lunedì 30 settembre 2013

«Serve un cambiamento del cuore, un’accoglienza aperta a tutti»

scola malgrate

Tra il lago e la catena ininterrotta dei monti manzoniani, il cielo è grigio, a tratti piove, ma nel raccolto sagrato della piccola, deliziosa chiesa di San Leonardo, resa celebre dagli interventi di inizio ottocento dell’architetto Giuseppe Bovara, i fedeli si affollano, attendono il cardinale Scola, che qui a Malgrate non solo celebra l’Eucaristia, incontrando i sacerdoti del decanato di Lecco, ma ritorna nel suo paese natale.

La breve processione, i 12 Kyrie della solenne liturgia ambrosiana, il saluto affettuoso dell'amministratore parrocchiale don Andrea Lotterio, la comunità malgratese tutta raccolta per l’occasione, la presenza del sindaco Codega e del prefetto di Lecco, Bellomo, del questore Francini e del comandante dei carabinieri, Italiano, sottolineano un momento evidentemente attesissimo, ma vissuto – lo nota l’Arcivescovo – «come in famiglia».
«Grazie di essere con noi, Eminenza, chiamati come siamo a camminare insieme sulla via della giustizia e della misericordia», dice, da parte sua, l'amministratore parrocchiale, il cui predecessore don Luciano Capra è oggi il segretario del Cardinale.
Quasi una risposta “del cuore”, le parole del Cardinale all’inizio dell’omelia: «Carissimi è sempre un’emozione per me tornare al nostro bellissimo paese. Con il cuore colmo di gioia entro in questa amata chiesa che ho frequentato fino ai 18 anni». Il pensiero va anche ai due anni quasi esatti dall’ingresso a Milano come Arcivescovo, «Sono molto consolato, quando visito la diocesi perché vedo ovunque l’impegno assiduo e generoso del clero e la partecipazione di tanta gente, ma continuate a sostenermi nella preghiera».
E prende avvio dall’Epistola ai Romani la riflessione con quell’accoglietevi “gli uni, gli altri” che già indica per intero la strada dell’apertura agli altri. «La vita dell’uomo si gioca nelle relazioni, cominciando dai rapporti primari che potremmo dire costitutivi e che ci insegnano l’accoglienza».
Uno ‘stile’ che deve caratterizzare i credenti, ma che non è automatico e scontato, specie se si considera che in paesi come Malgrate su circa 4200 abitanti, l’11% è oggi extracomunitario. «Anche noi dobbiamo imparare ad accogliere in questo meticciato di etnie e religioni, cui tutto il modo deve fa fronte», nella consapevolezza della «novità rivoluzionaria del cristianesimo contenuta nel Vangelo che è espressione della presenza di Gesù tra di noi, quando il Signore dice “Amate i vostri nemici pregate per i persecutori, non giudicate…”.
«Pensiamo ai nostri rapporti quotidiani – prosegue l’Arcivescovo –, alla facilità con la quale esprimiamo giudizi, dimenticando che il giudizio è di Dio e verrà solo alla fine. È necessario un cambiamento del cuore e proprio per questo ho voluto lanciare la proposta pastorale “Il campo è il mondo”, perché chi è toccato da Gesù va incontro a tutti persino ai nemici. Fatevi portatori di questo spirito di apertura e di accoglienza a 360gradi con il criterio con cui Gesù stesso si è aperto a noi. Il luogo dell’accoglienza sia oggi la comunità cristiana».
Dunque, un “salto di qualità” in un momento di passaggio complesso che diviene anche un invito alla concretezza. «Dobbiamo essere realisti – conclude il Cardinale –, non basta più la convenzione, ma ci vuole convinzione in ciò che facciamo. Non si imparano la perseveranza e la misericordia se non si approfondiscono le ragioni della fede, le ragioni che ci fanno vedere la bellezza, la bontà, la verità dell’essere cristiano. Questa speranza e ciò che vi lascio: coinvolgiamoci per donare la nostra persona perché solo se doniamo la vita la ritroviamo».
E, infine, c’è ancora tempo per un “grazie” e per una breve sottolineatura di scelte, magari semplici, ma assai significative, realizzate a Malgrate, come quella di ritrovarsi mensilmente tra famiglie presso l’oratorio «perché l’oratorio non è solo per i piccoli e i giovani, ma è uno spazio educativo che può servire a tutti, anche a chi non frequenta la chiesa». Un altro modo per dire “il campo è il mondo” e, infatti, nel periodo estivo, si sono aperte le porte dell’oratorio anche agli extracomunitari.

Luigi Giussani raccontato da un curioso: «Non mi sarei mai aspettato di trovarmi di fronte a un poeta».

giussani-politica-jpeg-crop_displayDa ragazzi si fanno forse le scelte più spontanee e più giuste. Ci s’incontra per istinto. Alcuni degli amici che avevo alla fine degli anni Sessanta, quand’ero quindicenne, nel decennio successivo entrarono in Comunione e Liberazione. Era gente dal mio punto di vista controcorrente, religiosa, dialogante, provocatrice e coraggiosamente incosciente. Sembravano addirittura felici. Senza accorgermene sono rimasto loro amico per tutta la vita, pur non avendo mai condiviso nessuna delle loro idee politiche.
Ho incontrato don Luigi Giussani personalmente soltanto una volta, al Palazzetto dello Sport di Varese, nel 1979, dopo un raduno di Cl a cui ero andato per curiosità. Pensavo di incontrare un sacerdote carismatico, e così è stato, ma non mi sarei aspettato di trovarmi di fronte a un poeta, a un attore, a un drammaturgo. Churchill, snobisticamente, diceva: «Una sola cosa non si può sopportare: una cattiva prosa». Don Giussani parlava benissimo, come Fellini d’altronde e come il suo amico Testori.
Un italiano raffinato, nascosto negli abiti rustici di una cadenza brianzola, una lingua che colpiva per la sua semplicità, frutto di molte elaborazioni personali. Parole che arrivavano a segno, risposte a domande che aveva prima posto a se stesso. Era difficile rimanere indifferenti, il suo era un canto delle sirene adatto a entrare nell’anima, sembrava un formichiere che inghiotte.
libro_don_giussani-SavoranaNon l’ho più rivisto dopo quella volta, ma posso dire di averlo conosciuto attraverso alcuni dei suoi discepoli: Piero, che ho coinvolto nell’A.M.A.T.A (Amici del Museo d’Arte di Tel Aviv) e che molto ha fatto per i rapporti tra artisti israeliani e italiani; Nicoletta, sua moglie, che ha accompagnato Piero anche in questo progetto venendo con noi fino a Gerusalemme; Cicci, diventata negli anni una cara amica ; Jimmy, che fa il mio stesso lavoro e col quale mi confronto spesso fraternamente; Camillo, conosciuto da poco, ma già propositivo e in sintonia. Se Luigi non mi avesse chiesto di scrivere questa testimonianza non mi sarei mai reso conto di quante persone legate a don Giussani io abbia conosciuto. Mi vengono in mente anche Nicola, Roby, Antonio, Raffaella, Carla, Letizia, Giancarlo e Marina.
La missione del “fare”Mi sembrava che avessero una sorta di missione del “fare”, invece che Ora et labora, (Torah ve Avodà), Labora et ora: si costruivano le proprie scuole, entravano capillarmente nella politica italiana, creavano delle comunità nel terzo mondo. Si muovevano con un misto di spiritualità spericolata e concretezza brianzola. Ricordiamoci però che quarant’anni fa, nel mondo degli studenti, erano visti come dei paria e parlare con loro era politicamente molto scorretto.
Io che, da sinistra, ero insofferente verso i dettami della rivoluzione culturale in atto, provavo un particolare piacere a rompere questo tabù. Come mai le parole di pace di papa Francesco, le stesse già dette da tanti altri, arrivano a destinazione? Perché c’è un modo magico di dire le cose. E questa magia don Giussani l’aveva, una magia artistica che proveniva dal suo amore per la musica e per la letteratura, dallo spirito religioso di sua madre e da suo padre, socialista. Nessuno come Pier Paolo Pasolini ha saputo portare lo spettatore in un’antichità autentica, elegante, vera (vedi Vangelo secondo Matteo, per esempio). Allo stesso modo don Giussani ha saputo descrivere la nascita del cristianesimo portando l’ascoltatore a essere uno dei pescatori del lago di Tiberiade, addirittura a sentirsi uno dei discepoli. Quel giorno a Varese sono riuscito a scappare per un pelo. Jean Blanchaert -
Jean Blanchaert è artista e antiquario


Wojtyla e Roncalli, una storia da leggere insieme


La santità si manifesta in mille modi differenti: nell’attenzione agli ultimi, nel coraggio della pace, nel dono di sé a chi non può ricambiare, nel silenzio contemplativo. Scelte anche molto distanti tra loro ma fondate sulla stessa radice, l’amore. Quell’amore che in Dio assume le forme e la dolcezza del Padre misericordioso.

La scelta di canonizzare insieme Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II il 27 aprile è molto più di un gesto simbolico. Racconta lo stile di Dio, grida la bellezza del perdono, unisce due Papi che hanno fatto dell’ascolto e dell’accoglienza la cifra distintiva del loro pontificato. Senza temere di essere impopolari, con il coraggio della novità. La Giornata della divina misericordia infatti, racconta proprio questa offerta di sé a Cristo, perché il suo sguardo cura anche le infezioni più gravi, sana le crisi incancrenite.

Roncalli e Wojtyla l’hanno testimoniato con la loro vita, confidando poco in se stessi e molto nel Signore che abitava in loro. Dalla sfida della "Pacem in terris" di fronte a un mondo diviso in blocchi, al superamento del comunismo, dall’umiltà di visitare i detenuti alla scelta profetica di puntare sui giovani. Tempi e modi diversi ma la stesso stile, la stessa fede tradotta in vita.

Ecco allora che non può stupire che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II vengano dichiarati santi insieme, proprio il 27 aprile 2014, festa della Divina misericordia, la prima domenica dopo Pasqua, a indicare il legame che salda insieme Risurrezione e Redenzione, Passione e vita nuova. Pagine di uno stesso libro che va letto tutto insieme. Nella consapevolezza, come non si si stanca di ripetere Papa Francesco, che alla fine del viaggio troveremo sempre un Padre con le braccia aperte, che si compiace di amare l’uomo, ogni uomo. E lo fa, perdonando.

Papa Roncalli e Wojtyla saranno santi il 27 aprile

Giovani Paolo II e Giovanni XXIII saranno proclamati Santi il prossimo 27 aprile, domenica della Divina Misericordia. Lo ha annunciato papa Francesco nel corso del Concistoro per la canonizzazione dei due beati. All'incontro erano presenti i cardinali residenti e a quelli presenti nella Capitale.

Prima che papa Bergoglio proclamasse la formula e annunciasse la data della canonizzazione, il prefetto per la Congregazione delle cause dei santi, Angelo Amato, ha tracciato un breve profilo biografico dei due futuri santi. Il cardinale Amato ha in particolare ricordato "il loro servizio alla pace" assimilandolo a quell'"impegno a cui Vostra Santità ci sollecita". Il porporato ha anche citato la "mite fermezza" con la quale i due Papi defunti hanno entrambi vissuto in "tempi di radicali trasformazioni", promuovendo "con autenticità" la dignità dell'uomo.
 
