giovedì 26 aprile 2012

Una vita è cristiana quando dà testimonianza

Un cattolico tranquillo è un controsenso.
In questi giorni alcuni fatti pubblici e privati mi hanno riproposto un problema. Come si valuta la presenza della fede nella vita di una persona? Che cosa misura agli occhi di un’altra persona la mia fede? Da un lato è evidente il fatto che i comportamenti di ciascuno di noi creano spesso scandalo, opacità agli occhi di tanti. Tanto più se si tratta di comportamenti pubblici o privati ma di persone (poco o tanto) note in pubblico. Capita a me, credo di non essere il solo. E dall’altra parte capita pure di sentire persone che incontrandoti o vedendo qualcosa fatto da te - un gesto, una parola - abbiano fatto un piccolo o grande pezzo di strada nel riconoscimento di Gesù. Mi tremano i polsi a pensarci. Come se la riconoscibilità di Dio nel mondo dipendesse non solo dai segni che Lui ha disseminato, ma anche da quelli che compio io. Lo dice un grande poeta come Péguy: Dio si è messo nelle mani del peccatore. Come un amante, Lui attende da noi d’esser riconosciuto, e fatto conoscere. Dall’altro lato è chiaro che, in modo strumentale, un certo mondo culturale attizza o cavalca ciclicamente polemiche per ispirare diffidenza verso i cattolici. Per queste forze che manovrano mezzi di comunicazione, che si riconoscono in esplicite o occulte appartenenze, e che hanno interessi materiali e culturali cospicui, il cattolico è un ingovernabile, risponde a qualcosa che non coincide solo con le loro logiche di potere e appartenenza. Per queste forze, l’unico cattolico buono è quello che se ne sta tra sacrestia e opere di bene, che non dà fastidio, non sporca e, come diceva una pubblicità, pulisce anche il bagno. A un cattolico cosi non mancano encomi pubblici. Ma se un cristiano mostra in ambito culturale o sociale un criterio originale di giudizio e azione che non proviene da filantropie o ideologie approvate dal potere dominante, in un certo momento scatta il dissidio, la diffidenza, quando non la sottile persecuzione. La vicenda italiana - del passato e del presente - è piena di esempi. Molti santi hanno attraversato polemiche e discussioni feroci sulla loro persona e il loro operato. Per un cristiano la testimonianza in ambito personale e pubblico resta il dramma e la festa della vita intera, fino all’ultimo secondo. Fino all’ultimo respiro, come mostra Dante, ci si gioca l’anima. E anche un cattolico tranquillamente accettato in ambienti che - come appare evidente - sono modellati su una idea di mondo come se Dio non ci fosse, e come se di Cristo non ci fosse né bisogno né domanda, sarebbe forse un cattolico più tisana che sale. Ma allora, come valutare la fede e la sua "influenza" nella vita personale e pubblica? L’errore sta nel considerate il termine cattolico o cristiano aggettivi come un altro. Come se identificassero un tipo di appartenenza simile a quella che vengono indicate con un altro tipo di aggettivi. Come se esser cristiano fosse più o meno lo stesso genere di esperienza che essere, che so, italiano, o comunista o democristiano. Invece no, c’è una differenza sostanziale. Essere cristiani non significa avere un aggettivo. Si è cristiani in quanto si "indica" Gesù, lo si testimonia, non con la presunzione o subendo il ricatto d’essere perfetti Se no basteremmo noi, e di Lui che bisogno ci sarebbe? Si indica Gesù persino con la coscienza d’esser peccatori e come hanno mostrato con grandezza e passione gli ultimi Papi senza aver scandalo del male, cercando la correzione, e chiedendo perdono. Per questo la preghiera - come gesto e atteggiamento continuo, personale culturale e sociale - continua a scandalizzare. Perché altri (tra cui noi stessi) vorrebbero essere i Signori della vita. di Davide Rondoni, da Avvenire

