lunedì 26 ottobre 2015

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 21 ottobre 2015

 
 • 1  - The things that I see
•  2 - E se domani
Gloria Veni Sancte Spiritus
Incominciamo riprendendo la Giornata d’inizio anno. Inizio leggendo una lettera che scrive una persona a un amico (il quale l’ha poi mandata a me), perché la considero importante dal punto di vista del metodo, su che cosa significa lavorare sulla Giornata d’inizio anno, perché una grazia è data a uno per tutti. «A una cena con alcune persone sulle problematiche del nostro lavoro, essendo tutti del movimento si affrontano anche questioni cielline, e in quell’occasione il tema era la Giornata d’inizio anno che si era tenuta qualche giorno prima. Come sai, è ormai quasi venti anni che non partecipo più ad alcuna attività del movimento; anche se sono – possiamo dire – simpatizzante, non riesco a fare di meglio. Quella sera, poco prima della cena, mi sono stampato il testo dal sito. Non l’avevo letto, ma ero fortemente interessato e curioso di conoscere dai partecipanti alla cena quale indicazione il movimento intendesse dare per questo anno, anche perché, a essere sincero, se avessi avuto l’opportunità o qualcuno mi avesse invitato, probabilmente sarei personalmente andato alla Giornata d’inizio anno. La discussione è stata ricca di citazioni e spiegazioni di alcuni concetti evocati da Carrón. Non sono mancate, come al solito, le disquisizioni più o meno dotte sulle differenze di impostazione tra Giussani e Carrón tipo: “Però questo il Gius lo avrebbe detto in un altro modo”, “Giussani in questo altro contesto avrebbe detto così”, “Molto bello questo punto”, “Molto bello anche quest’altro”, “È proprio vero quando dice…”; tutte cose che certamente sono corrette dal punto di vista teologico e anche intellettualmente profonde, ma che non hanno appagato la mia curiosità. Mi dicevo, intanto che ascoltavo: ma perché dovrei ricominciare a interessarmi? Perché non la smetto definitivamente di reinterrogarmi da venti anni se valga la pena lasciarmi ancora coinvolgere in un’esperienza che mi ha cambiato la vita e a cui ho dato tutto di me tanti anni fa? Perché dovrei aderire di nuovo? Solo per poter dire anche io la mia in queste discussioni per niente interessanti? Sono arrivato a casa, a notte inoltrata, deluso. Consentimi una citazione azzardata dal Vangelo dei discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse Lui, invece…”. Anche io speravo che in quella cena potesse accadere qualcosa per me. Poi mi sono messo a leggere con attenzione gli appunti che avevo scaricato, non volevo credere che potesse davvero essere finita così: e sono rimasto letteralmente folgorato! Ho letto e riletto l’intervento di Carrón, e più rileggevo quelle parole, più mi commuovevo. Stava proprio parlando a me, alla mia situazione di resistenza insistente a quell’attrattiva della bellezza che pur mi aveva travolto anni fa e che quasi non speravo più possibile per me. Non voglio rischiare di ripetere o interpretare la Giornata d’inizio anno, ma improvvisamente ho finalmente cominciato a vedere, come il cieco nato. Ho capito e ho visto quanto in fondo è semplice, è fatta per me e non posso più negare questa attrattiva. È semplice. Perché, come viene detto a un certo punto: non si “può pensare […] che il metodo immaginato da noi possa essere più incidente di quello scelto da Dio […] non possiamo […] recuperare con il nostro fare ciò che abbiamo perso nella vita. Questa, dunque, è la nostra responsabilità: non resistere al metodo di Dio” (p. XV). È semplice, non bisogna inventarsi altro. È il metodo di Dio, appunto. Altro che le discussioni su Carrón e Giussani e la correttezza dell’interpretazione autentica del carisma eccetera eccetera! È tutto detto nella Giornata d’inizio anno; non sono magari capace di ridirlo e spiegarlo, basta leggerlo, ma è tutto chiaro e semplice. Come il cieco nato posso dire: “Io una cosa sola so: prima non ci vedevo, ma adesso ci vedo”. 2 Penso che, se mi consenti, un azzardo di sintesi di tutta la Giornata d’inizio anno possa essere quella bellissima frase conclusiva del libro del Gius Decisione per l’esistenza, che ho stampata indelebilmente nella memoria dai primi giorni, quarant’anni fa, in cui quella attrattiva mi ha preso: “Il cammino del Signore è semplice come quello di Giovanni e Andrea, di Simone e Filippo, che hanno cominciato ad andare dietro a Cristo: per curiosità e desiderio. Non c’è altra strada, al fondo, oltre questa curiosità desiderosa destata dal presentimento del vero” [ora in L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Bur, Milano 2007, p. 125]». Mi sembra che la lettera ponga una questione fondamentale di metodo per ciascuno di noi, per il modo con cui lavora – adesso su questo testo, domani sarà Riconoscere Cristo, dopodomani Perché la Chiesa – e si pone davanti alle cose. Ciò che ci siamo detti nella Giornata d’inizio anno, su cui don Giussani insiste, è il primato assoluto dell’avvenimento della fede. E questo nessuno, mi sembra, oserebbe metterlo in discussione, perché non sarebbe qui, non sarebbe leale con l’esperienza iniziale per cui è qui. Ma poi, una volta che questo è successo, possiamo cambiare il metodo, come se dopo non occorresse l’avvenimento a ridestare di nuovo tutta l’attrattiva nei confronti della nostra partecipazione. La delusione (testimoniata dalla lettera) nasce perché si cambia il metodo, perché si resiste al metodo. Mi sembra fondamentale che guardiamo questo, perché è una correzione fondamentale che don Giussani ci fa indicando la natura del cristianesimo. Senza questo, noi possiamo fare tutti i commenti, ma chi ci ascolta non può non tornare a casa deluso: «Io speravo…». Non basta che noi diciamo: «È così. Non è così». Possiamo discutere per ore, ma quel che non decidiamo noi è che cosa prende l’altro, che cosa è in grado di corrispondere all’attesa dell’altro. Capita quando capita. L’avvenimento – lo sappiamo, no? – accade come racconta il nostro amico nella lettera, e ciascuno dei partecipanti a quella cena deludente lo potrebbe dire di altre occasioni della vita. Perché «se l’avvenimento della fede […] è dato per ovvio, e tutto si riduce solo a spiegazioni o a dialettica […] quale interesse potrà ancora destare in noi?», ci eravamo detti già alla Giornata d’inizio anno. «Non riuscirà a prenderci neanche un minuto [un istante]. Perché nessuno dei nostri tentativi può produrre la novità umana attraverso cui Cristo ci affascina e ci fa interessare a Lui» (p. VIII). Come è capitato ad Abramo: non avrebbe potuto produrre un solo istante di quella novità che è entrata nella sua vita. Perciò mi sembra che questo contributo ci offra un suggerimento, una conferma della strada. Ciao. Ciao. Tu che fai nella vita? Il musicista. La domanda è sull’esempio del clown e del villaggio di Kierkegaard che, dopo averne parlato anche al mio gruppetto di Scuola di comunità, non mi è ancora del tutto chiaro. O meglio: in sé l’esempio è chiaro, ma non capisco la sua portata all’interno del primo punto della tua lezione («Le circostanze e la forma della testimonianza»). Oltre all’esempio, cito due tue frasi: «E per non apparire anche lui [don Giussani] come un clown, da subito aveva cercato di mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita». Oppure: «Lui [sempre Giussani], che conosceva molto bene la dottrina cattolica, si è dovuto interrogare sulla modalità più adeguata per comunicare la verità, la verità di sempre, in un contesto che stava cambiando rapidamente» (pp. VVI). Quindi, dopo questo passaggio, avrei riassunto la sfida così: come o attraverso quale strategia posso testimoniare la verità del cristianesimo senza finire per fare la figura del pagliaccio? Ma io non credo che ci sia in gioco solo questo, vero? Già. E infatti pensavo alla vita di tanti santi, come per esempio san Paolo. Quando parla davanti all’aeropago di Atene, gli Atti degli Apostoli riportano: «Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano [stesso verbo], altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17,32). Quindi direi che in qualche modo anche Paolo ha fatto la figura del clown. Eppure, continua sempre il testo, «alcuni si unirono a lui e divennero credenti». E Gesù stesso ha fatto la medesima figura, pur peggiore, se nei Vangeli possiamo trovare: «Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo, e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano 3 [ancora]: “Salve, re dei Giudei!”». Ma Egli ha tirato dritto e ha salvato il mondo lo stesso. Quindi sembra quasi inevitabile questa figura del pagliaccio. E allora perché questo accento sulla figura del clown? E secondo te perché Giussani insiste che le circostanze sono decisive per il definirsi della nostra testimonianza? Attenzione a non confonderci. Gli esempi del Nuovo Testamento che tu fai indicano un aspetto verissimo: che è sempre possibile rifiutare la verità come tale. Entrando in rapporto con san Paolo, con Gesù, con te o con me le persone possono aderire o non aderire. Ma io – io – prima di arrivare lì devo domandarmi se la modalità con cui dico la verità è adeguata o meno alle persone, come faceva don Giussani. Quando hanno incontrato don Giussani tanti che avevano ricevuto la predicazione della Chiesa l’avevano già scartata. Lo dicono loro stessi e lo dice don Giussani: quando va al Berchet tanti studenti erano figli di genitori cristiani, avevano partecipato in qualche modo alla vita della Chiesa, e vi avevano rinunciato. Allora perché, dopo, si sono sentiti chiamati di nuovo dalla modalità con cui don Giussani ha testimoniato la fede? Perché hanno percepito che questa testimonianza era più pertinente per rispondere alle esigenze della loro vita. Loro avevano già ricevuto l’annuncio cristiano, ma non