non possiamo trovare un modo più adeguato di mostrare questa nostra riconoscenza che continuare a seguire il suo autorevole richiamo: “Non
permettete mai che nella vostra partecipazione alberghi il tarlo dell’abitudine, della ‘routine’, della vecchiaia! Rinnovate continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che è Cristo Signore!”».
Sul sito di CL potete trovare l’elenco delle città dove verranno celebrate le Messe. A Milano la Messa sarà celebrata dall’Arcivescovo lunedì 28 febbraio, alle ore 21, in Duomo.
Per il 1° maggio a Roma non abbiamo ancora notizie precise sugli orari e le modalità di svolgimento della beatificazione di Giovanni Paolo II. Non appena arriveranno ve le comunicheremo.
Siccome molti lo hanno chiesto, precisiamo che gli Esercizi della Fraternità si concluderanno in salone il sabato sera prima di cena. La partenza per Roma verrà poi decisa e organizzata in modo autonomo da ogni gruppo. Questo vale anche per gli adulti non presenti a Rimini, per gli universitari e per GS.
C’è un’importante variazione anche per quanto riguarda gli Esercizi degli adulti e giovani lavoratori. La nuova data degli Esercizi è 6-8 maggio e si terranno a RIMINI.
Ricordo anche che questi esercizi sono innanzitutto per le persone non iscritte alla Fraternità e possono essere l’occasione per invitare nuovi amici.
Preghiamo.
Veni Sancte Spiritus