La scelta di papa Francesco è caduta dunque sulla domenica in albis, la domenica dopo Pasqua che è la Festa della Misericordia, solennità istituita da Wojtyla, che nel 2005 morì alle 21.37 del 2 aprile, cioè dopo i primi vespri della domenica in cui cadeva proprio la Festa della Misericordia.

Come è noto, in giugno il Pontefice ha approvato il miracolo, attribuito all'intercessione del Beato Giovanni Paolo II, e ha dispensato Giovanni XXIII dal processo relativo a un secondo miracolo dopo quello che ha portato alla beatificazione nel 2000: la grazia concessa a suor Caterina Capitani guarita inspiegabilmente il 25 maggio 1966 dalle conseguenze di una grave emorragia dopo che, oltre un anno prima, era stata sottoposta a una resezione gastrica quasi totale. Francesco ha deciso questa dispensa in forza della radicata e diffusa fama della santità di Roncalli: a Sotto il Monte, ad esempio, nella casa natale, una stanza intera è colma di fiocchi rosa e azzurri inviati da coppie ritenute sterili che hanno avuto la gioia di un figlio dopo aver invocato il Papa Buono. Secondo il postulatore della causa, il francescano fra Giovangiuseppe Califano, la decisione "è il segno che il ricordo di Giovanni XXIII - il Papa che 50 anni fa ha convocato il Concilio Vaticano II - è sempre vivo in tutto il mondo. Anche se non viaggiò mai Oltreoceano, sappiamo che spesso inviò radiomessaggi ai Paesi dell'America Latina, si interessò dei problemi di quelle genti grazie anche ai missionari e alle nunziature. E poi sicuramente ci furono contatti con la presidenza degli Stati Uniti, testimoniata anche dal fatto che Giovanni ricevette fra gli altri la moglie di Kennedy, Jacqueline, e il presidente Lyndon Johnson".

Per quanto riguarda la canonizzazione di Papa Wojtyla, essa avviene a meno di dieci anni dalla sua morte, quasi un record, perché solo Sant'Antonio da Padova, morto il 13 giugno 1231, ha fatto più in fretta: la solenne cerimonia si tenne nella cattedrale di Spoleto il giorno di Pentecoste del 1232 alla presenza di Papa Gregorio IX. In questo caso, l'istruttoria sul miracolo è stata accuratissima. Si tratta della guarigione di una signora del Costa Rica, Floribhet Mora, inspiegabilmente risanata da una paralisi cerebrale il primo maggio 2011, giorno della beatificazione di Wojtyla, una circostanza all'origine di numerose conversioni tra i testimoni del fatto. Anche su questo importante evento, infatti, la linea di Francesco è la stessa di Benedetto XVI che aveva concesso la dispensa papale, evitando un'attesa di cinque anni per l'inizio della causa, aperta dal cardinal Camillo Ruini allora vicario di Roma, già nel giugno del 2005. Sei anni dopo è arrivata la beatificazione. ​​

Il Papa: pace e gioia, non l'organizzazione, segno della presenza di Dio nella Chiesa


Non un'organizzazione e una programmazione perfette, ma “pace e gioia” sono il segno della presenza di Dio nella Chiesa: è quanto ha affermato il Papa nella Messa di stamani a Santa Marta commentando le letture del giorno.
I discepoli erano entusiasti, facevano programmi, progetti per il futuro sull’organizzazione della Chiesa nascente, discutevano su chi fosse il più grande e impedivano di fare il bene in nome di Gesù a quanti non appartenevano al loro gruppo. Ma Gesù – spiega il Papa – li sorprende, spostando il centro della discussione dall’organizzazione ai bambini: “Chi infatti è il più piccolo fra tutti voi – dice - questi è grande!”. Così, nella Lettura del profeta Zaccaria si parla dei segni della presenza di Dio: non “una bella organizzazione” né “un governo che vada avanti, tutto pulito e tutto perfetto”, ma gli anziani che siedono nelle piazze e i fanciulli che giocano. Il rischio è quello di scartare sia gli anziani che i bambini. E duro è il monito di Gesù verso chi scandalizza i più piccoli:

“Il futuro di un popolo è proprio qui e qui, nei vecchi e nei bambini. Un popolo che non si prende cura dei suoi vecchi e dei suoi bambini non ha futuro, perché non avrà memoria e non avrà promessa! I vecchi e i bambini sono il futuro di un popolo! Quanto è comune lasciarli da parte, no? I bambini, tranquillizzarli con una caramella, con un gioco: ‘Fai, fai; Vai, vai’. E i vecchi non lasciarli parlare, fare a meno del loro consiglio: ‘Sono vecchi, poveretti’…”. 

I discepoli – sottolinea il Papa - non capivano:

“Io capisco, i discepoli volevano l’efficacia, volevano che la Chiesa andasse avanti senza problemi e questo può diventare una tentazione per la Chiesa: la Chiesa del funzionalismo! La Chiesa ben organizzata! Tutto a posto, ma senza memoria e senza promessa! Questa Chiesa, così, non andrà: sarà la Chiesa della lotta per il potere, sarà la Chiesa delle gelosie fra i battezzati e tante altre cose che ci sono quando non c’è memoria e non c’è promessa”.

Dunque, la “vitalità della Chiesa” non è data da documenti e riunioni “per pianificare e far bene le cose”: queste sono realtà necessarie, ma non sono “il segno della presenza di Dio”:

“Il segno della presenza di Dio è questo, così disse il Signore: ‘Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. E le piazze della città formicoleranno di fanciulli e fanciulle che giocheranno sulle sue piazze’. Gioco ci fa pensare a gioia: è la gioia del Signore. E questi anziani, seduti col bastone in mano, tranquilli, ci fanno pensare alla pace. Pace e gioia: questa è l’aria della Chiesa!”.



Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2013/09/30/il_papa:_pace_e_gioia,_non_lorganizzazione,_segno_della_presenza_di/it1-732955
del sito Radio Vaticana 

La liberazione che viene dal Vangelo

Monsignor Filippo Santoro è stato nominato arcivescovo di Taranto da Benedetto XVI il 21 novembre 2011. Originario di Bari-Carbonara, 65 anni, è un profondo conoscitore dell’America latina e delle sue problematiche ecclesiali, teologia della liberazione compresa. Dopo aver conseguito la laurea in teologia dogmatica alla Gregoriana e in filosofia alla Cattolica di Milano ed essere ordinato sacerdote nel 1972, nel 1984 è stato infatti inviato come prete fidei donum dell’arcidiocesi di Bari a Rio de Janeiro in Brasile. Dal 1988 al 1996 è stato responsabile di Comunione e liberazione in America latina e nel 1992 ha partecipato come perito-teologo alla IV Conferenza generale del Celam di Santo Domingo. Giovanni Paolo II lo ha nominato dapprima, nel 1996, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Rio de Janeiro e nel 2004 vescovo di Petropolis. In questa veste ha partecipato nel 2007 alla V Conferenza generale dell’episcopato latino-americano celebrata ad Aparecida in Brasile, dove è stato collaboratore dell’allora cardinale Jorge Mario Bergoglio che guidò la commissione incaricata a scrivere il documento finale della importante assise. (G.C.)

Il Magistero e l’azione pastorale di papa Francesco sono il frutto maturo della Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano, tenutasi in Brasile nel santuario mariano nazionale di Aparecida nel maggio 2007, di cui il cardinale Jorge Mario Bergoglio è stato protagonista di primo piano. La Conferenza di Aparecida ha indicato nel “discepolo missionario” il soggetto della presenza della Chiesa nella società perché i popoli latino-americani abbiano vita piena. Il soggetto è chi è cosciente di sé, della sua originalità e della sua missione. Il soggetto nuovo che è all’origine della liberazione cristiana nasce da qualcosa di diverso dal puro dinamismo naturale, non è frutto dello sforzo dell’uomo e nemmeno della programmazione pastorale. L’originalità è data dalla irruzione dello Spirito nella storia. Di qui la forza profetica della Chiesa latino-americana che fa sua la missione proclamata da Gesù nella sinagoga di Nazaret «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio» (Lc 4,18). Di qui la vigorosa affermazione della evangelica opzione preferenziale per i poveri. Si tratta semplicemente della povertà evangelica e della testimonianza della vita in mezzo alla gente che vediamo nell’essere e nell’agire di Papa Francesco. La disputa aperta nella teologia latino-americana non era tanto sull’uso dell’analisi marxista (per altro largamente ammessa in certi punti della galassia della Teologia della Liberazione) e meno ancora sulla necessità di una mediazione delle scienze sociali, ma sull’origine della novità cristiana e sulla sua incidenza specifica nella società dominata dalla ingiustizia, dallo sfruttamento del capitalismo neo-liberale e dalla scandalosa povertà del continente latino-americano. Il lungo lavorìo che ha provocato le due Istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1984 (Libertatis Nuntius) e nel 1986 (Libertatis conscientia) e che da esse è seguito, è approdato al mirabile evento di grazia che è stata la Conferenza di Aparecida, cui ho potuto partecipare.