lo sentivano più pertinente alla vita. Per questo don Giussani insiste che una qualsiasi modalità di testimonianza non è ugualmente pertinente. Perché? Perché la fede si cala in una circostanza storica reale. E tutto lo sforzo del Concilio Vaticano II non è stato quello di cambiare la dottrina, ma di cercare una modalità più adeguata per comunicarla in un contesto storico-culturale mutato. Capite? Questo non vuol dire che, anche di fronte alla testimonianza più vera (come quelle che hai citato di san Paolo e Gesù), uno non possa dire di no, ci mancherebbe; ogni sfida della verità può esser rifiutata, perché è rivolta alla ragione e alla libertà della persona. Ma prima di incolpare gli altri perché la rifiutano, io mi domando tante volte se la modalità con cui l’ho annunciata a un altro è stata la più adeguata. Voglio essere sicuro che la rifiutano non perché la modalità della mia testimonianza è inadeguata, ma che la rifiutano in quanto tale, per una scelta della libertà. Ma il rischio in questo caso non è di misurarsi sul successo dell’annuncio? Non è un problema di misura. È uno struggimento per l’altro. A un padre non piacerebbe comunicare la verità al figlio in modo persuasivo? Oppure pensa a te: quando insegni musica non ti piacerebbe farlo in modo da accendere nei tuoi studenti la passione per essa? Quante persone conosci che rifiutano la musica perché vi sono state introdotte in maniera palesemente inadeguata? Tu lo sai perfettamente. Questo è il problema. Ed è un problema reale. Altra cosa è che, malgrado si trovi davanti al miglior professore di musica, uno la possa rifiutare comunque. La libertà ultima dell’altro non è in discussione. Ma questo non ti toglie il desiderio di migliorare e di verificare continuamente la modalità della tua comunicazione per destare la passione nei tuoi studenti; sì o no? Sì. Grazie. E questo la gente lo capisce. Io sono infermiera. Qualche settimana fa, prima della Giornata d’inizio anno, ho attraversato alcuni giorni al lavoro in cui costantemente mi invadeva il cuore una domanda di significato sul mio tempo in reparto, che chiede sempre più spazio alla mia vita. In alcuni momenti, però, questa domanda si tramutava in un dubbio: ma sarà il posto giusto? O: ma starò veramente costruendo qualcosa? Una mattina la mia caposala mi chiama a colloquio per discutere di una proposta di studio, e prima di andarmene dall’ufficio mi ferma e mi dice: «Aspetta, devo dirti una cosa importante». Io, nella mia stupidità, ho pensato: mi avrà beccata… Avrai combinato qualche guaio! Esatto. E invece mi guarda e mi dice: «Io ti ho osservata molto in questi mesi di inizio di lavoro, e mi sono accorta di una cosa: quando tu sei al lavoro si genera un clima diverso, si lavora insieme. Chiunque, dalla signora che pulisce le stanze alla collega infermiera, al chirurgo, ha desiderio di essere travolto dalla tua febbre di vita. E questo senza che tu faccia o dica qualcosa di particolare, anche perché sei l’ultima arrivata e hai ancora giustamente tutto da imparare. Ma quel che è 4 sempre dolorosamente mancato in questo posto è un lavoro di equipe; tutti bravi e preparati, ma spesse volte incapaci di accogliere l’altro. Tu sei il regalo che tanto aspettavamo». Io ero senza parole. In quel momento entra un medico per chiedermi di fare una trasfusione, e in un attimo mi ritrovo travolta dalla vita del reparto. D’impeto mi è accaduto di pensare: questa è la misura con cui Tu mi guardi; non la misura con cui mi guarderei io, ma la misura con cui mi guardi Tu, e io mi ritrovo stupita, tanto quanto la mia caposala, di ciò che Tu fai con la mia vita; eppure non basta, vorrei amare di più questa donna, vorrei amare di più i miei colleghi, vorrei amare di più questo posto. Più la vita è segno che il rapporto con Lui è infinito e più Lo ritrovo davanti agli occhi e più Lo voglio di nuovo e di più. La testimonianza deve coincidere con questo stupore davanti a Lui e questo bisogno di stare ancora e di più insieme a Lui, proprio come descrivevi alla Giornata d’inizio anno parlando degli apostoli: non un fare, non le parole giuste, ma lasciarsi travolgere da questo stupore. Perché vedo che è questo che mi sta facendo generare lì dove sono. Non per questo non devi fare il tuo mestiere, perché è proprio la modalità con cui lo fai che stupisce. La testimonianza non è «non fare», ma è «fare diversamente» le solite cose, con la novità che introduce nella vita il guardare Lui. E allora le persone lo riconoscono perché, come dicevamo prima, non ti percepiscono come un clown, ma come il regalo che tanto aspettavano: incontrare una persona che, vivendo così – perché tu sola sai qual è l’origine della novità che porti –, è per tutti. È questa la modalità della testimonianza: una presenza pertinente alle esigenze di quel che gli altri vivono. Io ti sarei molto grata se potessimo approfondire la questione che le circostanze sono fattore essenziale, fondamentale della propria vocazione personale, perché questa cosa non riesco proprio a togliermela dalla testa. Ho bisogno di capire cosa vuol dire che le circostanze, in particolare quelle che feriscono di più, sono preziose perché attraverso di esse il Mistero ci chiama a Sé. Più che bisogno di capirlo, è proprio un bisogno di poterlo accettare. Anzitutto: di poterlo guardare. Prima di ogni cosa, le circostanze capitano, sono la modalità attraverso cui il Mistero ti chiama a rispondere. Brutte o belle che siano, le circostanze ci chiamano. Per questo don Giussani ci ha sempre introdotto alla vita dicendo che la vita è vocazione, la vita è la chiamata che il Mistero ci fa attraverso le circostanze. Per questo esse sono fattore essenziale della modalità con cui siamo chiamati. Non è che Dio ti dia certe circostanze e poi ti chiami da un’altra parte; ti chiama attraverso le circostanze che ti mette davanti. E quali sono le circostanze più semplici, più chiare? Quelle che sono inevitabili, perché, non avendole scelte tu, puoi essere sicura che ti sono date dal Mistero. Il Mistero non ti prepara prima per un evento e dopo te lo dà; permette la malattia, per esempio, e poi ti dà tutto il tempo per capirne il significato. Ti chiama. Altrimenti mai lo scopriremo, perché nessuno entra in queste cose con l’immaginazione, vi entra perché la vita lo chiama a viverle. E così uno può scoprire, se accetta di riconoscere le circostanze come la chiamata di un Altro, non una serie di fattori in fondo senza volto, bensì che dietro la realtà – e questa è la prima questione – c’è il volto buono del Mistero che ti sta chiamando. Ancora non sai a che cosa potrà portare, ti può sembrare apparentemente “contro”, puoi non riuscire a capire; ma per quel che ti è capitato nella vita, tu non puoi evitare, nel vivere quelle circostanze, di riconoscere la Presenza che te le dà. E questo apre «processi nuovi», come dice il Papa, apre il cammino. La fede non ti risparmia il rapporto con la realtà, la fede ti dà la compagnia di Cristo presente nella compagnia della Chiesa per aiutarti a scoprire il significato di ciò che vivi. È cruciale. In questo caso, cosa significa per te? Che più ti feriscono le circostanze, più ti senti sproporzionata, e più sei richiamata a riconoscere il Mistero che te le dà e che ti consente di viverle in un modo umano. Chi potrebbe vivere, come tu dici, le ferite più profonde senza la compagnia di un Altro? E questo come lo scopri? Attraverso le circostanze, perché è quando la vita ti mette alle strette che hai la possibilità – niente è meccanico – di aprirti al Mistero che si fa conoscere anche attraverso questo. Attraverso un Tu. 5 Come ti ho scritto, se c’è una cosa che non sopporto, così a pelle, è sentire le canzoni scritte per un uomo o una donna traslate a un significato più “alto”. No, no, no! Voglio spiegare bene questo: non sono traslate a un’altra cosa. Io le faccio cantare per spiegare – poi continua il tuo intervento – che già al livello elementare del vivere noi abbiamo la percezione chiara e netta che la presenza di un tu (minuscolo) non è qualcosa che rovina l’autonomia dell’io, ma che lo rende più se stesso. Questo lo sappiamo già al livello elementare dell’esperienza umana, ben prima che Dio diventi un Tu incontrabile. Non faccio cantare La mente torna perché pensiate immediatamente a Cristo. No. Faccio cantare La mente torna perché pensiate innanzitutto a quel che cantiamo. Perché viviamo in una mentalità in cui la persona è chiusa in se stessa, è concepita individualisticamente come autonomia totale, senza legami. Invece occorre cominciare a vedere che nell’esperienza comune tutti riconoscono che «non sono quando non ci sei». E se questo succede già nell’esperienza comune, immagina quando il problema del vivere comincia a crescere, quando l’urgenza diventa più stringente. Quindi la Giornata d’inizio anno comincia con una canzone così, come anche stasera... Anche questa sera: era per te! E allora io subito reagisco con un po’ di disagio e penso: che esperienza affascinante quella di Battisti e Mogol, che scrivono queste cose per una donna, questa è un’esperienza concreta, reale, desiderabile. E invece pensare a un Tu con la maiuscola mi sembra un “di meno”. Poi la Giornata d’inizio anno è andata avanti, io ho accantonato molto velocemente questo disagio, ho ascoltato, ero con delle mie amiche, sono rimasta colpita da tante cose che hai detto, e quindi è andato tutto bene, ero molto contenta. Quando con la Scuola di comunità ho cominciato a lavorare, a riprendere in mano il testo, mi è tornato fuori questo disagio e ho pensato: perché un Tu mi sembra di meno? Mi sono sentita un po’, per riprendere l’esempio del clown, pagliaccio a me stessa, come se la mia esperienza di fede non fosse credibile (neanche per me!). Questa è la mia domanda. La