Una fede per vivere

Basta guardare i volti. Al ritorno dal ritiro di Rimini, basta guardare i volti e ascoltare i brevi racconti che le persone si scambiano; parlano come chi ha incontrato il Signore e ha camminato con Lui lungo la via; alla fine, come i discepoli di Emmaus, hanno ricevuto la conferma e il conforto degli apostoli. Nella celebrazione eucaristica conclusiva del ritiro, il cardinale Ouellet, prefetto della Congregazione dei vescovi, ha riferito della viva attenzione di Papa Benedetto verso don Giussani e il suo carisma; c'è stato un commosso abbraccio tra il cardinale e don Carron. Un nuovo segno della viva partecipazione della Fraternità di Comunione e Liberazione alla vicenda della Chiesa di Dio nel mondo di oggi. Nei due intensissimi giorni degli esercizi spirituali, che hanno raccolto 25mila persone nei padiglioni della Fiera di Rimini, don Julian Carron, indicato da don Giussani stesso come successore, ha testimoniato con vigore e chiarezza il carisma del movimento. Sullo sfondo si percepiva il dramma della crisi economica e culturale che ci prende tutti, e anche la sofferenza per recenti avvenimenti nei quali si trovano coinvolte alcune persone del movimento impegnate nel mondo politico e imprenditoriale, con accuse che mirano a stravolgere anche la fisionomia e la storia di Cl. Una vicenda nella quale il potere, con un moralismo spietato e giustizialista, pretende di stritolare nello scetticismo e nel nichilismo l'avvenimento cristiano. Carron cita Giussani: in tutte le circostanze e contingenze della vita del mondo e della storia, quello che conta e da cui sempre si può partire, quello che sostiene la verità, ha un luogo che si chiama persona; è il soggetto, che si chiama io, e quanto più i tempi sono duri, tanto più è il soggetto, è la persona che conta. Una persona non abbandonata nella sua solitudine, ma affidata a un'appartenenza a Dio, reso visibile nell'incarnazione del Figlio Gesù e presente nella storia cristiana. Il cristianesimo è la risposta umanamente compiuta alle esigenze del cuore umano, come aveva sperimentato per la propria vita lo stesso don Giussani; da giovane seminarista ebbe la ventura di scoprire Gesù incarnato e vivo attraverso l'insegnamento di don Gaetano Corti, che gli fece balenare davanti agli occhi e al cuore la bellezza e la grandezza del Verbo fatto carne. ? «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», stava scritto sul fondo del salone della fiera. Colui al quale guardare, verso il quale, in tutte le vicende, dobbiamo volgere lo sguardo, è Cristo, il Verbo fatto carne che abbraccia tutte le cose. L'incontro con Cristo nostro contemporaneo non fa sparire l'io ma lo fa emergere nel suo vero compimento; la condizione umana è lo spazio che domanda di essere abitato dalla sua Presenza. Nel grande silenzio della fiera, reso più intenso ed evocativo della Sua Presenza attraverso le immagini, musiche, i canti, la preghiera e le liturgie, l'annuncio dell'avvenimento cristiano è risuonato nuovo per la sua verità esistenziale, come per un nuovo inizio. Partecipiamo a un avvenimento grande che prende dentro la nostra storia umana. Le persone lo testimoniano. «Lascia che il mondo rida di te, se la tua vita cambiarlo potrà», erano le parole di un canto proposto la prima sera del ritiro. I cristiani possono essere peccatori, come in tutti i tempi della storia della Chiesa; o possono venire perseguitati, come ancora oggi accade. Cristo permane come attrattiva e come fattore di verità e di giustizia, e continuamente risana ogni ferita con la Sua sconfinata misericordia. Il carisma riproposto da don Carron conduce ancor oggi a riconoscere Gesù Cristo presente qui ed ora, a chiedergli con umile certezza che l'inizio di ogni giornata sia un sì al Signore che ci abbraccia e rende fertile il terreno del nostro cuore, come diceva una preghiera consegnata alla fine del ritiro. L'energia e la grandezza del Signore Gesù permangono dentro tutte le condizioni del vivere, come una testimonianza che non a noi, ma a Lui dà gloria. Le venticinquemila persone nella Fiera di Rimini e altre migliaia nel mondo si sono percepite accompagnate al Destino sulla scia del carisma di don Luigi Giussani, del quale è stata introdotta recentemente la causa di beatificazione. La santità genera sempre nuovi frutti di vita. Solo lo stupore li sa riconoscere. di Angelo Busetto26-04-2012 -http://www.labussolaquotidiana.it

lunedì 23 aprile 2012

"Non vivo più io, ma Cristo vive in me"