Il suo punto di partenza non è stata l’analisi sociale, ma la fede di un popolo fatto in grande maggioranza di poveri, facendo uso del metodo vedere, giudicare e agire, «a partire dagli occhi e del cuore dei discepoli missionari». Dice il n. 19 del Documento finale: «In continuità con le precedenti Conferenze generali dell’Episcopato latino-americano, questo documento utilizza il metodo vedere, giudicare e agire. Questo metodo implica la contemplazione di Dio con gli occhi della fede attraverso la sua Parola rivelata e il contatto vivificante con i Sacramenti, cosicché, nella vita quotidiana possiamo vedere la realtà che ci circonda alla luce della sua provvidenza, giudicarla secondo Gesù Cristo, Via,Verità e Vita, e agire nella Chiesa, Corpo Mistico di Cristo e Sacramento universale di salvezza, per la diffusione del Regno di Dio, che si semina su questa terra e dà pienamente frutto in Cielo». Il documento comincia con una solenne «azione di grazie a Dio» e ha come prospettiva «la gioia di essere discepoli e missionari di Gesù Cristo». L’Introduzione e il primo capitolo indicano la prospettiva di fede in cui si muove il testo nel suo sguardo analitico alla realtà, nello sviluppo dei criteri di giudizio e nelle prospettive di azione. È noto che il presidente della Commissione di redazione del documento finale di Aparecida era l’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Bergoglio. Con uno stile sapienziale il Documento di Aparecida nell’Introduzione afferma: «Ciò che ci identifica non sono le circostanze drammatiche della vita, né le sfide della società, e nemmeno le attività che dobbiamo intraprendere, quanto piuttosto l’amore ricevuto dal Padre, grazie a Gesù Cristo, per l’unzione dello Spirito Santo» (14). Questo riferimento iniziale alla SS. Trinità era stato positivamente voluto da un intervento decisivo del cardinale Bergoglio, ripreso a suo tempo con un certo rammarico in una nota della Agenzia Adista (nel n. 46 del 23-06-2007, scritta da Marcello Barros). Scriveva Adista: «Ha commentato uno dei delegati brasiliani alla Conferenza, il vescovo di Jales dom Demetrio Valentini, la Conferenza “ha concretizzato uno dei suoi obiettivi più grandi, quello di riprendere il cammino della Chiesa dell’America Latina, rafforzandone l’identità propria e superando perplessità che ne ostacolavano l’azione”. Peccato che, una volta affermato, il metodo non sia stato poi applicato in maniera rigorosa, essendo l’analisi della realtà – il “vedere” – preceduta da un capitolo introduttivo su “I discepoli missionari”: come racconta il teologo argentino di Amerindia, Eduardo de la Serna, la richiesta di spostare questo capitolo all’inizio della seconda parte è stata respinta, in sede di votazione, malgrado fosse presentata da ben 16 presidenti di Conferenze episcopali. A esprimersi contro, prima del voto, è stato il cardinale Jorge Mario Bergoglio, presidente della Conferenza episcopale argentina e della Commissione di redazione, secondo cui, rispetto alla durezza della realtà, era meglio cominciare con una sorta di dossologia (inno di lode a Dio)». Così lo schema del documento valorizza la tradizione della teologia e della pastorale latinoamericana, ma, allo stesso tempo, ne mette in evidenza la prospettiva di fede. Questa chiaramente non ne era assente, ma in certi sviluppi era data per scontata dovendo preoccuparsi innanzitutto della gravità di una situazione sociale piena di conflitti e soprattutto del “clamore dei poveri”. In questo senso, ci fa capire tutta la problematica la posizione di Clodovis Boff a partire da un articolo della "Revista Eclesiástica Brasileira" sul tema del povero come principio epistemologico della Teologia della Liberazione. «Quando si pone la questione del povero come principio e se si domanda se non viene prima il Dio di Gesù Cristo, la TdL suole fare un passo indietro e non lo nega. Né lo potrebbe poiché Dio si trova al primo posto, per definizione.

Ciò che fa problema è la sua “indefinizione” su una questione capitale nella sfera del metodo». Il dato della fede «rappresenta un dato presupposto, che rimane alle spalle, e non un principio operante che continua sempre attivo. Ma il primato della fede come non può essere dato per scontato dal punto di vista esistenziale, anche non può esserlo dal punto di vista epistemologico» (Teologia da Libertação e volta ao fondamento, in: “REB”, 268, out/2007, passim pp. 1002-1004).
Questa ambiguità è superata dalla Conferenza di Aparecida sia nella struttura generale del documento, sia nella presenza viva della fede in ogni momento del suo svolgimento, dal guardare la dura realtà sino al giudicarla e alla prassi conseguente. Si tratta però di una ambiguità sempre presente, poiché Papa Francesco, nel suo recente viaggio in Brasile per la Gmg, nell’incontro con la Presidenza del Celam, vi tornava sopra nel punto 4, quando, presentando alcune tentazioni contro il discepolato missionario, parlava della «ideologizzazione del messaggio evangelico» e affermava: «È una tentazione che si ebbe nella Chiesa fin dal principio: cercare un’ermeneutica di interpretazione evangelica al di fuori dello stesso messaggio del Vangelo e al di fuori della Chiesa. Un esempio: Aparecida, in un certo momento, soffrì questa tentazione sotto forma di asepsi. Si utilizzò, e va bene, il metodo di “vedere, giudicare, agire” (cfr n. 19). La tentazione risiedeva nell’optare per un “vedere” totalmente asettico, un “vedere” neutro, il che è irrealizzabile. Sempre il vedere è influenzato dallo sguardo. Non esiste un’ermeneutica asettica. La domanda era, allora: Con quale sguardo andiamo a vedere la realtà? Aparecida rispose: con sguardo di discepolo. Così s’intendono i numeri dal 20 al 32. Vi sono altre maniere di ideologizzazione del messaggio e, attualmente, appaiono nell’America Latina e nei Caraibi proposte di questa indole. Ne menziono solo alcune: a) Il riduzionismo socializzante. È la ideologizzazione più facile da scoprire. In alcuni momenti fu molto forte. Si tratta di una pretesa interpretativa in base a una ermeneutica secondo le scienze sociali. Comprende i campi più svariati: dal liberismo di mercato fino alle categorizzazioni marxiste…». Se il Papa ne parla significa che le tentazioni e le ambiguità possono sussistere ancora. Certo Aparecida ha dato un contributo notevole e ha segnato un cambiamento di posizione che è valido non solo per l’America Latina, ma per tutta la Chiesa. Questo è reso possibile dal Magistero e dalla testimonianza di papa Francesco che desidera «una Chiesa povera per i poveri».
Prima della sua elezione, Aparecida è stata pressoché ignorata sia in Italia che in Europa e in altre parti del mondo, nonostante i vari interventi dei vescovi latino-americani negli ultimi due sinodi. Aparecida, in una fase non più eurocentrica, si pone oggi come un magistero non solo regionale, ma offerto a tutta la Chiesa nelle sue scelte specifiche, che sono lo sviluppo del Vaticano II. Dall’opzione per i poveri all’inculturazione della fede, dal protagonismo dei laici alla lotta per la giustizia contro le strutture economiche e sociali ingiuste, dalle comunità ecclesiali di base alle piccole comunità ecc… Tutto è valorizzato: la vita, la famiglia, una vigorosa ripresa della religiosità popolare, la liturgia, l’arte, la cultura, le vocazioni, i giovani, i movimenti e le nuove comunità ecc. Il tema dominante rimane però la missione, particolarmente nella terza parte del Documento dal titolo suggestivo «La vita di Gesù Cristo per i nostri popoli». Dall’esperienza latino-americana e da Aparecida deriva questo contatto diretto con la gente, questo immischiarsi con i problemi del popolo portando la speranza di Cristo. Tutto è abbracciato a partire dalla fede. Questa chiara posizione evangelica è un dono dello Spirito e della sua potenza che agisce nel popolo fedele e che culmina nella Conferenza di Aparecida. Ora papa Francesco la estende a tutta la Chiesa. Non si tratta di una particolare teologia (come si può anche notare dall’intervista rilasciata dal Papa alla “Civiltà Cattolica”), ma del cuore evangelico della liberazione cristiana. Così si prospetta non soltanto una “Missione Continentale” come sta accadendo in America Latina, ma una vera “Conversione Pastorale”, ed una “Missione Permanente”, in dialogo con le varie religioni e con le attese più vere del mondo contemporaneo.

Filippo Santoro

Una vita che continua ora.Vita di don Giussani




Dopo le presentazioni a Milano e Roma,  l'intervista a Alberto Savorana apparsa su Tracce di settembre. L'autore della biografia, giunta alla quarta edizione, racconta gli anni di lavoro. E la riscoperta di un amico che credeva di conoscere

Cinque anni e mezzo di lavoro. Più di cinquantamila pagine lette e studiate. E poi gli archivi, i testimoni, i libri... Ora che la sua Vita di don Giussani (Rizzoli, 1.354 pagine, 25 euro) arriva in libreria, fa effetto sentir dire ad Alberto Savorana, responsabile dell’Ufficio stampa di Cl, quello che confessa a fine intervista: «Guarda, io di mio vorrei sparire. Vorrei soltanto che a chi legge venisse il desiderio di conoscerlo ancora di più. È solo un inizio, un primo tentativo».
Vero, per carità. Ma è un inizio imponente. Per lo spessore e la profondità del lavoro. E perché viene da uno di quelli che don Giussani l’hanno conosciuto meglio. Vent’anni di lavoro fianco a fianco, come «portavoce» del movimento, direttore di questo giornale (che ha guidato dal 1994 al 2008) e collaboratore nella pubblicazione dei volumi del fondatore di Cl, scomparso nel 2005 e di cui è stata richiesta l’apertura della causa di beatificazione. Ma soprattutto vent’anni di amicizia stretta, vera e viva. Che in questa avventura editoriale ha trovato un’altra strada, davvero imprevedibile, per continuare.
Si scoprono tante cose di don Giussani, leggendo. E viene voglia, appunto, di scoprirne tante altre, di approfondire la conoscenza della sua vicenda personale e del carisma. Ma se c’è un dato che domina da subito, dal primo sfoglio all’ultima riga, è proprio questa percezione chiara e netta di una vita che prosegue. Di un presente, non di un «devoto ricordo», per usare un’espressione cara allo stesso Giussani. Ecco, il volume di Savorana ce lo offre vivo. Per questo è una sfida. Come è stato - è - per lui.

Come è nato questo libro, Alberto? 
Era una sera del febbraio 2008. Eravamo a cena con un gruppetto di amici e don Carrón. Alla fine, lui dice che forse, ad alcuni anni dalla morte di don Giussani, è arrivato il momento di immaginare un primo tentativo di redigere una sua vita documentata. E mi chiede se me la sento. Per me è stata una sorpresa assoluta. Anche perché io avevo fatto il proposito di non occuparmi della storia di Giussani. Vuoi per pudore e coscienza dei miei limiti, vuoi perché venti anni della mia vita, personale e professionale, li ho condivisi con lui.

La tua reazione?
Duplice. Da una parte sentivo un’umiliazione, perché un’impresa del genere mi sembrava assolutamente sproporzionata alle mie forze. Dall’altra è cresciuto un entusiasmo perché si trattava di obbedire a qualcuno che me lo chiedeva. Questo mi ha messo subito in una condizione di disponibilità e libertà. Chi mi aveva suggerito quel lavoro, poteva in ogni momento revocare il mandato. Era un dato oggettivo: il segno che c’era di mezzo il Mistero. Il giorno dopo ho detto di sì. Ma in cuor mio avevo deciso la sera stessa...

Ma cosa pensavi all’idea della mole di lavoro che ti aspettava? Ti sarai spaventato un po’...
La prima questione era da dove cominciare. Ricordo di averlo chiesto anche a Carrón. Lui mi ha risposto raccontandomi di come con i suoi amici, seminaristi e poi giovani sacerdoti a Madrid, avevano cominciato a studiare la storicità dei Vangeli. L’entusiasmo per l’esperienza che vivevano tra loro e con i loro maestri aveva fatto crescere la curiosità e il desiderio di indagare, di capire di più come era cominciato tutto. «Tu prova a fare lo stesso», mi ha detto: «Buttati nella ricerca, nella lettura, nell’indagine sui dati e sulle fonti, a partire dal presente che vivi. Lascia che le cose ti colpiscano, e vedrai che la strada verrà quasi da sé». Questo è stato fin dall’inizio molto chiaro. Non si trattava di un’opera di rievocazione storica distaccata, ma io ero parte in causa. Sia perché l’avevo vissuta, almeno negli ultimi venticinque anni, sia perché - ma di questo me ne sono accorto lavorando - non si possono intravvedere i dati della vita di un uomo se non c’è qualcosa già in te che hai vissuto come domanda, esperienza, aspettativa, difficoltà.