prima risposta che mi è venuta è un proverbio abbastanza stupido, che neanche dice esattamente quel che voglio dire, però mi è venuto in mente: meglio un uovo oggi che una gallina domani. Al di là che non sia ciò che penso esattamente, però mi ha fatto pensare subito, questo fatto dell’oggi e del domani, che comunque per me il Tu non è una presenza oggi. Questo riconoscimento è già un passo. La prima questione è lasciare aperto questo disagio e cominciare, come hai fatto oggi, ad avere la libertà di guardarlo. E se continui a lasciare aperta questa domanda, senza accantonarla, staremo a vedere che cosa scoprirai. Perché quanto più abbiamo una domanda, tanto più siamo facilitati nell’intercettare la risposta. Se vuoi un suggerimento: comincia a riguardare la tua vita, a riguardare quando hai fatto esperienza di un tu che ha aperto il varco al Tu. Perché noi vediamo nei Vangeli che tante volte l’incontro con Gesù faceva aprire le persone a un’altra cosa. Vedevano un miracolo e dicevano: «Siamo grati che Dio…». Perché pensano a Dio se hanno incontrato solo un tu umano? Ci sono momenti della vita in cui quel tu porta qualcosa di così sovrabbondante che non lo rimandi al futuro, è talmente presente nell’esperienza che fai che sei facilitata a riconoscerlo. E questo è ciò di cui tante volte non ci rendiamo conto. Perché? Perché diamo per scontato tutto. Tante delle cose che ci raccontiamo ogni giorno – per esempio, come abbiamo appena ascoltato, lo stupore dei colleghi per una presenza diversa sul lavoro – documentano una sovrabbondanza che gli altri vedono, forse non arrivano immediatamente a riconoscere il Tu, ma non possono non riconoscere una diversità, che è il segno di questo Tu. Come il Mistero può dirsi, in un modo per cui possa essere riconoscibile nell’esperienza presente senza bisogno di salti mortali? Attraverso la sovrabbondanza che appare in un’esperienza umana. Ma spesso noi operiamo una riduzione già mentre ascoltiamo queste cose. E per questo dopo, quando ci troviamo davanti a una affermazione come quella del Tu con la maiuscola, ci sembra, come dice Giussani, una fiaba. Perciò avevo citato la sua frase: «Quando uno si alza al mattino, quando ha difficoltà o delusioni, ansie o contrattempi, l’immagine di un Altro [con la maiuscola] che accompagna [la vita] […], che scende fino a lui [così com’è] per restituirlo a se stesso, è come un sogno» (Alla ricerca del volto umano, op. cit., p. 27). Allora riconoscere il disagio è il primo passo, perché questo è il problema della fede, come hai detto tu. E questa è la 6 grande questione per cui siamo insieme: per aiutarci al riconoscimento di questo Tu. Che è la stessa cosa che esprime un’altra domanda che mi hanno fatto in molti: che cosa educa la memoria? Come mi diceva una universitaria qualche settimana fa: «Ho dovuto fermarmi e guardare quel che stava succedendo»; mi sembra un’espressione laica di ciò che siamo abituati a identificare (spesso archiviandola come un “già saputo”) con la parola «memoria». Fermarsi per vedere fino in fondo ciò che c’è dentro l’esperienza che facciamo, ai rapporti che abbiamo, alle cose che ci raccontiamo come testimonianza; fermarsi e guardare, senza sostituire questo guardare con il pensare astratto. No. Guardare quel che sta accadendo, come diceva la prima lettera che ho letto questa sera: prima non vedevo e adesso ci vedo. Così comincio a vedere quel che c’è, non me lo devo inventare né devo fare il triplo salto mortale per pensarlo. C’è! Ma tante volte mi sfugge. Per questo è necessario il lavoro della memoria: fermarsi e guardare. È questo il lavoro della memoria: fermarsi e guardare. Vi domando: voi quanto tempo date a questo lavoro? Chi si stupisce fermandosi a guardare? Senza questo lavoro tutto sparisce, le cose che ci vengono dette non incrementano la coscienza della concretezza di questo Tu. E quando arriva il momento della prova constatiamo che qualsiasi altra cosa ci appare più concreta di questo Tu. Ma io vi sfido a verificare se è vero questo, se qualsiasi altra cosa è più concreta di questo Tu! Pensate ai discepoli: qualsiasi altra cosa dell’esperienza umana normale del vivere era più concreta di quella diversità umana che vedevano quando si trovavano davanti a Gesù? Ma quella stessa diversità non la troviamo costantemente davanti a noi, tra di noi in tante occasioni? O è immaginazione? Sono un padre di quattro figli. L’ultima, di quattro anni, è arrivata quando avevo cinquant’anni, quindi un bel regalo. È stata per noi una sorpresa che ci ha spiazzato fin dall’inizio, che ci chiede ogni giorno fatica, ma che quotidianamente è un dono, sicuramente. In un giorno come al solito faticoso e pieno di varie preoccupazioni, la piccola chiede a mia moglie di giocare con lei. Mia moglie era occupata a fare altro; facendo uno sforzo per staccarsi da quel che stava facendo, si mette di fianco a lei a giocare pensando ai problemi che ci sono sempre in una famiglia di sei persone. A un certo punto, la piccolina dice: «Mamma, mi curi con la faccia felice?». Non è che si accontenti di qualsiasi cosa! Vedete? Questo è il punto. I bambini lo rintracciano al volo, altro che pupazzi senza testa! Da subito hanno il detector funzionante! Mia moglie, che si sentiva fino a quel momento in fondo con la coscienza a posto perché, nonostante tutto, riusciva a dare del tempo a tutti e anche alla più piccola, è rimasta spiazzata da quella domanda; come ci dici tu, ci ha subito decentrato e lasciato con la bocca aperta. E quella domanda, quella sera, ci ha cambiato, letteralmente, nel modo con cui stavamo con lei e stavamo anche con gli altri figli. La piccola aveva a modo suo espresso anche il mio bisogno e, io sono convinto, il bisogno di tutti, come ci dici tu. È proprio così: la testimonianza non è essere più buoni – soprattutto chi mi conosce sa che su questo fallisco sempre –, ma è essere più felici, o più lieti come direbbe in modo più corretto la tradizione cristiana. Questo mi fa anche capire che non è una cosa che dipende dal mio fare, ma è un essere, è un dono, io non riuscirei a farmi più felice neanche un minuto. Nasce da una sovrabbondanza, da qualcosa che viene prima. È un essere felici perché si riconosce un dono. È qualcosa di strutturale, è ciò che sono io. Non è garantita da sovrastrutture che facilitano il fare, ma che comunque non ti fanno più felice. Come ci stai dicendo in questi giorni, questo episodio ci ha fatto toccare con mano che la testimonianza nasce da una libertà che trova qualcosa di così affascinante da far venire la voglia di muoversi dal proprio torpore, dalla noia e anche dal sentirsi con la coscienza a posto. Nasce da un Tu che fa appassionare al proprio io, un Tu che rende affascinante il mio io prima di tutto a me stesso. Grazie. «Nasce da una sovrabbondanza». È questa sovrabbondanza che testimonia la presenza di un Altro, perché non possiamo non riconoscere che non ce la diamo noi, non è prodotta da noi. È un dono. E gli altri lo riconoscono. Mi raccontava una persona che uno dei suoi figli era andato a un convegno in America e, appena è arrivato, uno di lì gli ha detto: «Ma tu sei di CL?». «Sì, come lo sai?». «Perché siete sempre lieti». La gente non è che non intercetti subito questa diversità, questa sovrabbondanza, che non c’è, ovviamente, perché siamo più bravi, ma per una presenza che 7 documenta il Tu attraverso un modo di stare nel reale altrimenti impossibile. La gente che ci incontra «trova qualcosa di così affascinante da far venire la voglia di muoversi dal proprio torpore». È da questo che nasce la moralità. Viene la voglia di mettere le mani in pasta, di impegnarsi nelle cose, di cambiare. Inizio l’ultimo anno di università, e pian piano mi sto accorgendo di quanto possa essere un anno diverso a seconda di come mi pongo di fronte alla realtà. È proprio un periodo di transizione. Sto vedendo le mie amiche più care che si laureano e si sposano, e di colpo stanno venendo meno nella quotidianità i rapporti che prima erano presenti. Inoltre ho cominciato davvero a chiedermi cosa rende attuali e nuovi gesti a cui partecipo quasi di routine. Sono venuta alla Giornata d’inizio anno e ho provato un’invidia pazzesca per i protagonisti degli esempi che raccontavi, intravedevo un’eccezionalità che mi faceva desiderare una semplicità di cuore così. È iniziato così un lavoro nuovo e continuo sul testo pubblicato, proprio per capire più a fondo questa eccezionalità che dopo anni di movimento mi ha nuovamente pervasa. Potrei citare tutti i pezzi che sono stati significativi in tutti questi giorni, ma in particolare mi ha afferrata e provocata questo: «Quando ci complichiamo la vita e sentiamo il rapporto con la realtà come una violenza, non è […] perché tutto sia sbagliato o cattivo. No, no! Il problema è che manca il Tu, quel Tu che rende possibile che tutto – tutto! – diventi amico» (p. XI). Questa ricerca del Tu come punto centrale ha di fatto chiarito ciò che mi è chiesto, innescando in me il desiderio di vedere in modo carnale i segni della Sua presenza in ciò che c’è, con chi rimane in facoltà, con chi ho davanti. Mi sono sentita chiamata personalmente lì, come se Gesù ora volesse farmi camminare proprio lì. In questi giorni mi hanno presentato una nuova matricola che non conosceva il movimento e si è appena trasferita nella mia città. Abbiamo parlato a lungo e alla fine della chiacchierata l’ho invitata alla Scuola di comunità, perché sono rimasta colpita dal suo entusiasmo nel fare ogni cosa. Alla fine del gesto è venuta da me e mi ha detto: «Da qui non me ne voglio andare più, perché mi sento protagonista di una storia enorme». Ha deciso di seguirmi ovunque e ha iniziato con me la caritativa ed è la prima che si è iscritta alla Scuola di comunità perché è grata dell’incontro