Da questi esercizi spirituali della fraternità di CL ho avuto la conferma che solo Cristo dà senso a tutto nella mia vita, di tenere fisso lo sguardo della vita e del cuore verso Cristo. Mi è ancora più chiaro che il cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, ma che il cristianesimo è un incontro, una storia di amore, è un avvenimento. Questo innamoramento in Cristo, questa storia di amore desidero che sia di tutta la mia vita ; vedendo realmente la Presenza , di saperlo incontrare attraverso la sequela al carisma. Questo incontro è la strada, un cammino che attraversa anche il buio anche nella passione,nella sofferenza è il Risorto e mi dà la vera luce,la forza, la gioia sapendo che "Lui è con me". Cristo non è riducibile alla mia misura , Cristo è la misura di tutto, il maestro non lo scelgo io ma lo riconosco dalla sua irriducibilità. Senza Dio non si costruisce niente di buono e che Dio rimane enigmatico, astratto se non riconosciuto nel volto di Cristo. Chiedo per me, le persone care e gli amici la grazia di avere al semplicità del cuore e l’umiltà, che è la condizione indispensabile, per seguire la strada.

venerdì 6 aprile 2012

Riflessione sul significato della Croce e della Risurrezione di Cristo

Venuto mezzogiorno,
si fece buio su tutta la terra,
fino alle tre del pomeriggio.
Alle tre Gesù gridò con voce forte:
Eloì , Eloì , lema sabactà ni?,
che significa:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?...
Ed egli, dando un forte grido, spirò ...
Allora il centurione che gli stava di fronte,
vistolo spirare in quel modo, disse:
" Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!".

Dal Vangelo secondo Marco. 15, 33-34. 37. 39




La Pasqua, facendo memoria della croce e risurrezione di Cristo, può essere occasione per richiamare a noi e a tutti il valore di alcune parole che segnano il nostro cammino cristiano.
Ci anima un amore alla nostra umanità, cioè a quell'attesa di compimento che ha ogni uomo: si tratta di riconoscere lo scopo dell'esistente e della storia, con le loro croci e le loro risurrezioni. Per questo vogliamo sviluppare il percorso dei termini che usiamo.

1) Secondo una certa ispirazione biblica definiamo volentieri con la parola «cuore» quelle esigenze originali in base alle quali l'impatto con la realtà viene criticamente appurato e la cui soddisfazione giustificherebbe la verità della proposta.
Così è sintetizzabile il dinamismo della ragione: come coscienza della realtà emergente nell'esperienza secondo la totalità dei suoi fattori.
Meno della totalità non c'è ragione, onorando noi la ragione come indispensabile strumento dell'io.
Lo sviluppo della dinamica della ragione si chiama cultura, cioè coscienza critica e sistematica dell'esperienza: il termine «critica» riferisce l'esperienza ad un punto supremo - totalità, abbiamo detto -; «sistematica» riferisce l'esperienza alla coerenza ideale nella storia e nel tempo. La più bella definizione di critica l'abbiamo comunque trovata nella Prima Lettera ai Tessalonicesi (5,21): «Panta dokimazete to kalon katechete». Vagliate ogni cosa e trattenete il valore.
In qualunque atto della ragione, elencati tutti gli identificabili fattori, c'è un punto, un soffio, un'apertura, un punto di fuga imprevisto - come riconosce Montale: «Un imprevisto è la sola speranza», o Kafka: «Esiste un punto d'arrivo» -, per cui ogni esperienza che la ragione giudichi rimanda a una plaga misteriosa, a una realtà di Mistero: Dio.
Non può la ragione pretendere di conoscerne anche solo un pezzetto, ma unicamente di avvicinarsi al suo calore fontale e alla sua luce originale attraverso insoddisfatte approssimazioni analogiche.
Il Mistero si fa conoscere solo svelandosi, prendendo lui iniziativa nel collocarsi come fattore dell'esperienza umana, quando e come vuole. Ciò è supremamente atteso dalla ragione.
A noi sembra che negare la possibilità di registrare questo sorprendente disvelarsi del Mistero nell'esperienza, è rinnegare la ragione come categoria della possibilità, cioè come rapporto con l'Infinito, appunto con l'esistenza del Mistero tenebrosamente, ma sicuramente registrata.