Nell’introduzione parli di «simpatia umana», proprio nel senso pieno, di condivisione... 
Sì. Mi ha guidato uno sguardo pieno di curiosità amicale su un uomo che ha vissuto quello che ho vissuto. In tanti momenti, trovando certi dati e fatti della vita di Giussani, è stato immediato il paragone con me.

Per esempio?
Quando lui racconta che a 13 anni ha avuto un momento di fuga, che ha passato parte dell’estate a leggere tutto Leopardi perché era in crisi e nulla poteva colmare le sue domande se non quelle letture, eccetera, io ho sempre pensato: «Tredici anni, sì... Sarà stato quando faceva il liceo». Be’, trovare nei registri del seminario che proprio in quell’anno si riscontra un momento di crisi nella sua vita, mi ha confermato che quando lui dice «tredici anni» sono proprio tredici anni. E in quell’istante ho pensato a come io guardavo i miei primi due figli quando avevano tredici anni. Cioè come dei bambini che si affacciavano appena alla possibilità della ragione. E dato che questa scoperta ha coinciso con i tredici anni di mia figlia, in un istante mi sono reso conto che avevo davanti non una bambina ancora “incapace di intendere e volere”, ma un essere ragionevole che a suo modo viveva le stesse domande, ansie e desideri che ho io. Ma molti episodi mi hanno fatto fare questo paragone. Anche per questo mi ha molto colpito quando Carrón, agli Esercizi della Fraternità, ha detto quella frase: «La storia di don Giussani è così significativa perché ha vissuto le nostre stesse circostanze, e ha dovuto affrontare le stesse sfide e gli stessi rischi». Io ho rivissuto in lui tanti momenti, fasi, situazioni della mia vita. E ho potuto fare il paragone.

Ma non è la stessa cosa che accadeva nel rapporto con lui vivo? 
Sì, ma il lavoro sul libro l’ha oggettivata. Perché mi ha costretto a stare molto di più sui dati e a non fermarmi all’apparenza. Don Giussani aveva una personalità così forte che a volte poteva accadere di fermarti lì. Senza fare il passo per cui ti accorgevi che quella personalità, in realtà, era segno e voce di un’altra cosa. Immergermi nel lavoro sui documenti mi ha costretto a entrare sotto la superficie dei dati, a leggerli come segni che portavano ad altro. Da questo punto di vista, il segno più clamoroso di tutta la sua vita è l’imponenza della figura di Cristo, che emerge come dato assolutamente dominante. È giovanissimo quando scrive quella frase: «La gioia più grande della vita dell’uomo è quella di sentire Gesù Cristo vivo e palpitante nelle carni del proprio pensiero e del proprio cuore. Il resto è veloce illusione o sterco». Che è il contrario del disprezzare le cose: è metterle nella loro giusta prospettiva. Per Giussani, in tutta la vita, questo è un dato impressionante: Cristo è la consistenza delle cose, è la realtà della realtà.
Tu scrivi che in lui «domina il senso dell’Incarnazione, il riconoscimento della presenza di Cristo qui e ora, della Sua contemporaneità»...
Assolutamente. E domina dal giorno in cui il suo professore Gaetano Corti legge e spiega il prologo del Vangelo di Giovanni. Tanto è vero che lui dirà: «Da allora l’istante non fu più banalità per me». Lì è la chiave di volta della vicenda di un giovane che scopre il segreto della vita. Un segreto che non aveva scorto prima, tanto da aver ingaggiato quella dialettica con Leopardi. Il «bel giorno», come lo chiama lui, è quello in cui Giussani capisce che la bellezza che inseguiva Leopardi si era incarnata. Era Cristo.

Tu sei stato testimone diretto di molti dei fatti che racconti. Che cosa ti ha aiutato a non far prevalere la dimensione del ricordo personale?
Anzitutto, è stata una scelta precisa. Nel libro non ho messo «i miei ricordi di don Giussani», ho cercato sempre di appoggiarmi a fonti, documenti, testimoni che ho ritenuto affidabili, e a Giussani stesso. E anche quando racconto episodi di cui io stesso sono stato testimone, lo faccio quasi da spettatore alla finestra, che vede succedere qualcosa. Ma la cosa che mi è stata di maggiore aiuto, proprio a rendere il più oggettivo possibile questo lavoro, è stato ascoltare in questi anni parlare Carrón. Non tanto nei dialoghi privati, che pure ci sono stati, ma quando parla in pubblico. Per me è una scuola decisiva vedere come lui rivive le parole di Giussani; come passano attraverso la sua umanità, le domande, le difficoltà, le esigenze della vita del movimento e della vita tout court. È stato da subito un aiuto a segnare la strada, e soprattutto una correzione.

Perché?Ogni volta che lo sentivo mi rimetteva in una prospettiva meno inadeguata rispetto alla mole di dati e materiali che ho potuto accostare. In particolare le fonti inedite. Don Giussani ha parlato tantissimo. Ma soprattutto, per tutta la vita ha parlato, in sostanza, proprio della sua vita. Mentre cresceva - cioè mentre la sua vita evolveva e si approfondiva - ha riletto di continuo i momenti vissuti. Non come episodi intimi e individuali, ma come il documentarsi di un metodo: il metodo dell’esperienza, che lui ha applicato a sé da subito. Carrón mi ha aiutato a seguire e riprendere questo metodo.

Cosa vuol dire che don Giussani ha imparato tutto dall’esperienza, dai fatti che gli accadevano? 
Per lui tutta la realtà è segno. Non si esaurisce in quello che si vede e si tocca, ma rimanda oltre. È il famoso «tutte le cose portano scritto: “più in là”», di Montale. Ogni episodio della sua vita, lui lo ha guardato con questa prospettiva. E quindi lo ha fatto diventare esempio per tutti. Si tratti di una vicenda familiare, di salute, di un incontro con un Papa o con l’ultimo ragazzo conosciuto in un chiostro della Cattolica, tutto era l’emergere ai suoi occhi di una profondità che andava al di là del dato effimero. Tanto è vero che ci sono momenti in cui prende una frase detta da un ragazzo, o una cosa che sembra insignificante, e la fa diventare contenuto di una lezione, di un libro, di una proposta.

Concretamente come hai lavorato? Come ti sei mosso, rispetto a tutta questa mole di materiali? 
Sono stato molto meccanico. Anzitutto, ho identificato le fonti primarie su cui lavorare. I materiali di archivio che proprio per questa occasione la Fraternità e Cl mi hanno consentito di consultare; altri archivi a cui si è potuto accedere; alcuni fondi privati - per esempio, i carteggi con le sorelle -; e le fonti edite, che conoscevo bene perché vi ho collaborato in questi anni. Poi, dato che dovevo stendere una vita documentata, ho fissato una cronologia: certi momenti - poi rivisti man mano - che, per la conoscenza che avevo, potevano costituire dei piloni della sua vicenda. In questo mi è stato di aiuto il lavoro che aveva fatto don Massimo Camisasca per i tre volumi della storia di Cl: di fatto, la prima parte è, in sintesi, il percorso della vita di don Giussani prima che iniziasse l’esperienza del movimento. Poi, ho cominciato a leggere in sequenza tutti i materiali. E ho verificato la fondatezza o meno di un’ipotesi che mi ero fatto rispetto alle fonti. In certi casi i dati mi hanno costretto a rivedere l’impianto generale. Per esempio, nell’episodio a cui attribuisco un valore decisivo per la vita di don Giussani, perché segna la svolta nella sua vocazione futura.

Quale?
È l’incontro che fa all’inizio dell’estate del 1951 con un giovane che conosce casualmente in confessionale nella parrocchia di viale Lazio, a Milano. Don Giussani vi svolge il servizio pastorale sabato e domenica mentre già insegna a Venegono, dove è avviato a una brillante carriera teologica. Lì accade questo episodio, che racconterà in varie occasioni, ma soprattutto nel Senso religioso. Quel giovane, in confessione, gli dice che per lui l’ideale umano è il Capaneo di Dante: è incatenato dagli dei, ma gli dei non possono impedirgli di odiarli. È un episodio decisivo, perché si vede don Giussani in azione. Avrebbe potuto mandar via quel giovane o fargli una lezione, e invece gli fa una domanda: «Ma non è ancora più grande amare Dio che odiarlo?». Passa un mese e mezzo, il ragazzo torna e dice: ho ricominciato ad andare a messa, la sua domanda mi ha roso per tutta l’estate. Don Giussani diventa molto amico di questo giovane, e attraverso di lui conosce una serie di suoi compagni o ragazzi della parrocchia che frequentano i licei della zona: il Berchet, che è a quattro isolati da lì, il Beccaria... Confessandoli, si rende conto che questi ragazzi, tutti profondamente cattolici, attivi nella vita della Chiesa e delle parrocchie, vivono un grande disagio soprattutto a scuola. I professori fanno propaganda contro i preti, la fede e la religione, e loro non sanno cosa rispondere. Lì don Giussani intuisce che a questi ragazzi è mancata la comunicazione da parte degli adulti di un metodo per verificare se ciò che hanno imparato in famiglia e in parrocchia è vero. Se la fede è in grado di reggere all’urto delle circostanze. E comincia a spuntare una domanda: «Forse il Signore mi sta chiedendo qualcos’altro?».

Quindi è lì, in qualche modo, l’origine del movimento...
È uno dei pochi punti in cui mi sono preso la responsabilità di indicare un momento di svolta che prima non era stato identificato così presto, perché dovranno passare ancora tre anni prima che don Giussani vada al Berchet. Ma questo mi spiega anche come mai di lì a un anno, un anno e mezzo, lui cominci a frequentare la consulta di Gioventù Studentesca a Milano: era provocato da quegli incontri.
Quali sono stati gli altri episodi che ti hanno sorpreso di più, o non avevi messo a fuoco così?
Un dato sorprendente, ma che dalla fine degli anni Cinquanta accompagna tutta la vita di don Giussani, è la percezione che lui ha della natura dell’esperienza del movimento e delle possibili riduzioni sempre in agguato. I suoi primi richiami al rischio di una riduzione associazionistica, organizzativa, che va a scapito della vita, non li fa alla fine degli anni Settanta o dopo, ma tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Nel momento in cui Gs sta esplodendo in termini numerici e tutto sembra andare bene: la caritativa coinvolge tantissimi giovani, ci sono le prime iniziative culturali, il giornalino, i raggi, una presenza capillare... Eppure don Giussani scorge il possibile rischio - che vede già attuato - di uno smarrimento della natura dell’esperienza dell’origine. Lo dice a 5-6 anni dall’inizio di tutto. Ed è un leitmotiv che lo accompagna per tutti gli anni Sessanta. Questa continuità nel richiamo è impressionante. Dice anche - almeno per gli anni di cui sono stato testimone - della sua percezione di una nostra testardaggine: eravamo duri a comprendere. Perché mentre lui dice questo, la vita del movimento in certi momenti sembra prendere altre strade.