fatto. Ripensando a come ho iniziato l’anno, mi accorgo di come sia davvero più conveniente il metodo di Dio rispetto al mio. Lasciandomi un po’ andare alla Sua opera, ho riscoperto che Egli, al contrario di me, per rispondere alle mie domande e alle mie paure non alimenta i miei ragionamenti, ma impone la Sua grandezza attraverso dei fatti (come l’incontro con questa ragazza). Attraverso l’entusiasmo di questa ragazza ho rivisto l’entusiasmo di iniziare; attraverso i suoi occhi riscopro ogni giorno la grandezza della storia che ho incontrato, e di che aiuto è alla mia vita. Da qui sto capendo sempre di più il valore della testimonianza di cui parli tu. I tre punti indicati non li ho visti come regole attraverso cui convertire persone nuove dopo che le si incontra, ma come strumenti attraverso cui convertirci prima di tutto noi ed essere continuamente perturbati. Ed è solo per questo che è possibile incontrare e lasciarsi cambiare dall’ultimo che arriva. Grazie. Questo è il metodo di Dio, che ci fa incontrare una ragazza e ce la dona con questo entusiasmo: «Da qui non me ne voglio andare più»: e si coinvolge subito in tutto. Il cambiamento accade in lei proprio attraverso quel sussulto, quella scintilla che si è accesa in lei e che la cambia più di qualsiasi altra cosa. E tu leghi questo al metodo di Dio. Se soltanto facessimo attenzione a come agisce Dio! Con le tue sole forze non l’avresti convinta, neanche legandola. Invece il metodo di Dio, che a noi sembra troppo poco incidente, è il solo che cambia davvero la vita delle persone e genera la comunità cristiana. Come dicono gli Atti degli Apostoli: si incorporano nuovi membri alla comunità cristiana, cioè a questa amicizia che viviamo. Per questo capire il metodo ci facilita di più, perché altrimenti perdiamo quel che il Mistero ci dà. Perché, amica, quale altra cosa ti poteva dare di più il Mistero per incominciare questo anno particolare per te, se non una ragazza che ti sfidasse così, che diventasse testimone così per te? Qualche settimana fa ho conosciuto una donna anziana e malata. Sono andata a trovarla e mi ha detto: «Avevo proprio voglia di vederti, di parlarti, di sentirti, perché io non sto più pensando a 8 Dio, ogni tanto ci litigo». E poi mi dice: «Sai, io ho fatto tante cose nella vita». Allora io l’ho guardata un po’ così e m’ha detto: «Eh sì, sai, quando ero giovane io avevo dentro un desiderio di trasgressione, soprattutto sessuale, e quindi poi mi ingarbugliavo, e quindi ho fatto tante cose che non andavano bene, ho avuto anche degli aborti». A quel punto mi sono commossa davanti a lei, non riuscivo ad andare via – perché con me Dio non va via –, per cui mi sono avvicinata, ha allargato le braccia e io l’ho abbracciata. Mi ha detto: «Senti, tu sei l’unica con cui sono libera di parlare di queste cose». E ha aggiunto: «Ma come si fa a entrare in CL? Io ci vorrei entrare. E poi devi venire a cena, ti preparo una cosa che ti piace». Io lì per lì non ho risposto, non sapevo cosa dire. Due giorni fa mi ha telefonato e mi ha detto: «Volevo sentirti, mi mancavi. Quando torni?». Mi sono veramente commossa, perché questa è la domanda della vita alla mia vita: c’è uno nella vita senza cui tu non puoi vivere? Tanto che devi chiedere: «Quando torni?», perché, se non torni, non è vita. «Quando torni?». Tutto lì! Tutta la moralità della persona è ridestata da un rapporto. Perfino una persona con una storia alle spalle così – che penseresti di non poter smuovere, nemmeno con la gru – può essere mossa “dentro” da un incontro che apre di nuovo una strada. Questi esempi così estremi ci fanno capire che anche in situazioni dove tutto crolla, dove neanche si sente il rimorso più elementare, si può riaprire la partita. Ma come si riapre la partita? Dobbiamo guardare come la riapre Dio. Perché a volte, cercando di riaprirla coi nostri metodi, roviniamo tutto. Per questo alla Giornata d’inizio anno parlavamo della preminenza dell’Avvenimento rispetto all’etica; e non perché vogliamo fare fuori l’etica, ma perché l’etica nasce dall’Avvenimento. E infatti, quando manca l’Avvenimento, viene meno tutta l’etica. Non diventiamo più morali perché ci facciamo più richiami morali, occorre che accada. «Quando torni?». L’abbiamo ascoltato questa sera in tanti esempi: il desiderio di muoversi, il desiderio di cambiare, da dove nasce? Da dove nasce in ciascuno di noi? Ciascuno deve guardare in sé che cosa lo fa mettere in moto, da dove gli viene la voglia di dare un passo diverso alla vita. Perché solo se questa origine accade, può nascere la moralità, come ci ha insegnato sempre don Giussani. La moralità nasce davanti alla Presenza. La moralità nasce dal fascino di sentirsi abbracciati così, come Zaccheo o Matteo. O Pietro, che dopo aver sbagliato si sente domandare: «Ma mi ami tu?». Questa è una sfida prima di tutto alla nostra mentalità: da dove pensiamo di poter partire per cambiare, noi e gli altri? Solo se ci fermiamo e guardiamo come fa il Mistero: «Tu pensi di cambiare a modo tuo? Ti sfido. Non è che Io non conosca qual è la situazione dell’uomo, non è che Io non conosca te. Se ho fatto come ho fatto, è perché questo metodo è l’unica modalità di far risorgere l’io, anche dalle proprie ceneri». La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 18 novembre alle ore 21. A partire da adesso iniziamo a lavorare su Riconoscere Cristo, che è la seconda lezione degli Esercizi della Fraternità. Questo non vuol dire accantonare tanti esempi che ci possono aiutare a capire anche quel testo. Cominciamo dalla lezione di don Giussani perché tante delle cose che ci siamo detti alla Giornata d’inizio anno c’entrano, come vedrete, con quello che lì si dice. Ci aiuterà a capire con più chiarezza quello che ci siamo detti alla Giornata d’inizio anno: qual è il metodo di Dio e qual è la modalità con cui io posso rintracciarlo: la corrispondenza, che ci consente di riconoscere la presenza del Mistero. Perché? Perché mobilita la totalità dell’io, perché rigenera il mio io. Perché in questo momento storico in cui vediamo crollare tutto, l’unica cosa che non crolla sono questi “ii” che vediamo, che sono la testimonianza della Sua opera in mezzo a noi e che risvegliano altri. E così comincia a cambiare di nuovo la realtà. Per questo continuiamo sulla stessa traccia, sulla stessa falsa riga che stiamo percorrendo affrontando ora Riconoscere Cristo. Per la prossima volta leggeremo da pagina 63 a pagina 75 del libretto degli Esercizi. Nei prossimi mesi il Libro del mese sarà La bellezza disarmata. Questo libro è un tentativo di offrire le ragioni dell’esperienza che stiamo vivendo davanti a tante sfide, come ho avuto modo di 9 dire, per esempio, in un’intervista al Tg2 Mizar, che potete vedere sul sito di CL. Il 5 novembre faremo la presentazione del volume a Roma. Parteciperanno con me il cardinale Tauran e Luciano Violante. Coordinerà Roberto Fontolan. Sarà possibile seguire l’evento in diretta streaming dai nostri siti. Inizio alle ore 18.30. Per promuovere o organizzare incontri pubblici di presentazione del libro nelle vostre città il punto di riferimento è l’associazione italiana dei Centri Culturali. Quest’anno la campagna TendeAVSI ha per titolo: “Profughi e noi. Tutti sulla stessa strada”. Vogliamo raccogliere l’appello di papa Francesco che ci invita ad accettare la sfida della storia che stiamo vivendo e ad accogliere i profughi. Vediamo già lo slancio di tante persone e comunità che vogliono prendere iniziativa. La campagna Tende è uno strumento e una proposta per coinvolgerci in questo. La campagna di Avsi intende sostenere alcuni progetti, in particolare in Sud Sudan, Iraq, Siria, Libano, Giordania e in Italia. Avsi ha realizzato anche un nuovo e importante servizio, che si chiama Network#ProfughiEnoi. Siccome il tema profughi è complesso e delicato, perché ci sono anche questioni giuridiche che non sono di nostra competenza, con questa iniziativa Avsi si propone di collaborare con realtà e soggetti che a livello diverso sono già attivi sul territorio nazionale sul tema profughi e indirizzare a questa realtà sia chi desidera capire di più cosa sta succedendo, sia chi chiede suggerimento per aiutare in modo concreto. Sul sito Avsi trovate in modo più dettagliato le informazioni di questa iniziativa. Oltre alla TendeAVSI, vi ricordo che il movimento indica in particolare come gesto di caritativa la Colletta alimentare, che questo anno si terrà sabato 28 novembre. Da ultimo vi ricordo che è attivo un indirizzo mail a cui potete inviare domande e brevi interventi sulla Scuola di comunità. Vi chiedo di mandarli entro la domenica sera precedente il nostro incontro, in modo tale di avere il tempo di leggerli. L’indirizzo mail è: sdccarron@comunioneliberazione.org e vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità. Diciamo una preghiera per il Papa e per il Sinodo della famiglia che si sta concludendo. Veni Sancte Spiritus
Testo della canzone (traduzione italiana) 
Questa bella canzone del gruppo newyorkese riprende l'episodio evangelico della guarigione del cieco nato (Vangelo di Giovanni, cap. 11). I farisei accusano Cristodi essere un peccatore, perché compie miracoli in giorno di sabato, cioè in contraddizione con una norma da loro considerata intoccabile. Il miracolato viene interrogato e diffidato. Ma egli ha ben chiara una cosa: che adesso ci vede. Questa evidenza non è sottoponibile a discussione, non è negabile. Prima era cieco; ha incontrato un uomo straordinario e adesso ci vede. 
Discutere l'evidenza di questo segno è irragionevole. È ideologico: cioè è una violenza fatta alla realtà in nome di un'idea, di un preconcetto.
È un segno che rimanda ad un altro. Il cieco guarito cerca perciò di rincontrare e vedere colui che lo ha guarito. 
 