2) C'è un avvenimento, un fatto assolutamente originale eppur accaduto: un uomo si è detto Dio. Dio ha voluto rendersi familiare all'uomo - con tenerezza - come suo compagno di cammino verso il destino per cui l'ha creato, redimendone le debolezze, anche le più sproporzionate all'ideale.
Questo avvenimento implica la fondamentale assunzione della promessa fatta profeticamente al popolo ebraico, e suo adempimento, cioè il compiersi della profezia come fatto della storia.
Di fronte alla storia ebraica non c'è vibrazione di coscienza umana più simpatetica e più umile - quasi domandasse scusa della sua certezza, a chi ha portato «pondus diei et aestus», cioè ha portato tutto il peso della storia precedente -, e più pacifica nell'affermare il già avvenuto compimento per tutto l'universo nell'ebreo Gesù di Nazareth morto e risorto.
Che Cristo sia Dio non è un reperto della ragione, ma reperto della ragione è l'incontro con un'umanità presente, eccezionale rispetto a tutte le altre, senza paragone corrispondente alle esigenze del cuore. «Chi è questo uomo?», dicono gli amici e i critici intenditori. La risposta sconcertante e imprevedibile è accettata per l'evidenza di verità e la sicurezza di fiducia senza paragoni introdotte dalla convivenza con Lui e giudicate secondo gli ideali della ragione. «Io sono il Verbo di Dio che ha bussato alla casa dell'uomo per esservi ospitato, anzi per esserne parte».
Sant'Agostino dice: «Quid fortius desiderat anima quam veritatem?»; domanda e risposta sono nell'altro antico aforisma: «Quid est veritas? Vir qui adest».

3) Il realismo della presenza di Cristo assume nel tempo la forma di una compagnia che si motiva interamente come fede in Lui. Lui è la verità e la vita. È la Chiesa, segno in cui c'è la presenza personale Sua, metafisicamente «corpo mistico» e nella storia «popolo» - Paolo VI parlò di una «entità etnica sui generis» -, segno comunitario e storico, la Sua presenza in noi in ogni momento del tempo. Fine della storia è lo svelarsi del valore assoluto della Sua presenza, contingente nella Palestina, e coestesa per energia dello Spirito a tutto il tempo della Chiesa.

4) Moralità non sono leggi di dinamismi più o meno scientificamente scoperti nelle mosse del divenire umano dall'analisi razionale, ma l'attrattiva scoperta e ragionevolmente riconosciuta di fronte a quella presenza eccezionale cui si aderisce, si ama nella semplicità (originalità) del cuore, a cui si riferisce l'adesione tentativamente realizzata nell'atto - «Sì, io ti amo», di san Pietro -, imitandola, cioè seguendone la modalità di attuazione esistenziale.
Si tratta della caratteristica dello sforzo umano dall'interno di una debolezza originale, la cui abituale incoerenza è perdonata, cioè ridotata nell'amore di una capacità di ripresa continua.
Moralità è l'intensità e la tensione di questa ripresa.