Quanto ha sofferto di questo? 
Tanto, di sicuro. Per la percezione che stavamo perdendo tempo, sciupando un dono ricevuto perché presi da altre preoccupazioni. Per esempio, quando lui a metà anni Sessanta scorge i primi segni della crisi, ci sono dei testi in cui dice che la preoccupazione del “fare”, della riuscita, dell’esito delle proprie cose, potrebbe dilapidare tutto, «se non Lo cerchiamo giorno e notte». Ci sono momenti in cui esplicita questo rammarico perché non si è leali con la natura dell’esperienza così come la si è incontrata. Ma ha anche le antenne dritte nello scorgere punti, momenti, persone in cui vede riaccadere l’inizio. Che si tratti di giovani che hanno finito il liceo e cominciano ad interrogarsi sulla vocazione, o di universitari che nel mezzo della crisi rimangono insieme perché non vogliono perdere quello che hanno vissuto - e fanno sì che misteriosamente, a un certo punto, tutto ricominci sotto il nome di Comunione e Liberazione... In questo è impressionante come don Giussani si metta a seguire. Impara da un ragazzetto che magari faceva un intervento al raggio. E lo dice: «In quel momento lui era autorità, e io seguivo lui».

Questa apertura, questa disponibilità, da dove nasce e come è cresciuta?
La prima cosa è che si innesta in una dote naturale, che è una semplicità di cuore. Per questo amava ripetere il verso della liturgia ambrosiana: «Nella semplicità del mio cuore, lietamente, Ti ho dato tutto». È un’apertura originale, quasi verginale alle cose. A cui sicuramente hanno giovato i genitori: la mamma per la sua fede profonda, il padre per la sua umanità. Lo hanno costretto fin da piccolo a guardare in faccia le cose. Poi, il seminario. Lui dice che quei 12 anni sono stati i più belli della sua vita, perché hanno reso consapevole quello che in famiglia era un’esperienza totalizzante, ma non ancora riflessa. È successo grazie ai maestri che ha avuto: Corti, Figini, i due Colombo, Galbiati, il rettore Petazzi. Ma c’è un terzo dato che ha reso abituale in lui questa apertura: il nascere del movimento. Che, lui dice, «mi sono trovato davanti», perché «non ho mai inteso fondare niente». Era la sorpresa per qualcosa che gli era accaduto. Che aveva visto accadere come frutto non previsto, non calcolato, di quella semplicità di cuore.

In un certo senso lui ha seguito il movimento...
Ha seguito persone, fatti. Per questo dirà: per me la storia è tutto, io ho imparato tutto da ciò che accade, dall’impatto con le circostanze. Da quando ha 12 anni e per aiutare il papà socialista - che si interrogava sulla sua andata in seminario - a capire che «è bella la strada», non dà una spiegazione, ma racconta di un’esperienza avuta al mattino: la bellezza di aver partecipato alla prima messa di un sacerdote. Fino agli ultimi anni della spoliazione, della privazione progressiva, per via della malattia, dei momenti “pubblici”: le conversazioni in casa con gli infermieri, la segretaria, le persone che si prendono cura di lui, diventano il punto in rapporto con il quale farà scoperte che poi comunicherà a tutti. Per questo alla sorella, pochi giorni prima di morire, dirà «ricordati che io ho obbedito, ho sempre obbedito».
Uno degli aspetti che impressionano di più, leggendo, è che vedi di continuo come l’«avvenimento» non sia una categoria, ma qualcosa che plasma ogni istante.
Infatti è impressionante come don Giussani non abbia mai paura di mettersi in discussione, di cambiare. Non deve difendere uno schema, ma affermare un’esperienza. E un’esperienza può essere solo presente. Cioè fatta di circostanze che cambiano. Per esempio, una delle cose più avvincenti da ricostruire è il ’68. Lì don Giussani opera una vera e propria conversione. Si rende conto che per rispondere alla crisi, perché possa riaccadere il suo inizio al Berchet, non può affidarsi alla forma dell’inizio. In sostanza, dice: «Non possiamo fare come quando abbiamo cominciato. Lì abbiamo detto: sei nato in una tradizione, verifica se questa tradizione è adeguata a vivere la vita. Adesso io non posso dire a un giovane contestatore della Cattolica “verifica la tradizione”, perché lui si ribella proprio a quella». Allora ci vuole un altro punto di partenza su cui ricostituire la possibilità di un’esperienza. Ma se non è il passato, la tradizione, qual è questo punto? Uno solo: il presente. E il presente è una persona: Cristo. Ricominciamo da Cristo e recupereremo tutta la ricchezza della tradizione.

Ci sono aspetti della “interpretazione storica” di don Giussani e del movimento che in qualche modo devono essere riletti sotto luce nuova?
Una certa pubblicistica giornalistica, negli anni, lo ha dipinto come ossessionato dal mondo, dalla modernità. E lo presenta come l’uomo inflessibile che voleva ricristianizzare la società, e rendere Cl egemone e monopolista. Tutt’altro. Don Giussani non ha mai avuto paura del mondo e della modernità. Perché quell’atteggiamento di apertura, di semplicità e curiosità, in lui non è selettivo: è una mossa con cui guarda tutto e tutti. Senza paura, perché è preso dalla certezza di Cristo. Certo, è preoccupato. Vede, e farà interi corsi di Esercizi sulle riduzioni del razionalismo. Non mancherà di dare giudizi anche duri. Ma non sono dettati da una paura, da un risentimento. Piuttosto, da una profonda pietà per l’esperienza umana che lui ha attraversato. Basterebbe riflettere un attimo: la figura letteraria più significativa con cui lui ha dialogato tutta la vita è Leopardi. Bene: nell’immaginario collettivo cosa c’è di più “moderno” - nel senso negativo del termine - dell’ateo e pessimista cosmico Leopardi? Eppure don Giussani lo trova come un compagno adeguato di cammino. Perché vede in lui, a dispetto della sua fragilità, delle riduzioni e del cedimento al mondo, tutta la profondità dell’animo umano. Per cui «tutto è poco e piccino» diventa uno dei suoi slogan.

Anche la sua insistenza sulla ragione è molto moderna.
È vero. Don Giussani non farà mai appello alla fede come principio di autorità per far accettare quello che sta dicendo. È la sua prima frase a scuola: «Non sono qui perché voi riteniate per vero quello che dico, ma per insegnarvi un metodo per verificare se quello che dico è vero. E quello che dico viene da lontano, da duemila anni di storia». Più tardi aggiungerà: «Sono entrato lì per mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita». Non per imporre la fede a discapito della vita, ma per mostrare che la fede è la risposta più adeguata al vivere. Un’epoca che si è costituita sulla Dea Ragione dovrebbe brindare a una figura come don Giussani, che non ha divinizzato la ragione, ma l’ha esaltata dandole la sua giusta misura di apertura a tutto.

Come è cambiato il tuo rapporto con lui, lavorando alla biografia?
Io pensavo di conoscerlo molto bene...

Il tuo primo incontro quando è stato?
A metà anni Settanta, all’inizio del liceo. Don Francesco Ricci lo invitò a tenere alcuni incontri di Avvento a Forlì, che è la mia città. È il primissimo ricordo che ho di lui. Poi vennero Gs, l’università, il Clu... E ha iniziato a stabilirsi un rapporto personale, perché mi capitava di intervenire alle assemblee, si prendeva un caffé insieme, ci si vedeva. La cosa è andata avanti fino all’episodio che poi mi ha cambiato la vita.

Quale?
La vigilia di Natale del 1983, quando Enzo Piccinini, uno dei responsabili “storici” del movimento, ci portò a Milano, a un pranzo con don Giussani. Eravamo cinque o sei. Lì, a un certo punto, Giussani parlò dell’Anno Santo straordinario dell’84. Disse che il Vaticano aveva chiesto ai vari movimenti dei giovani per dare una mano per la segreteria, l’ufficio stampa e via dicendo. Chiese: qualcuno di voi potrebbe? L’unico ero io, che mi ero appena laureato. Quindi per puro caso la sorte è caduta su di me: a gennaio sono partito e sono andato sei mesi a Roma a fare l’ufficio stampa dell’Anno Santo. Don Giussani è all’origine anche della mia prospettiva professionale. Ma non perché avesse idee o progetti su di me. Questo è un altro aspetto della sua vita. Lui buttava il sasso e poi eri in gioco tu. Non era un comando: «Fai questo». Era: «C’è qualcuno che può?». Più tardi, nel febbraio 1985, sono venuto a Milano e il rapporto è diventato stretto.

Per questo dicevi «pensavo di conoscerlo bene...»
Sì, perché si è stabilito un nesso molto personale e familiare, oltre che professionale. Una condivisione della vita. Ma questo lavoro, che mi ha costretto quasi a prendere distanza rispetto all’imponenza della sua presenza fisica, mi ha fatto scoprire che in tutti questi anni avevo colto una quantità infinitamente inferiore di dati mentre lo vedevo in azione. Tanto che più di una volta mi sono detto: «Ma io dove ero? Quando lui ci diceva queste cose, a una Giornata d’inizio, un’assemblea, un Consiglio nazionale, mentre urgeva questa preoccupazione per la vita nostra, mia - perché questo è un altro dato impressionante di don Giussani: questa costante, inesorabile, fortissima attenzione alla persona, a che l’io facesse esperienza; non che la comunità si allargasse o si perpetuasse, ma che la persona facesse la stessa esperienza che lui aveva del rapporto con Cristo -, io dove ero?». In certi momenti mi sono scandalizzato di questo. Una volta l’ho raccontato a Carrón. Ero addolorato. Come dire: ma guarda quante cose mi sono perduto.

E lui?
Mi ha detto: «Ma perché ti scandalizzi? Tu allora capivi per la coscienza e la maturità che avevi in quel momento. Ma senza l’esperienza che hai dovuto fare da allora ad oggi, ora non saresti stato in grado di sorprenderti di cose che avevi letto e ascoltato, ma che non coglievi. Guarda che è stato così anche per me. Io non ho avuto la tua fortuna di vedere Giussani tutti i giorni. Non lo vedevo mai. Cosa avevo di lui? I libri. Quindi li leggevo, li leggevo, li leggevo... Bene: adesso che li rileggo, scopro cose che neanche mi immaginavo. Perché l’esperienza di ora non è quella degli anni Ottanta. Allora, non c’è da scandalizzarsi. Anzi, c’è da ringraziare. Perché vuol dire che è un cammino». Per questo dicevo che è impressionante vedere come lui rilegge don Giussani. Come lo fa parlare adesso.

Ma tu puoi dire che adesso hai una percezione più acuta di cosa sia il carisma? Non tanto come inquadramento storico, ma come vita: è più tuo?
Assolutamente. Ho avuto un privilegio unico: potermi immergere per quasi cinque anni e mezzo in questa mole di dati che mi hanno restituito in presa diretta, senza mediazioni, l’evolversi della sua vita. L’evolversi di un carisma che non è qualcosa di fisso, codificato, ma è proprio questa modalità più persuasiva, convincente, adeguata ai tempi, per dire la cosa di sempre, la verità di sempre. Sì, lo sento più mio ora. Ma è un cammino.