 •The things that I see
Le cose che vedo
Mi fanno ridere come un bambino
Le cose che vedo
Mi fanno piangere come un uomo
Le cose che vedo:
posso guardare a ciò che Lui mi ha dato, ed Egli mi mostrerà
ancora di più di ciò che vedo. 

Proprio l'altro giorno
Ho udito una voce nelle mie tenebre
Mi ha mandato altrove
Con del fango sulla mia faccia
Udivo la gente dire
Che egli è un pazzo e un disperato,
Finchè uno spruzzo d'acqua ha lavato via da me le tenebre! 

Cercando di spiegarmi
A gente col volto arrabbiato
Di parlare a loro chiaramente…
Ma loro non ascoltano ciò che dico
E mi dicono ancora
"Lui è un peccatore e un imprudente"
Ma c'è solo una cosa che io posso dire… 

Egli venne di nuovo vicino a me
E questa volta potevo vederlo;
mi disse che mi aveva cercato
E mi disse di credere
Io chiesi: "In cosa devo credere?"
Mi disse: "Continua a credere in me".

• 2
E se domani 
io non potessi 
rivedere te, 
mettiamo il caso 
che ti sentissi stanco di me 
quello che basta all'altra gente 
non mi darà 
nemmeno l'ombra 
della perduta felicità. 
E se domani 
e sottolineo "se" 
all'improvviso perdessi te 
avrei perduto il mondo intero 
non solo te

"Balla" e lo spiraglio di una certezza


Andrea Balarin è morto il 20 ottobre in un incidente. Sabato scorso, c'erano duemila persone per salutare, all'oratorio del Villaggio Giovi, un amico che «ci sarà sempre più amico»
Sabato 24 ottobre, all’oratorio della parrocchia del Sacro Cuore di Limbiate, c’erano più di duemila persone, tra amici, parenti, colleghi ed ex compagni di università, per i funerali di Andrea Balarin, morto lo scorso martedì in un incidente stradale.