5) La compagnia cristiana e l'oggi del mondo.
La festa della Pasqua e tutte le feste cristiane sono la iniziale ma certa, provvisoria ma autentica, esperienza della promessa antica.
L'essenza del tempo, cristianamente parlando, è festiva per la presenza di un compagno con il quale qualsiasi avventura di lavoro è possibile, indizio certo di un'immagine ultima compiuta; e con il quale qualsiasi parzialità ed estraneità è investita di una tensione unificante che organizza i caratteri della personale esistenza in capacità di rapporto con tutti gli altri uomini chiamati all'opera di Dio, e quindi introduce un volto di socialità compiuta.
Il nostro cuore è invaso dall'immagine creata da Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio adveniente: «Il tempo in realtà si è compiuto per il fatto stesso che Dio, con l'Incarnazione, si è calato dentro la storia dell'uomo. L'eternità è entrata nel tempo: quale "compimento" più grande di questo? Quale altro "compimento" sarebbe possibile?».

6) In questa fede si sviluppa la speranza per cui qualsiasi tentativo umano di liberazione, personale o collettivo, è onorato e consacrato nella sua positività eterna, come veicolo profetico che tiene desta un'attesa di totalità che si manifesterà alla fine della storia. «È giunta l'ora. Padre, glorifica il figlio tuo, come il figlio tuo ha glorificato te».
Questa speranza escatologica genera un'attività che tende all'incontro con ogni presenza umana così impegnata (ecumenismo) e, data l'approssimazione inevitabile di ogni costruzione poeticamente consistente, affaccia ad ogni morte - cioè ad ogni termine - la misericordiosa vittoria del bene.
Così l'amore è possibile anche col nemico, col tiranno, per la carità dell'Ultimo e per l'Ultimo, come passione di offerta al Divino, anche quando essa non è consapevole, di tutte le fatiche umane.
LUIGI GIUSSANI
L'Osservatore Romano, 6 aprile 1996

martedì 3 aprile 2012

L'autocoscienza, il punto della riscossa - di Julián Carrón



La Pagina Uno di "Tracce" di aprile: appunti dall'Assemblea con i Responsabili di Comunione e Liberazione in Italia. Pacengo di Lazise - Verona, 4 marzo 2012





Quale aiuto riceveremmo ogni mattina per affrontare le difficoltà e le sfide che abbiamo davanti, se fossimo con tutto il nostro io, con tutto il nostro bisogno, con tutta la consapevolezza del dramma, qualunque fosse, davanti alla preghiera che ci ha appena fatto recitare la Chiesa! Sarebbe già la prima vittoria sul nostro smarrimento, di qualunque natura fosse: «Dio è per noi rifugio e forza, aiuto sempre vicino nelle angosce. / Perciò non temiamo se trema la terra, se crollano i monti nel fondo del mare. / Fremano, si gonfino le sue acque, tremino i monti per i suoi flutti. / Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio, la santa dimora dell’Altissimo. / Dio sta in essa: non potrà vacillare; la soccorrerà Dio, prima del mattino. [...] / Il Signore degli eserciti è con noi, nostro rifugio è il Dio di Giacobbe» («Salmo 45 delle Lodi della domenica», in Il libro delle ore, Jaca Book, Milano 2006, pp. 52-53).
Che esperienza deve vivere un uomo per dire questo! Non è che gli venga risparmiato qualcosa della vita, non è che non veda tremare tutto, ma che razza di consistenza dà alla vita questa consapevolezza, per potere sfidare tutto con questa certezza: «Dio è per noi rifugio e forza...».
È la stessa cosa che ci dice don Giussani in un testo che, per caso, ho trovato di recente: «Quando infatti la morsa di una società avversa si stringe attorno a noi fino a minacciare la vivacità di una nostra espressione e quando una egemonia culturale e sociale tende a penetrare il cuore, aizzando le già naturali incertezze...». Prima di continuare a leggere mi piacerebbe sapere come finiremmo noi la frase: davanti a una simile situazione a che cosa ci appelleremmo, che cosa ci viene in mente, dove metteremmo la consistenza, dove troveremmo un aiuto? Di nuovo don Giussani ci stupisce: quando questo succede, «allora è venuto il tempo della persona» (L. Giussani, «È venuto il tempo della persona», a cura di L. Cioni, Litterae Communionis CL, n. 1/1977, p. 11). E che cosa è la persona? Dov’è la sua consistenza? «Ciò che urge affinché la persona sia, affinché il soggetto umano abbia vigore in questa situazione in cui tutto è strappato dal tronco per farne foglie secche è l’autocoscienza, una percezione chiara ed amorosa di sé, carica della consapevolezza del proprio destino e dunque capace di affezione a sé vera, liberata dall’ottusità istintiva dell’amor proprio. Se smarriamo questa identità nulla ci giova» (Ibidem, p. 12).
Don Giussani esplicita come emerge questa autocoscienza: «Troviamo la legge dell’autocoscienza, analogicamente, dentro l’esperienza psicologica dell’uomo: si riconosce e si ama la propria identità riconoscendo ed amando un altro. Nella storia psicologica di una persona, sorgente della capacità affettiva è una persona così riconosciuta da essere accolta e ospitata. Per il bambino questa presenza è quella della madre, tanto che, se manca questo, la sorgente affettiva rimane arida. Ma ad un certo punto questo segno naturale non basta più, perché il soggetto si è evoluto verso la giovinezza che si arruffa e mostra le caratteristiche dell’assenza di affezione: nella giovinezza confusa, smarrita, scomposta e pretenziosa, è venuto il momento dell’Altro [con la A maiuscola], vero, permanente, di cui si è costituiti, della presenza inesorabile e senza volto, ineffabile [misterioso]. La giovinezza è il tempo del Tu [con la maiuscola] in cui il cuore affonda [...] come in un abisso, è il tempo di Dio». Allora è il contenuto di questa autocoscienza che rende la nostra presenza consistente, la nostra persona consistente.