E il tuo rapporto con Carrón è cambiato, in questi cinque anni?
Il mio rapporto con lui è cambiato il 19 marzo del 2005, il giorno della sua elezione a Presidente della Fraternità. Non ho vergogna di dire che in quel momento lui mi ha restituito la possibilità di un rapporto con Giussani che altrimenti, per l’intensità di quanto vissuto con lui e per il fatto che non c’era più fisicamente, sarebbe potuto scivolare in un dolore pieno di rammarico e nostalgia.

Perché quel giorno?
Perché appena eletto, nel primo discorso fatto da presidente, e quindi in una modalità completamene diversa da come aveva parlato fino al giorno prima, lui ha fatto una cosa per me impressionante. Di tutti i testi di don Giussani disponibili, ne ha scelto uno che, tra l’altro, è tra quelli a cui sono più affezionato: Il sacrificio più grande è dare la propria vita per l’opera di un Altro. È dei primi anni Novanta, dopo l’insorgere dei segni della malattia che lo tengono lontano dalla guida del movimento per qualche mese. Lì parla del carisma, che è l’effimero attraverso cui si arriva a Cristo. Senza l’effimero non c’è Cristo, ma senza Cristo non c’è significato. Sottolineando la storicità del carisma, che è in un presente. Quando Carrón lo ha ripreso dicendo «è quello che sta succedendo ora», io ho bruciato in un istante qualunque tentazione di ricordo nostalgico per don Giussani e ho cominciato a sentirlo «più padre che mai», più presente di prima. Perché non era venuto meno con il suo «effimero» ciò che quell’effimero mi portava. E quello che mi portava mi faceva sentire ancora più presente, palpitante, quella carne senza la quale chissà io dove sarei finito.

Dopo aver scritto questo libro, tu desideri conoscerlo ancora di più?
Guarda, io non sono uno storico, non ho mai avuto familiarità con un lavoro di ricerca. Sono consapevole di tutti i limiti di questo lavoro, che è un po’ diverso dalle biografie tradizionali. Ti dico la verità: il desiderio che avrei adesso sarebbe di scomparire. Vorrei soltanto che a chiunque avrà la pazienza di leggere anche un solo capitolo, venisse la curiosità di leggere e conoscere di più. So di aver scavato appena qualche centimetro sotto la superficie della vita di don Giussani. Sono certo che potranno venir fuori tanti altri documenti. Testimoni che non ho potuto sentire, o che non so neanche che esistono, perché don Giussani aveva una miriade tale di rapporti che solo una parte sono emersi alla superficie. Quindi, mi auguro che così come è nato in me il desiderio di continuare e approfondire, altri possano farlo ben più di me.

C’è un punto che ti ha commosso in maniera particolare, dove il contraccolpo è stato più forte?
La lettera ai genitori di Luigi, quel ragazzo di viale Lazio, dopo la morte. Don Giussani la scrive insieme alla sorella. E inizia: «Carissimi genitori...». Non sapendo come colmare il vuoto immenso di una madre per la perdita del figlio maschio, si mette al posto del figlio. Scrive come se fosse il figlio. È una lettera struggente, che dice dell’umanità sconfinata di don Giussani. E rafforza il giudizio che mi sono fatto, che quella vicenda sia stata decisiva per la sua vita. L’altra cosa altrettanto sorprendente è l’aver letto sul giornalino Christus, che lui redige con alcuni compagni di seminario, un articolo che scrive nell’estate del 1941, “Cristo Gesù è la nostra giovinezza di liceo”, in cui racconta l’esperienza dello studio. Per me, è stato un fulmine. In due colonne, sintetizza quello che sarà Il senso religioso, il suo libro più famoso. Parla di come nel rapporto con le materie dello studio accada l’esperienza decisiva del rapporto dell’uomo con la realtà, e quindi con il Mistero, e della necessità che succeda qualcosa che all’enigma della vita dia risposta. E alla fine introduce Cristo, che improvvisamente entra nella scena del mondo. Non è il don Giussani famoso che fonda il movimento, amico dei Papi, che gira il mondo... È un ragazzo, non ha ancora 19 anni. Ma lì ho visto tutta la verità della frase di Carrón su quanto la sua storia sia decisiva perché ha vissuto tutte le circostanze che sono toccate a noi. La sua vita non farà altro che approfondire e dilatare come presa di consapevolezza l’intuizione già manifestata in quell’articolo, per cui quelle due colonne diventeranno centinaia di pagine e fatti, nella continuità di uno sviluppo che è un approfondirsi.

Quella frase che citavi anche prima, «la gioia più grande della vita dell’uomo è quella di sentire Gesù Cristo vivo e palpitante», in qualche modo è più tua, adesso? Quando dici «Cristo» oggi, rispetto a quel febbraio 2008, dici qualcosa di diverso?
È pieno di carne. Quantomeno è un desiderio più consapevole in me. Non ti dico che descrive di più le mie giornate, la mia coscienza come una cosa definitivamente acquisita... Ma per aver visto che cosa produce in un uomo questa affermazione, questo cedere all’attrattiva di Cristo, io sento un desiderio più semplice che diventi mia. Che cominci a descrivermi. E - questo posso dirlo - in certi momenti mi sorprendo che sia così. 
di Davide Perillo

domenica 29 settembre 2013

Chi non coltiva la "memoria di Dio" si disumanizza.

 
il Papa ha messo in guardia dal rischio di far prevalere l’avere sull’essere, di mettere al centro della vita le cose, il denaro, la mondanità. «Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità»
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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica, 29 settembre 2013

1. «Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri, … distesi su letti d’avorio» (Am 6,1.4), mangiano, bevono, cantano, si divertono e non si curano dei problemi degli altri.
Parole dure queste del profeta Amos, ma che ci mettono in guardia da un pericolo che tutti corriamo. Che cosa denuncia questo messaggero di Dio, che cosa mette davanti agli occhi dei suoi contemporanei e anche davanti ai nostri occhi oggi? Il rischio di adagiarsi, della comodità, della mondanità nella vita e nel cuore, di avere come centro il nostro benessere. E’ la stessa esperienza del ricco del Vangelo, che indossava vestiti di lusso e ogni giorno si dava ad abbondanti banchetti; questo era importante per lui. E il povero che era alla sua porta e non aveva di che sfamarsi? Non era affare suo, non lo riguardava. Se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita ci afferrano, ci possiedono e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini: guardate bene, il ricco del Vangelo non ha nome, è semplicemente “un ricco”. Le cose, ciò che possiede sono il suo volto, non ne ha altri.
Ma proviamo a domandarci: come mai succede questo? Come mai gli uomini, forse anche noi, cadiamo nel pericolo di chiuderci, di mettere la nostra sicurezza nelle cose, che alla fine ci rubano il volto, il nostro volto umano? Questo succede quando perdiamo la memoria di Dio. “Guai agli spensierati di Sion”, diceva il profeta. Se manca la memoria di Dio, tutto si appiattisce, tutto va sull’io, sul mio benessere. La vita, il mondo, gli altri, perdono la consistenza, non contano più nulla, tutto si riduce a una sola dimensione: l’avere. Se perdiamo la memoria di Dio, anche noi stessi perdiamo consistenza, anche noi ci svuotiamo, perdiamo il nostro volto come il ricco del Vangelo! Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità – dice un altro grande profeta, Geremia (cfr Ger 2,5). Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, non a immagine e somiglianza delle cose, degli idoli!
2. Allora, guardandovi, mi chiedo: chi è il catechista? E’ colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in se stesso e la sa risvegliare negli altri. E’ bello questo: fare memoria di Dio, come la Vergine Maria che, davanti all’azione meravigliosa di Dio nella sua vita, non pensa all’onore, al prestigio, alle ricchezze, non si chiude in se stessa. Al contrario, dopo aver accolto l’annuncio dell’Angelo e aver concepito il Figlio di Dio, che cosa fa? Parte, va dall’anziana parente Elisabetta, anch’essa incinta, per aiutarla; e nell’incontro con lei il suo primo atto è la memoria dell’agire di Dio, della fedeltà di Dio nella sua vita, nella storia del suo popolo, nella nostra storia: «L’anima mia magnifica il Signore … perché ha guardato l’umiltà della sua serva … di generazione in generazione la sua misericordia» (Lc 1,46.48.50). Maria ha memoria di Dio.
In questo cantico di Maria c’è anche la memoria della sua storia personale, la storia di Dio con lei, la sua stessa esperienza di fede. Ed è così per ognuno di noi, per ogni cristiano: la fede contiene proprio la memoria della storia di Dio con noi, la memoria dell’incontro con Dio che si muove per primo, che crea e salva, che ci trasforma; la fede è memoria della sua Parola che scalda il cuore, delle sue azioni di salvezza con cui ci dona vita, ci purifica, ci cura, ci nutre. Il catechista è proprio un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà. Parlare e trasmettere tutto quello che Dio ha rivelato, cioè la dottrina nella sua totalità, senza tagliare né aggiungere.
San Paolo raccomanda al suo discepolo e collaboratore Timoteo soprattutto una cosa: Ricordati, ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, che io annuncio e per il quale soffro (cfr 2 Tm 2,8-9). Ma l’Apostolo può dire questo perché lui per primo si è ricordato di Cristo, che lo ha chiamato quando era persecutore dei cristiani, lo ha toccato e trasformato con la sua Grazia.
Il catechista allora è un cristiano che porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri. E’ impegnativo questo! Impegna tutta la vita! Lo stesso Catechismo che cos’è se non memoria di Dio, memoria della sua azione nella storia, del suo essersi fatto vicino a noi in Cristo, presente nella sua Parola, nei Sacramenti, nella sua Chiesa, nel suo amore? Cari catechisti, vi domando: siamo noi memoria di Dio? Siamo veramente come sentinelle che risvegliano negli altri la memoria di Dio, che scalda il cuore?
3. «Guai agli spensierati di Sion», dice il profeta. Quale strada percorrere per non essere persone “spensierate”, che pongono la loro sicurezza in se stessi e nelle cose, ma uomini e donne della memoria di Dio? Nella seconda Lettura san Paolo, scrivendo sempre a Timoteo, dà alcune indicazioni che possono segnare anche il cammino del catechista, il nostro cammino: tendere alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza (cfr 1 Tm 6,11).
Il catechista è uomo della memoria di Dio se ha un costante, vitale rapporto con Lui e con il prossimo; se è uomo di fede, che si fida veramente di Dio e pone in Lui la sua sicurezza; se è uomo di carità, di amore, che vede tutti come fratelli; se è uomo di “hypomoné”, di pazienza, di perseveranza, che sa affrontare le difficoltà, le prove, gli insuccessi, con serenità e speranza nel Signore; se è uomo mite, capace di comprensione e di misericordia.
Preghiamo il Signore perché siamo tutti uomini e donne che custodiscono e alimentano la memoria di Dio nella propria vita e la sanno risvegliare nel cuore degli altri. Amen.