«”Balla” ci è amico e ci sarà sempre più amico: ci testimonia che il valore della nostra vita è tutto in questo istante, nel rapporto con Cristo». Sono le parole di don Pierluigi Banna, molto vicino ad Andrea e alla sua famiglia, che sottolinea come il dolore, all’apparenza insormontabile, sia proprio il luogo dove «si impone lo spiraglio di una certezza». E a dare prova di ciò sono l’esistenza del giovane di Limbiate, che «dava la vita per Gesù», accompagnata dalle testimonianze dei familiari, da mamma Luciana, che gli ha dedicato un canto, alla sorella Maria Grazia: «È paradossale, ma in questo momento mi sento amata come mai mi è capitato nella vita».



Il testo dell'omelia di don Pierluigi

La morte di un caro amico, la morte di un figlio, la morte di un fratello ci riempie di un dolore che quasi sembra lasciarci senza fiato. Sembra che non ci sia altro spazio se non per il solo dolore, perché fino a martedì c’era e poi improvvisamente non c’è più.

Eppure questo dolore non è del tutto cieco, privo di direzione, muto di domande, senza un giudizio. Il dolore, la nostalgia, il senso di vuoto, se non sono guardati in faccia, in questo momento, rischiano di riempire l’orizzonte dei nostri giorni oggi, apparendo come qualcosa di totalizzante e insormontabile; ma poi, un domani svaniranno, portandosi via il ricordo del nostro amico Balla, lasciandolo nella memoria del passato, nell’ingiusta dimenticanza cui soccombe la storia umana.
Ma c’è un’alternativa. Non siamo destinati a essere sopraffatti dal dolore oggi e a commemorare domani. Proprio l’atrocità e l’ingiustizia del dolore possono non lasciarci in silenzio e farci gridare che non può essere finito tutto così, che qui non c’è tutto. Per come Balla ha vissuto, per quello che abbiamo visto e vissuto con lui, nel buio del dolore s’impone lo spiraglio di una certezza: non può finire tutto qui. Questo giudizio è sostenuto da tutte quelle volte in cui abbiamo riconosciuto in Balla quella simpatia di Pietro che dà un passaggio a Gesù sulla sua barca. Quella simpatia che riconosce di non aver preso nulla per tutta la notte, che gli fa buttare le reti sulla parola di Gesù e poi pronta, piena di stupore e commozione, si getta in ginocchio davanti a Lui.

Ognuno di noi deve scegliere, se farsi sopraffare dal sentimento del dolore o dare credito a questo giudizio, per quanto embrionale, che afferma ciò che Balla ha cercato tutta la vita, anche quando sbagliava. Noi possiamo sfidare il dolore chiedendoci: ma per chi ha dato la vita Andrea? Se noi lo avessimo fermato per strada, anche se – mettiamo il caso – pieno di confusione, e gli avessimo chiesto: «Ma tu, Balla, per chi stai dando la vita?», lui ci avrebbe subito risposto: «Per Gesù!». Ne sono sicuro.

Qualche mese fa, infatti, scriveva a una sua amica: «Sono tutto scalcagnato, ma posso amare con una potenza che mi supera da tutte le parti! Metti che morissi ora, ritrovandomi davanti a Gesù per il giudizio sulla mia vita. Lui mi chiederebbe: “Balla, mi ami tu?”. Io potrei rispondergli: “Guarda, Gesù, io ho amato le persone che mi hai concesso di amare e di questo ti ringrazio. Di più non ho potuto”. Lui prenderebbe il timbro con su scritto ‘salvo’ e lo schiaccerebbe sulla mia pratica, poi mi direbbe: “Un caso di immedesimazione imperfetta. Sommato ai peccati veniali fanno diecimila anni di purgatorio. Va’, quando uscirai sarò lì ad aspettarti”. Quello che non potevo immaginare, però, è stata la scoperta di Colui che mi concede questa potenza. Non ho mai percepito il Mistero così chiaramente, così fuor di ragionamento, non ho mai dialogato così direttamente con Lui come in questi due giorni. Altro che concatenazione di argomenti! Lui è qui, dietro la piega dei miei pensieri. Allora la mattina, a Messa, durante la Comunione, ho voluto pregare per questo. Mi è venuta in mente solo una richiesta da farGli, che non so neanche se esiste in italiano: “Siici!”. Che commozione sapere che c’è Uno che mi vuole più bene di quanto io ne riesca a volere, e che ha voluto darmi un assaggio di cosa può fare di me!».

Questo giudizio che lui ha dato sulla sua vita, messa di fronte al Mistero, come la vita di Pietro pieno di stupore e di commozione di fronte a Gesù, è la più grande testimonianza che Balla ci ha dato per stare di fronte al dolore della sua mancanza, al dolore della sua morte.

In questo suo giudizio “siici!”, Balla ci è amico e ci sarà amico: non lo commemoreremo e basta, ma lo sentiremo, nel tempo, sempre più amico. Lui ci testimonia che il valore della nostra vita è tutto nell’istante vissuto con una densità vocazionale. A volte Balla s’interrogava su cosa avrebbe fatto della sua vita, su quale donna avrebbe sposato, su come avrebbe potuto amare veramente, su come avrebbe aiutato in futuro i suoi fratelli e la sua famiglia, su quale lavoro fosse appropriato per lui. Forse c’erano ancora tante cose da capire, tante non chiare, da sistemare. E invece no. La sua morte improvvisa richiama tutti noi che una vita non è compiuta in base alla realizzazione dei nostri progetti (il lavoro, la vocazione, la famiglia), ma la vita è compiuta se in ogni istante – al mattino quando mi alzo dal letto, di fronte alla tua faccia, come di fronte ad una macchina che mi arriva addosso – io, colto di sorpresa dalla domanda: «Ma tu, per chi vivi?», posso rispondere, dicendo: «Siici, tu, Signore». La vita compiuta è la vita di uno che nell’istante che oggi e domani gli tocca vivere, risponderebbe come Balla: «Siici»; o come Pietro, che ha detto: «Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene».