Qual è il contenuto di questa autocoscienza, qual era il contenuto dell’autocoscienza del salmista? Questa presenza del Tu è la presenza «che deve essere riconosciuta, accolta ed amata; altrimenti l’identità scompare [...]. È nella giovinezza che sorge la drammaticità della vita; [perché] la drammaticità
della vita consiste nella lotta tra la pretesa affermazione di sé come criterio della dinamica del vivere e il riconoscimento di questa Presenza misteriosa e penetrante». Per questo «il fenomeno che permette alla personalità di esprimersi è l’iniziativa». Quale tipo di iniziativa? «L’iniziativa che documenta l’inizio di una identità cristiana vera [...]: il desiderio della memoria di Cristo, il desiderio della consapevolezza di Lui, della Sua presenza» (Ivi). È questa lotta che occorre tra di noi, in noi, in ciascuno di noi: se mettiamo la nostra consistenza in qualcosa di creato da noi, in un’affermazione ultima di noi stessi, di un’immagine nostra, di un progetto nostro, di un tentativo nostro, con tutta la sua inconsistenza, o nel riconoscimento di questa Presenza. Non ci sono alternative, e più la vita va avanti, più uno decide, più uno si trova in una posizione o nell’altra.
«Avere il coraggio di affermare che il problema fondamentale è rendere abituale il desiderio del Suo ricordo, [della Sua memoria,] la coscienza della Sua Presenza non può non giungere a noi come la pretesa di qualcosa di astratto [come centra la questione!], che si aggiunge o che si sovrappone ai problemi avvertiti come più pressanti e concreti ». Infatti qui sta la nostra resistenza. Per questo, «il desiderio di ricordo di Cristo matura come storia in noi, cresce non automaticamente ma, come cresce ogni nostra capacità, seguendo qualcuno». E siccome «il progetto della nostra maturità non lo possiamo avere noi, così non possiamo scegliere noi il maestro, dobbiamo solo riconoscerlo. Il maestro da seguire ce lo ha dato il Signore, ce lo ha collocato il Signore dentro la strada su cui ci ha messo, sulla via che stiamo percorrendo. Scegliere il maestro noi stessi vorrebbe dire scegliere qualcuno che ci fa comodo, scegliere qualcuno che risponde al nostro gusto, al nostro desiderio di veder assecondato il nostro progetto. Seguire vuol dire immedesimarsi con i criteri del maestro, con i suoi valori, con ciò che ci comunica, non legarsi alla persona che in sé è effimera. In questa sequela si nasconde e vive la sequela di Cristo. Non l’attaccamento alla persona, ma la sequela a Cristo è la ragione della sequela tra noi. A questa magisterialità - conclude don Giussani - deve tendere l’amicizia tra noi, poiché vero amico è colui che, nella discrezione e nel rispetto, aiuta l’altro verso il suo destino» (Ivi).