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sabato 28 settembre 2013

Il Papa al Corpo dei gendarmi: difendete il Vaticano dalla zizzania delle chiacchiere

La “chiacchiere” sono una “lingua vietata” in Vaticano, perché è una lingua che genera il male. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa presieduta questa mattina al cospetto del Corpo della Gendarmeria Vaticana, nei pressi della Grotta di Lourdes dei Giardini Vaticani. Il servizio di Alessandro De Carolis:RealAudioMP3 

Nella rocca del Vaticano, il male ha un passaggio attraverso il quale s’insinua per spargere il suo veleno: è la “chiacchiera”, quella che porta l’uno a parlare male dell’altro e distrugge l'unità. E dal contagio di questa “zizzania” nessuno è immune. Davanti agli uomini della Gendarmeria Vaticana che lo guardano schierati, Papa Francesco si sottrae da una riflessione giusta ma forse scontata sul ruolo del gendarme difensore della sicurezza del Vaticano, per mettere nel mirino un altro avversario molto più subdolo della delinquenza comune e contro il quale è fondamentale ingaggiare la “lotta”:

“Qualcuno di voi potrà dirmi: ‘Ma, padre, noi come c’entriamo qui col diavolo? Noi dobbiamo difendere la sicurezza di questo Stato, di questa città: che non ci siano i ladri, che non ci siano i delinquenti, che non vengano i nemici a prendere la città’. Ma, anche quello è vero, ma Napoleone non tornerà più, eh? Se ne è andato. E non è facile che venga un esercito qui a prendere la città. La guerra oggi, almeno qui, si fa altrimenti: è la guerra del buio contro la luce; della notte contro il giorno”. 
Per questo, prosegue Papa Francesco, “vi chiedo non solo di difendere le porte, le finestre del Vaticano” – peraltro un lavoro necessario e importante – ma di difendere “come il vostro patrono San Michele” le porte del cuore di chi lavora in Vaticano, dove la tentazione “entra” esattamente come altrove:

“Ma c’è una tentazione... Ma, io vorrei dirla – la dico così per tutti, anche per me, per tutti – però è una tentazione che al diavolo piace tanto: quella contro l’unità, quando le insidie vanno proprio contro l’unità di quelli che vivono e lavorano in Vaticano. E il diavolo cerca di creare la guerra interna, una sorta di guerra civile e spirituale, no? E’ una guerra che non si fa con le armi, che noi conosciamo: si fa con la lingua”.

Una lingua armata appunto dalle “chiacchiere”, sorta di veleno dal quale Papa Francesco mette costantemente in guardia. E questo è ciò “che chiedo a voi”, incalza quindi il Papa all’indirizzo dei gendarmi, “di difenderci mutuamente dalle chiacchiere”:

Chiediamo a San Michele che ci aiuti in questa guerra: mai parlare male uno dell’altro, mai aprire le orecchie alle chiacchiere. E se io sento che qualcuno chiacchiera, fermarlo! ‘Qui non si può: gira la porta di Sant’Anna, va fuori e chiacchiera là! Qui non si può!’ ... è quello, eh? Il buon seme sì: parlare bene uno dell’altro sì, ma la zizzania no!”.

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venerdì 27 settembre 2013

Il Papa: il cristiano non evita la Croce ma porta le umiliazioni con gioia e pazienza

Le omelie del Papa a Santa Marta
La prova per capire se si è cristiani sta nella “capacità di portare con gioia e pazienza le umiliazioni”. Papa Francesco ha sottolineato questo aspetto della vita di fede nell’omelia della Messa celebrata questa mattina in Casa Santa Marta. Il Papa ha messo nuovamente in guardia dalla “tentazione del benessere spirituale”, che impedisce di amare Cristo con tutto se stessi. Il servizio di Alessandro De Carolis:RealAudioMP3 

Sì, “ma fino a un certo punto”. Il pericolo della tiepidezza, di una fede fatta di calcoli e passi trattenuti, è sempre dietro l’angolo. E Papa Francesco la snida con il consueto argomentare, che non lascia spazio a scuse. Punto di partenza, il Vangelo di Luca, nel brano in cui Gesù chiede prima ai discepoli cosa dica la gente di Lui e poi cosa dicano loro stessi, fino alla risposta di Pietro: “Il Cristo di Dio”. “Questa domanda è rivolta anche a noi”, osserva il Papa, che elenca subito dopo una serie di risposte dalle quali trapela l’essenza di una fede matura per metà. “Per te chi sono io? Il padrone di questa ditta, un buon profeta, un buon maestro, uno che ti fa bene al cuore?” – che pure è “tutto vero”. Sono “Uno che cammina con te nella vita, che ti aiuta ad andare avanti, a essere un po’ buono?”. Sì, è vero, ma non finisce lì:

“E’ stato lo Spirito Santo a toccare il cuore di Pietro per dire chi è Gesù. Se è il Cristo, il Figlio di Dio vivo, è un mistero, eh? Chi può spiegare quello... Ma Lui l’ha detto. E se ognuno di noi, nella sua preghiera, guardando il Tabernacolo, dice al Signore tu: ‘Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo', primo non può dirlo da se stesso, deve essere lo Spirito Santo a dirlo in lui. E, secondo, preparati, perché Lui ti risponderà: ‘E’ vero’”.
Alla risposta di Pietro, Gesù chiede di non rivelarlo a nessuno e poi annuncia la sua Passione, la sua morte e la sua Risurrezione. E qui, Papa Francesco ricorda la reazione del capo degli Apostoli, descritta nel Vangelo di San Matteo, che dichiara: “Questo non ti accadrà mai”. “Pietro – commenta il Papa – si spaventa, si scandalizza”, né più né meno di tanti cristiani che dicono: “Mai ti succederà questo! Io ti seguo fino a qui”. Un modo, cioè – pungola Papa Francesco – di “seguire Gesù per conoscerlo fino a un certo punto”:

“E questa è la tentazione del benessere spirituale. Abbiamo tutto: abbiamo la Chiesa, abbiamo Gesù Cristo, i Sacramenti, la Madonna, tutto, un bel lavoro per il Regno di Dio; siamo buoni, tutti. Perché almeno dobbiamo pensare questo, perché se pensiamo il contrario è peccato! Ma non basta con il benessere spirituale fino ad un certo punto. Come quel giovane che era ricco: voleva andare con Gesù, ma fino ad un certo punto. Manca quest’ultima unzione del cristiano, per essere cristiano davvero: l’unzione della croce, l’unzione dell’umiliazione. Lui umiliò se stesso fino alla morte, morte di tutto. Questa è la pietra di paragone, la verifica della nostra realtà cristiana: sono un cristiano della cultura del benessere? Sono un cristiano che accompagna il Signore fino alla croce? Il segno è la capacità di portare le umiliazioni”.

Lo scandalo della Croce continua però a bloccare molti cristiani. Tutti – constata Papa Francesco – vogliono risorgere, ma “non tutti” intendono farlo per la strada della Croce. E anzi, si lamentano dei torti o degli affronti subiti, comportandosi all’opposto di ciò che Gesù ha fatto e chiede di imitare:

“La verifica se un cristiano è un cristiano davvero è la sua capacità di portare con gioia e con pazienza le umiliazioni; e come questa è una cosa che non piace... ci sono tanti cristiani che, guardando il Signore, chiedono umiliazioni per assomigliare più a Lui. Questa è la scelta: o cristiano di benessere – che andrai al Cielo, eh?, sicuro ti salverai, eh? – o cristiano vicino a Gesù, per la strada di Gesù”.


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Francesco ai catechisti: “Meglio una Chiesa incidentata piuttosto che chiusa”

Papa Francesco
PAPA FRANCESCO

“La catechesi è un pilastro per l'educazione della fede, e ci vogliono buoni catechisti!”; e per esserlo bisogna “ripartire da Cristo”, avere familiarità con Lui, imitarlo nell’uscire da sé, che significa “non aver paura di andare con Lui nelle periferie”. Lo ha detto papa Francesco nell'udienza ai partecipanti al Congresso internazionale sulla Catechesi (in corso da ieri fino a domani nell'Aula Paolo VI) promosso in occasione dell'Anno della Fede. All'inconntro, che tratta il tema “Il catechista, testimone della fede”, sono presenti 1600 tra catechisti, operatori pastorali, docenti ed esperti di varie realtà formative.



Index
 



DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CONGRESSO INTERNAZIONALE SULLA CATECHESI
Aula Paolo VI
Venerdì, 27 settembre 2013
 