Ciao, caro amico! Adesso tu come Pietro, «tirata la tua barca a terra, hai lasciato tutto, e lo hai seguito». Adesso che lo stai seguendo, mentre gli parli dei tuoi fratelli, dei tuoi genitori e di tutti tuoi amici, per prepararci in cielo un posto dove ci rincontreremo tutti – e sarà una grande festa! – prega per noi, perché ogni giorno possiamo, come te, dire il nostro sì, il nostro “siici”, dentro le circostanze più banali e impreviste per cui il Signore ci farà passare.
Limbiate, duemila persone per dare l’ultimo saluto ad Andrea Balarin morto in moto a Nova
 Discorso della mamma: Il Signore mi ha onorata in questi 29 anni di essere la madre di questo figlio particolare. Ho saputo che non poteva essere solo mio fin dall'inizio quando, a due ore dal parto il Signore se lo voleva già prendere, ma ha ascoltato il nostro grido e ce l'ha lasciato quasi trentanni. L'abbiamo condiviso col Mistero. Ma non era fatto per stare qui, tutto nella sua vita tendeva ad altro, non gli stava niente nelle mani, gli cadeva tutto, noi gli stavamo stretti, ma ha allietato la nostra vita con la capacità sua particolare di arrivare sempre in profondità nel leggere la realtà facendoci stupire ogni giorno che l'abbiamo potuto avere tra noi e spesso facendo esplodere una ironia ed umorismo che mi salvavano per giorni e giorni. L'abbiamo condiviso ma era Suo, ce l'ha lasciato ma per allietarci, ce l'ha tolto, sia benedetto Dio che sa il nostro bene. Sia ringraziato Dio per la compagnia di amici in cui ha incontrato Cristo vivo che ha reso perfetto e compiuto il suo desiderio. A loro come figli miei voglio offrire come dono questo canto nato per ragazzini e composto dal nostro amico Paolo senza sapere a cosa sarebbe servito: per me ogni giorno di attesa di lui sarà come mille anni, vivrò questi giorni dilatati cercando i segni del suo intervento in casa e fuori, lui che per me era Cristo da amare. Ho ancora tanto da amare ogni giorno cercando il Volto di Colui che ha reso finalmente felice e compiuto il mio “condiviso con Lui” Andrea. Dio nostra giustizia! Fa' che il nostro sacrificio conduca tanti altri a conoscerTi.
Discorso della sorella Maria Grazia al funerale di Andrea 24 ottobre 2015 Vi ringrazio uno ad uno per la vostra presenza e per le vostre preghiere che in questo momento che ci stanno sostenendo. Volevo dirvi solo due parole su ciò che in questi giorni il Signore mi sta mostrando. Quando mi hanno chiesto se volevo vedere Andrea in obitorio ho risposto di no. Quello ormai è un corpo. Io non voglio rinchiuderlo in un ricordo, io voglio farne memoria, guardando la realtà con gli occhi spalancati. Ecco guardatevi ora: questo è Andrea, questo è ciò che mi sta mostrando ora Cristo. È presente nelle amicizie che si riallacciano, che si approfondiscono, negli amici che si stanno prendendo cura di me. E come posso quindi non dire di sì alla proposta che mi sta facendo Dio, se i primi piccoli frutti sono questi. Sono circondata dalla bellezza del vostro amore. È paradossale, ma in questo momento mi sento amata come mai mi è capitato nella vita. A voi amici più cari, ora più che mai, vi chiedo di stare vicini a me e alla mia famiglia, per sostenerci e aiutarci nella vita quotidiana. Non piangete lacrime amare! Desiderate, invece, ardentemente anche per voi stessi ciò che Andrea ha avuto la Grazia di ottenere: il Paradiso. Grazie di cuore. 
In questi ultimi giorni dopo la sua morte abbiamo vissuto la compagnia di un mondo di suoi amici che ha riempito la chiesa tanto da non riuscire ad entrare. Questo ci ha fatto comprendere, come qualcuno di loro ci ha detto, che la sua vita è stata missionaria per tutti i rapporti che ha saputo costruire intorno a sè. Nella immaginetta che vogliamo distribuire vogliamo scrivere “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Abbiamo sempre verificato la purezza del suo cuore, l'intelligenza profondissima che arrivava a cogliere i lati più umoristici della vita, la sensibilità verso chiunque lo incontrasse, un animo cristallino. Abbiamo ricevuto un grande regalo che è durato 30 anni. Siamo smarriti ma certi che Andrea è con i santi e che ci aiuterà in questa vita così dura ma piena della Grazia di Dio. Attendiamo il momento del funerale come una festa per lui, un po' strana per noi, sapendo che la Chiesa che è madre saprà accogliere tutto il nostro dolore che offriamo perché il mondo conosca Cristo, unico senso di ogni vita. Luciana
DISCORSO del fratello LUCA AL FUNERALE DI ANDREA 24 OTTOBRE 2015
Dal rapporto con mio fratello Andrea ho imparato a crescere, ho imparato a ridere e a scherzare.
Ho anche capito in questi giorni che oltre a volere molto bene a me, voleva un sacco di bene a tutta la mia famiglia e a tutti i suoi amici. Mi ha colpito molto vedere quanta gente c'era mercoledì sera alla messa e qui oggi. Quindi io lo ricorderò sempre come una persona buona, capace di volere bene in un modo che mi ha sempre stupito e che mi stupisce ancora adesso.
Sento la mancanza del suo umorismo e soprattutto della sua presenza ma gli amici ci sono stati molto vicini e questo ha aiutato molto sia me che la mia famiglia.
Perciò ringrazio tanto tutte le persone che ci sono state vicine in questi giorni difficili grazie alle quali io e la mia famiglia continuiamo a ricevere il bene di cui abbiamo bisogno.



domenica 25 ottobre 2015

Papa a Messa chiusura Sinodo: è tempo di misericordia e inclusione

La Messa a San Pietro a conclusione del Sinodo sulla famiglia - RV
"E' tempo di misericordia". Il Papa mette in guardia da “una fede che non sa radicarsi nella vita della gente”.


 



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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
XXX Domenica del Tempo Ordinario, 25 ottobre 2015


Tutte e tre le Letture di questa domenica ci presentano la compassione di Dio, la sua paternità, che si rivela definitivamente in Gesù.
Il profeta Geremia, in pieno disastro nazionale, mentre il popolo è deportato dai nemici, annuncia che «il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele» (31,7). E perché lo ha fatto? Perché Lui è Padre (cfr v. 9); e come Padre si prende cura dei suoi figli, li accompagna nel cammino, sostiene «il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente» (31,8). La sua paternità apre loro una via accessibile, una via di consolazione dopo tante lacrime e tante amarezze. Se il popolo resta fedele, se persevera a cercare Dio anche in terra straniera, Dio cambierà la sua prigionia in libertà, la sua solitudine in comunione: ciò che oggi il popolo semina nelle lacrime, domani lo raccoglierà nella gioia (cfr Sal 125,6).
Con il Salmo abbiamo manifestato anche noi la gioia che è frutto della salvezza del Signore: «La nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia» (v. 2). Il credente è una persona che ha sperimentato l’azione salvifica di Dio nella propria vita. E noi, Pastori, abbiamo sperimentato che cosa significhi seminare con fatica, a volte nelle lacrime, e gioire per la grazia di un raccolto che sempre va oltre le nostre forze e le nostre capacità.
Il brano della Lettera agli Ebrei ci ha presentato la compassione di Gesù. Anche Lui “si è rivestito di debolezza” (cfr 5,2), per sentire compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Gesù è il sommo sacerdote grande, santo, innocente, ma al tempo stesso è il sommo sacerdote che ha preso parte alle nostre debolezze ed è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato (cfr 4,15). Per questo è il mediatore della nuova e definitiva alleanza che ci dà la salvezza.
Il Vangelo odierno ci collega direttamente alla prima Lettura: come il popolo d’Israele è stato liberato grazie alla paternità di Dio, così Bartimeo è stato liberato grazie alla compassione di Gesù. Gesù è appena uscito da Gerico. Nonostante abbia appena iniziato il cammino più importante, quello verso Gerusalemme, si ferma ancora per rispondere al grido di Bartimeo. Si lascia toccare dalla sua richiesta, si fa coinvolgere dalla sua situazione. Non si accontenta di fargli l’elemosina, ma vuole incontrarlo di persona. Non gli dà né indicazioni né risposte, ma pone una domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51). Potrebbe sembrare una richiesta inutile: che cosa potrebbe desiderare un cieco se non la vista? Eppure, con questo interrogativo fatto “a tu per tu”, diretto ma rispettoso, Gesù mostra di voler ascoltare le nostre necessità. Desidera con ciascuno di noi un colloquio fatto di vita, di situazioni reali, che nulla escluda davanti a Dio. Dopo la guarigione il Signore dice a quell’uomo: «La tua fede ti ha salvato» (v. 52). È bello vedere come Cristo ammira la fede di Bartimeo, fidandosi di lui. Lui crede in noi, più di quanto noi crediamo in noi stessi.
C’è un particolare interessante. Gesù chiede ai suoi discepoli di andare a chiamare Bartimeo. Essi si rivolgono al cieco usando due espressioni, che solo Gesù utilizza nel resto del Vangelo. In primo luogo gli dicono: “Coraggio!”, con una parola che letteralmente significa “abbi fiducia, fatti animo!”. In effetti, solo l’incontro con Gesù dà all’uomo la forza per affrontare le situazioni più gravi. La seconda espressione è “Alzati!”, come Gesù aveva detto a tanti malati, prendendoli per mano e risanandoli. I suoi non fanno altro che ripetere le parole incoraggianti e liberatorie di Gesù, conducendo direttamente a Lui, senza prediche. A questo sono chiamati i discepoli di Gesù, anche oggi, specialmente oggi: a porre l’uomo a contatto con la Misericordia compassionevole che salva. Quando il grido dell’umanità diventa, come in Bartimeo, ancora più forte, non c’è altra risposta che fare nostre le parole di Gesù e soprattutto imitare il suo cuore. Le situazioni di miseria e di conflitto sono per Dio occasioni di misericordia. Oggi è tempo di misericordia!
Ci sono però alcune tentazioni per chi segue Gesù. Il Vangelo di oggi ne evidenzia almeno due. Nessuno dei discepoli si ferma, come fa Gesù. Continuano a camminare, vanno avanti come se nulla fosse. Se Bartimeo è cieco, essi sono sordi: il suo problema non è il loro problema. Può essere il nostro rischio: di fronte ai continui problemi, meglio andare avanti, senza lasciarci disturbare. In questo modo, come quei discepoli, stiamo con Gesù, ma non pensiamo come Gesù. Si sta nel suo gruppo, ma si smarrisce l’apertura del cuore, si perdono la meraviglia, la gratitudine e l’entusiasmo e si rischia di diventare “abitudinari della grazia”. Possiamo parlare di Lui e lavorare per Lui, ma vivere lontani dal suo cuore, che è proteso verso chi è ferito. Questa è la tentazione: una “spiritualità del miraggio”: possiamo camminare attraverso i deserti dell’umanità senza vedere quello che realmente c’è, bensì quello che vorremmo vedere noi; siamo capaci di costruire visioni del mondo, ma non accettiamo quello che il Signore ci mette davanti agli occhi. Una fede che non sa radicarsi nella vita della gente rimane arida e, anziché oasi, crea altri deserti.
C’è una seconda tentazione, quella di cadere in una “fede da tabella”. Possiamo camminare con il popolo di Dio, ma abbiamo già la nostra tabella di marcia, dove tutto rientra: sappiamo dove andare e quanto tempo metterci; tutti devono rispettare i nostri ritmi e ogni inconveniente ci disturba. Rischiamo di diventare come quei “molti” del Vangelo che perdono la pazienza e rimproverano Bartimeo. Poco prima avevano rimproverato i bambini (cfr 10,13), ora il mendicante cieco: chi dà fastidio o non è all’altezza è da escludere. Gesù invece vuole includere, soprattutto chi è tenuto ai margini e grida a Lui. Costoro, come Bartimeo, hanno fede, perché sapersi bisognosi di salvezza è il miglior modo per incontrare Gesù.
E alla fine Bartimeo si mette a seguire Gesù lungo la strada (cfr v. 52). Non solo riacquista la vista, ma si unisce alla comunità di coloro che camminano con Gesù. Carissimi Fratelli sinodali, noi abbiamo camminato insieme. Vi ringrazio per la strada che abbiamo condiviso con lo sguardo rivolto al Signore e ai fratelli, nella ricerca dei sentieri che il Vangelo indica al nostro tempo per annunciare il mistero di amore della famiglia. Proseguiamo il cammino che il Signore desidera. Chiediamo a Lui uno sguardo guarito e salvato, che sa diffondere luce, perché ricorda lo splendore che lo ha illuminato. Senza farci mai offuscare dal pessimismo e dal peccato, cerchiamo e vediamo la gloria di Dio, che risplende nell’uomo vivente.