Questa è la decisione che ciascuno deve prendere, e la richiesta di avvio della causa di canonizzazione di don Giussani è una nuova occasione, decisiva, che ci sfida nel presente: vogliamo seguire questo, vogliamo seguire quello che don Giussani ci ha proposto, siamo disponibili a quello che abbiamo appena ascoltato, cioè a fare un cammino dove noi, seguendolo, ci immedesimiamo con i criteri suoi? Perché quando vediamo questo accadere, nel tentativo che stiamo facendo, osserviamo - come la giornata di ieri ha documentato palesemente - l’emergere di un soggetto nuovo, che diventa una presenza. Tutta la giornata di ieri, le due assemblee, è stata la documentazione di questa presenza secondo tutte le diverse modalità con cui è apparsa nei tanti che hanno parlato e nei dialoghi fra di voi o tra di noi e con coloro che non sono potuti intervenire. E perché? Perché questa ricchezza di presenza? Soltanto per la certezza di quello che ha appena detto don Giussani, che per tante persone diventa sempre di più l’autocoscienza che consente loro di stare nel reale libere, libere dalle circostanze
e nelle circostanze, non fuori dalle circostanze, ma negli ambienti, libere anche dagli attacchi (perché l’unica cosa che non è apparsa ieri è la pesantezza per le accuse, non sono quasi apparsi segni di questo); libere, quindi, dalla dipendenza dal potere, qualunque sia la modalità in cui si esprime. Mi stupisce che questa certezza non coincide e non dipende dall’avere in mano un potere, perché il Signore può non darlo. La storia del popolo d’Israele è bellissima da questo punto di vista, perché nell’antichità la divinità e il potere erano così legati che quando un popolo perdeva il potere questo segnava anche la fine della divinità, tranne una eccezione: il popolo d’Israele. Il Dio
d’Israele può permettere che il suo popolo sia sconfitto, può mandarlo in esilio e tuttavia continuare a essere il suo Dio. Il Dio d’Israele e la consistenza del popolo non sono legati ad alcun potere, anzi, Dio può consentirne la perdita per purificare il popolo, come dicono i profeti, perché Israele acquisti una sua consistenza al di là di qualsiasi evento storico. Perché Dio vuole generare una creatura, un soggetto talmente nuovo, con una tale consistenza che qualsiasi siano i giri della storia possa rimanere, avendo una roccia su cui poggiare. Qual è questa roccia? Qual è il contenuto di questa autocoscienza che diventa la roccia, se non Lui? E non soltanto Dio non lo ha risparmiato al Suo popolo, ma neanche a Suo Figlio: può ferire il pastore e le pecore si disperdono, ma per riprenderle di nuovo, per la vittoria definitiva di Cristo. Perciò capisco bene perché don Giussani dice che in questo momento è venuto il tempo della persona; chiede infatti a ciascuno di noi, a te, a me: dov’è la tua consistenza? Dove la poni? Se noi non siamo liberi dalle circostanze, faremo parte del problema, non della soluzione.
Invece vediamo che, proprio in questo tornante della storia in cui tanti sono smarriti, possiamo - pur zoppicando, con tutti i nostri limiti che conosciamo benissimo - essere una presenza, che tanti riconoscono e a cui si rivolgono, come accadeva al popolo d’Israele, quando le persone volevano attaccarsi al suo mantello per camminare con esso, non perché Israele avesse alcun potere, ma perché aveva quello che consente di vivere la vita. E
proprio una presenza così, non dipendente da niente se non da Lui, ci rende aperti al bisogno, come abbiamo visto, qualsiasi sia la natura di questo bisogno, da quello dei futuri insegnanti a quello di chi ha perso il lavoro, non ha speranza o vive nella crisi. Questo dimostra qual è la natura del bisogno di fronte al quale ci troviamo a vivere, che arriva fino al bisogno di una speranza per continuare a vivere. Per questo soltanto se noi facciamo questa esperienza, possiamo trovare una risposta al nostro bisogno, e quindi possiamo porre nella società una risposta al bisogno degli altri, cioè un luogo dove il nulla sia vinto, una compagnia che sia vera compagnia, un’amicizia che sia vera amicizia al destino.