Cari catechisti, buonasera!
Mi piace che nell’Anno della fede ci sia questo incontro per voi: la catechesi è un pilastro per l’educazione della fede, e ci vogliono buoni catechisti! Grazie di questo servizio alla Chiesa e nella Chiesa. Anche se a volte può essere difficile, si lavora tanto, ci si impegna e non si vedono i risultati voluti, educare nella fede è bello! E’ forse la migliore eredità che noi possiamo dare: la fede! Educare nella fede, perché lei cresca. Aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani, gli adulti a conoscere e ad amare sempre di più il Signore è una delle avventure educative più belle, si costruisce la Chiesa! “Essere” catechisti! Non lavorare da catechisti: questo non serve! Io lavoro da catechista perché mi piace insegnare… Ma se tu non sei catechista, non serve! Non sarai fecondo, non sarai feconda! Catechista è una vocazione: “essere catechista”, questa è la vocazione, non lavorare da catechista. Badate bene, non ho detto “fare” i catechisti, ma “esserlo”, perché coinvolge la vita. Si guida all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. Ricordatevi quello che Benedetto XVI ci ha detto: “La Chiesa non cresce per proselitismo. Cresce per attrazione”. E quello che attrae è la testimonianza. Essere catechista significa dare testimonianza della fede; essere coerente nella propria vita. E questo non è facile.  Non è facile! Noi aiutiamo, noi guidiamo all’incontro con Gesù con le parole e con la vita, con la testimonianza. A me piace ricordare quello che san Francesco di Assisi diceva ai suoi frati: “Predicate sempre il Vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole”. Le parole vengono… ma prima la testimonianza: che la gente veda nella nostra vita il Vangelo, possa leggere il Vangelo. Ed “essere” catechisti chiede amore, amore sempre più forte a Cristo, amore al suo popolo santo. E questo amore non si compra nei negozi, non si compra qui a Roma neppure. Questo amore viene da Cristo! E’ un regalo di Cristo! E’ un regalo di Cristo! E se viene da Cristo parte da Cristo e noi dobbiamo ripartire da Cristo, da questo amore che Lui ci dà, Che cosa significa questo ripartire da Cristoper un catechista, per voi, anche per me, perché anch’io sono catechista? Cosa significa?
Io parlerò di tre cose: uno, due e tre, come facevano i vecchi gesuiti… uno, due e tre!
1. Prima di tutto, ripartire da Cristo significa avere familiarità con Lui, avere questa familiarità con Gesù: Gesù lo raccomanda con insistenza ai discepoli nell’Ultima Cena, quando si avvia a vivere il dono più alto di amore, il sacrificio della Croce. Gesù utilizza l’immagine della vite e dei tralci e dice: rimanete nel mio amore, rimanete attaccati a me, come il tralcio è attaccato alla vite. Se siamo uniti a Lui possiamo portare frutto, e questa è la familiarità con Cristo. Rimanere in Gesù! E’ un rimanere attaccati a Lui, dentro di Lui, con Lui, parlando con Lui: rimanere in Gesù.
La prima cosa, per un discepolo, è stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui. E questo vale sempre, è un cammino che dura tutta la vita. Ricordo, tante volte in diocesi, nell’altra diocesi che avevo prima, di aver visto alla fine dei corsi nel seminario catechistico, i catechisti che uscivano dicendo: “Ho il titolo di catechista!”. Quello non serve, non hai niente, hai fatto una piccola stradina! Chi ti aiuterà? Questo vale sempre! Non è un titolo, è un atteggiamento: stare con Lui; e dura tutta la vita! E’ uno stare alla presenza del Signore, lasciarsi guardare da Lui. Io vi domando: Come state alla presenza del Signore? Quando vai dal Signore, guardi il Tabernacolo, che cosa fate? Senza parole… Ma io dico, dico, penso, medito, sento… Molto bene! Ma tu ti lasci guardare dal Signore? Lasciarci guardare dal Signore. Lui ci guarda e questa è una maniera di pregare. Ti lasci guardare dal Signore? Ma come si fa? Guardi il Tabernacolo e ti lasci guardare… è semplice! E’ un po’ noioso, mi addormento... Addormentati, addormentati! Lui ti guarderà lo stesso, Lui ti guarderà lo stesso. Ma sei sicuro che Lui ti guarda! E questo è molto più importante del titolo di catechista: è parte dell’essere catechista. Questo scalda il cuore, tiene acceso il fuoco dell’amicizia col Signore, ti fa sentire che Lui veramente ti guarda, ti è vicino e ti vuole bene. In una delle uscite che ho fatto, qui a Roma, in una Messa, si è avvicinato un signore, relativamente giovane, e mi ha detto: “Padre, piacere di conoscerla, ma io non credo in niente! Non ho il dono della fede!”. Capiva che era un dono. “Non ho il dono della fede! Che cosa mi dice lei?”. “Non ti scoraggiare. Lui ti vuole bene. Lasciati guardare da Lui! Niente di più”. E questo lo dico a voi: lasciatevi guardare dal Signore! Capisco che per voi non è così semplice: specialmente per chi è sposato e ha figli, è difficile trovare un tempo lungo di calma. Ma, grazie a Dio, non è necessario fare tutti nello stesso modo; nella Chiesa c’è varietà di vocazioni e varietà di forme spirituali; l’importante è trovare il modo adatto per stare con il Signore; e questo si può, è possibile in ogni stato di vita. In questo momento ognuno può domandarsi: come vivo io questo “stare” con Gesù? Questa è una domanda che vi lascio: “Come vivo io questo stare con Gesù, questo rimanere in Gesù?”. Ho dei momenti in cui rimango alla sua presenza, in silenzio, mi lascio guardare da Lui? Lascio che il suo fuoco riscaldi il mio cuore? Se nel nostro cuore non c’è il calore di Dio, del suo amore, della sua tenerezza, come possiamo noi, poveri peccatori, riscaldare il cuore degli altri? Pensate a questo!
2. Il secondo elemento è questo. Secondo: ripartire da Cristo significa imitarlo nell’uscire da sé e andare incontro all’altro. Questa è un’esperienza bella, e un po’ paradossale. Perché? Perché chi mette al centro della propria vita Cristo, si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti decentra e ti apre agli altri. Questo è il vero dinamismo dell’amore, questo è il movimento di Dio stesso! Dio è il centro, ma è sempre dono di sé, relazione, vita che si comunica… Così diventiamo anche noi se rimaniamo uniti a Cristo, Lui ci fa entrare in questo dinamismo dell’amore. Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo. E questo è il lavoro del catechista: uscire continuamente da sé per amore, per testimoniare Gesù e parlare di Gesù, predicare Gesù. Questo è importante perché lo fa il Signore: è proprio il Signore che ci spinge a uscire.
Il cuore del catechista vive sempre questo movimento di “sistole - diastole”: unione con Gesù - incontro con l’altro. Sono le due cose: io mi unisco a Gesù ed esco all’incontro con gli altri. Se manca uno di questi due movimenti non batte più, non può vivere. Riceve in dono il kerigma, e a sua volta lo offre in dono. Questa parolina: dono. Il catechista è cosciente che ha ricevuto un dono, il dono della fede e lo dà in dono agli altri. E questo è bello. E non se ne prende per sé la percentuale! Tutto quello che riceve lo dà! Questo non è un affare! Non è un affare! E’ puro dono: dono ricevuto e dono trasmesso. E il catechista è lì, in questo incrocio di dono. E’ così nella natura stessa del kerigma: è un dono che genera missione, che spinge sempre oltre se stessi. San Paolo diceva: «L’amore di Cristo ci spinge», ma quel “ci spinge” si può tradurre anche “ci possiede”. E’ così: l’amore ti attira e ti invia, ti prende e ti dona agli altri. In questa tensione si muove il cuore del cristiano, in particolare il cuore del catechista. Chiediamoci tutti: è così che batte il mio cuore di catechista: unione con Gesù e incontro con l’altro? Con questo movimento di “sistole e diastole”? Si alimenta nel rapporto con Lui, ma per portarlo agli altri e non per ritenerlo? Vi dico una cosa: non capisco come un catechista possa rimanere fermo, senza questo movimento. Non capisco!
3. E il terzo elemento – tre - sta sempre in questa linea: ripartire da Cristo significa non aver paura di andare con Lui nelle periferie. Qui mi viene in mente la storia di Giona, una figura davverointeressante, specialmente nei nostri tempi di cambiamenti e di incertezza. Giona è un uomo pio, con una vita tranquilla e ordinata; questo lo porta ad avere i suoi schemi ben chiari e a giudicare tutto e tutti con questi schemi, in modo rigido. Ha tutto chiaro, la verità è questa. E’ rigido! Perciò quando il Signore lo chiama e gli dice di andare a predicare a Ninive, la grande città pagana, Giona non se la sente. Andare là! Ma io ho tutta la verità qui!. Non se la sente…Ninive è al di fuori dei suoi schemi, è alla periferia del suo mondo. E allora scappa, se ne va in Spagna, fugge via, si imbarca su una nave che va da quelle parti. Andate a rileggere il Libro di Giona! E’ breve, ma è una parabola molto istruttiva, specialmente per noi che siamo nella Chiesa.
Che cosa ci insegna? Ci insegna a non aver paura di uscire dai nostri schemi per seguire Dio, perché Dio va sempre oltre. Ma sapete una cosa? Dio non ha paura! Sapevate questo voi? Non ha paura! E’ sempre oltre i nostri schemi!  Dio non ha paura delle periferie. Ma se voi andate alle periferie, lo troverete lì. Dio è sempre fedele, è creativo. Ma, per favore, non si capisce un catechista che non sia creativo. E la creatività è come la colonna dell’essere catechista. Dio è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido! Ci accoglie, ci viene incontro, ci comprende. Per essere fedeli, per essere creativi, bisogna saper cambiare. Saper cambiare. E perché devo cambiare? E’ per adeguarmi alle circostanze nelle quali devo annunziare il Vangelo. Per rimanere con Dio bisogna saper uscire, non aver paura di uscire. Se un catechista si lascia prendere dalla paura, è un codardo; se un catechista se ne sta tranquillo, finisce per essere una statua da museo: e ne abbiamo tanti! Ne abbiamo tanti! Per favore, niente statue da museo! Se un catechista è rigido diventa incartapecorito e sterile. Vi domando: qualcuno di voi vuole essere codardo, statua da museo o sterile? Qualcuno ha questa voglia? [catechisti: No!] No? Sicuro? Va bene! Quello che dirò adesso lo ho detto tante volte, ma mi viene dal cuore di dirlo. Quando noi cristiani siamo chiusi nel nostro gruppo, nel nostro movimento, nella nostra parrocchia, nel nostro ambiente, rimaniamo chiusi e ci succede quello che accade a tutto quello che è chiuso; quando una stanza è chiusa incomincia l’odore dell’umidità. E se una persona è chiusa in quella stanza, si ammala! Quando un cristiano è chiuso nel suo gruppo, nella sua parrocchia, nel suo movimento, è chiuso, si ammala. Se un cristiano esce per le strade, nelle periferie, può succedergli quello che succede a qualche persona che va per la strada: un incidente. Tante volte abbiamo visto incidenti stradali. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, e non una Chiesa ammalata! Una Chiesa, un catechista che abbia il coraggio di correre il rischio per uscire, e non un catechista che studi, sappia tutto, ma chiuso sempre: questo è ammalato. E alle volte è ammalato dalla testa….
Ma attenzione! Gesù non dice: andate, arrangiatevi. No, non dice quello! Gesù dice: Andate, io sono con voi! Questa è la nostra bellezza e la nostra forza: se noi andiamo, se noi usciamo a portare il suo Vangelo con amore, con vero spirito apostolico, con parresia, Lui cammina con noi, ci precede, – lo dico in spagnolo – ci “primerea”. Il Signore sempre ci “primerea”! Ormai avete imparato il senso di questa parola. E questo lo dice la Bibbia, non lo dico io. La Bibbia dice, il Signore dice nella Bibbia: Io sono come il fior del mandorlo. Perché? Perché è il primo fiore che fiorisce nella primavera. Lui è sempre “primero”! Lui è primo! Questo è fondamentale per noi: Dio sempre ci precede! Quando noi pensiamo di andare lontano, in una estrema periferia, e forse abbiamo un po’ di timore, in realtà Lui è già là: Gesù ci aspetta nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima senza fede. Ma voi sapete una delle periferie che mi fa così tanto male che sento dolore - lo avevo visto nella diocesi che avevo prima? E’ quella dei bambini che non sanno farsi il Segno della Croce. A Buenos Aires ci sono tanti bambini che non sanno farsi il Segno della Croce. Questa è una periferia! Bisogna andare là! E Gesù è là, ti aspetta, per aiutare quel bambino a farsi il Segno della Croce. Lui sempre ci precede.
Cari catechisti, sono finiti i tre punti. Sempre ripartire da Cristo! Vi dico grazie per quello che fate, ma soprattutto perché ci siete nella Chiesa, nel Popolo di Dio in cammino, perché camminate con il Popolo di Dio. Rimaniamo con Cristo - rimanere in Cristo - cerchiamo di essere sempre più una cosa sola con Lui; seguiamolo, imitiamolo nel suo movimento d’amore, nel suo andare incontro all’uomo; e usciamo, apriamo le porte, abbiamo l’audacia di tracciare strade nuove per l’annuncio del Vangelo.
Che il Signore vi benedica e la Madonna vi accompagni. Grazie!
Maria è nostra Madre,
Maria sempre ci porta a Gesù!
Facciamo una preghiera, uno per l’altro, alla Madonna.
[Ave Maria]
[Benedizione]
Grazie tante!


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