Solo una comunità così è incidente nella storia, perché - come diceva Giussani - quando «la realtà della fede investe l’uomo», investe «tutte le espressioni della sua realtà personale, [...] nel senso che investe la totalità della persona, quindi muta il soggetto» (L. Giussani, «La fede è chiarezza, coerenza e (anche) grazia», intervista a cura di F. Dante, La nostra assemblea, Comunità di S. Egidio, n. 9-10 gennaio 1978), e quindi qualifica l’azione di questo soggetto nella storia. Questa è la prima questione, il dramma davanti al quale è ciascuno di noi.
«In secondo luogo la fede vissuta, e perciò una comunionalità ecclesiale, vissuta là dove l’uomo vive, nell’ambiente, [...] perché l’ambiente per noi è la realtà della vita della persona in quanto investita e coinvolta e tentativamente utilizzata ai propri fini dal potere sociale [...]. Una comunionalità vissuta nel proprio ambiente realizza una presenza che se è reale, cioè una presenza vissuta, non può non percepirsi, sentirsi e volersi immersa nei problemi che costituiscono il tessuto della vita dell’ambiente; perché un ambiente umano è intessuto di problemi. In tal senso c’è un’inevitabile incidenza politica realizzata dalla pura presenza di un fatto cristiano, o anche di una persona cristiana. Dico spesso - continua don Giussani - che la comunionalità è una dimensione di una persona, non necessariamente una aggregazione hic et nunc di individui. [...] La comunionalità, se è dimensione della persona, è essenziale alla presenza cristiana dovunque la persona sia; perciò se è da sola vivrà questa coscienza come aspetto e contesto del modo con cui percepisce se stessa e la propria responsabilità, se ce ne sono altre, espliciterà questa comunionalità nell’unità fraterna con queste» (Ivi), ma ogni persona che vive questa consapevolezza ha la comunione dentro l’autocoscienza di sé, esprime questa comunione come coscienza di sé.
Pertanto, quando viviamo questa autocoscienza nel reale, nell’ambiente, come abbiamo visto negli interventi di ieri, noi diventiamo un fattore della vita sociale, e questo è il livello che tocca a noi, che tocca alla comunità cristiana, cioè a noi come presenza del movimento nel reale. C’è poi, «nell’accezione più stretta, politica, [...] il tentativo di immaginare, di realizzare strutture sociali, strutture della convivenza, più giuste, che esprimano di più
l’umano»: a questo livello politico in senso stretto corrisponde la responsabilità dell’individuo che decide vocazionalmente di entrare in politica. «Il nostro compito [di comunità cristiana] è quello di formare alla fede delle persone, attraverso una vita di comunionalità vissuta, che [...] non può non impegnarsi anche sui problemi dell’ambiente» (Ivi).
Tornare a casa dopo questi giorni, dopo quello che abbiamo visto, con questa consapevolezza è ciò che ci renderà sempre più presenti, nella misura in cui crescerà l’autocoscienza, cioè la potenza della persona dal di dentro di un’appartenenza a Cristo nella Chiesa, nel movimento. Come dice Giussani, quando cresce l’autocoscienza che poggia sull’unico fondamento che resiste a qualsiasi circostanza, noi acquistiamo quella consistenza che ci consente di stare nel reale.
La nostra amicizia è l’aiuto a crescere in questa autocoscienza, perché senza di questo noi non potremo dare alcun contributo, e finiremmo travolti dal torrente della confusione, col potere o senza il potere nelle nostre mani.