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sabato 17 ottobre 2015

Francesco: Chiesa viva la bellezza del "camminare insieme"

Index

COMMEMORAZIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DELL'ISTITUZIONE DEL SINODO DEI VESCOVI
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Aula Paolo VI
Sabato, 17 ottobre 2015


Beatitudini, Eminenze, Eccellenze, Fratelli e Sorelle,
mentre è in pieno svolgimento l’Assemblea Generale Ordinaria, commemorare il cinquantesimo anniversario dell'istituzione del Sinodo dei Vescovi è per noi tutti motivo di gioia, di lode e di ringraziamento al Signore. Dal Concilio Vaticano II all'attuale Assemblea, abbiamo sperimentato in modo via via più intenso la necessità e la bellezza di "camminare insieme".
In tale lieta circostanza desidero rivolgere un cordiale saluto a Sua Eminenza il Cardinale Lorenzo Baldisseri, Segretario Generale, con il Sotto-Segretario Sua Eccellenza Monsignor Fabio Fabene, gli Officiali, i Consultori e gli altri Collaboratori della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, quelli nascosti, che fanno il lavoro di ogni giorno fino a tarda serata. Insieme a loro, saluto e ringrazio della loro presenza i Padri sinodali e gli altri Partecipanti all'Assemblea in corso, nonché tutti i presenti in quest'Aula.
In questo momento vogliamo anche ricordare coloro che, nel corso di cinquant'anni, hanno lavorato al servizio del Sinodo, a cominciare dai Segretari Generali che si sono succeduti: i Cardinali Władysław Rubin, Jozef Tomko, Jan Pieter Schotte e l'Arcivescovo Nikola Eterović. Approfitto di tale occasione per esprimere di cuore la mia gratitudine a quanti, vivi o defunti, hanno contribuito con un impegno generoso e competente allo svolgimento dell'attività sinodale.
Fin dall'inizio del mio ministero come Vescovo di Roma ho inteso valorizzare il Sinodo, che costituisce una delle eredità più preziose dell'ultima assise conciliare[1]. Per il Beato Paolo VI, il Sinodo dei Vescovi doveva riproporre l'immagine del Concilio ecumenico e rifletterne lo spirito e il metodo[2]. Lo stesso Pontefice prospettava che l'organismo sinodale «col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato»[3]. A lui faceva eco, vent'anni più tardi, San Giovanni Paolo II, allorché affermava che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente»[4]. Infine, nel 2006, Benedetto XVI approvava alcune variazioni all'Ordo Synodi Episcoporumanche alla luce delle disposizioni del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese orientalipromulgati nel frattempo[5].
Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino dellasinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio.
***
Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola "Sinodo". Camminare insieme – Laici, Pastori, Vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica.
Dopo aver ribadito che il Popolo di Dio è costituito da tutti i battezzati chiamati a «formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo»[6], il Concilio Vaticano II proclama che «la totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo (cfr 1 Gv 2,20.27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il Popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi Fedeli laici" mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale»[7]. Qual famoso infallibile “in credendo”.
Nell'esortazione apostolica Evangelii gaudium ho sottolineato come «il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”»[8], aggiungendo che «ciascun Battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del Popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni»[9]. Ilsensus fidei impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens ed Ecclesia discens, giacché anche il Gregge possiede un proprio "fiuto" per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa[10].
È stata questa convinzione a guidarmi quando ho auspicato che il Popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia, come si fa e si è fatto di solito con ogni “Lineamenta”. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce[11]? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno a delle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire.
Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell'ascolto, nella consapevolezza che ascoltare «è più che sentire»[12]. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l'uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo «Spirito della verità» (Gv 14,17), per conoscere ciò che Egli «dice alle Chiese» (Ap 2,7).
Il Sinodo dei Vescovi è il punto di convergenza di questo dinamismo di ascolto condotto a tutti i livelli della vita della Chiesa. Il cammino sinodale inizia ascoltando il Popolo, che «pure partecipa alla funzione profetica di Cristo»[13], secondo un principio caro alla Chiesa del primo millennio: «Quod omnes tangit ab omnibus tractari debet». Il cammino del Sinodo prosegue ascoltando i Pastori. Attraverso i Padri sinodali, i Vescovi agiscono come autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa, che devono saper attentamente distinguere dai flussi spesso mutevoli dell'opinione pubblica. Alla vigilia del Sinodo dello scorso anno affermavo: «Dallo Spirito Santo per i Padri sinodali chiediamo, innanzitutto, il dono dell'ascolto: ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido del Popolo; ascolto del Popolo, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama»[14]. Infine, il cammino sinodale culmina nell'ascolto del Vescovo di Roma, chiamato a pronunciarsi come «Pastore e Dottore di tutti i cristiani»[15]: non a partire dalle sue personali convinzioni, ma come supremo testimone della fides totius Ecclesiae, «garante dell'ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa»[16].
Il fatto che il Sinodo agisca sempre cum Petro et sub Petro - dunque non solo cum Petro, ma anche sub Petro - non è una limitazione della libertà, ma una garanzia dell'unità. Infatti il Papa è, per volontà del Signore, «il perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità tanto dei Vescovi quanto della moltitudine dei Fedeli»[17]. A ciò si collega il concetto di «ierarchica communio», adoperato dal Concilio Vaticano II: i Vescovi sono congiunti con il Vescovo di Roma dal vincolo della comunione episcopale (cum Petro) e sono al tempo stesso gerarchicamente sottoposti a lui quale Capo del Collegio (sub Petro)[18].
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La sinodalità, come dimensione costitutiva della Chiesa, ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico. Se capiamo che, come dice san Giovanni Crisostomo, «Chiesa e Sinodo sono sinonimi»[19] - perché la Chiesa non è altro che il "camminare insieme" del Gregge di Dio sui sentieri della storia incontro a Cristo Signore - capiamo pure che al suo interno nessuno può essere "elevato" al di sopra degli altri. Al contrario, nella Chiesa è necessario che qualcuno "si abbassi" per mettersi al servizio dei fratelli lungo il cammino.
Gesù ha costituito la Chiesa ponendo al suo vertice il Collegio apostolico, nel quale l'apostolo Pietro è la «roccia» (cfr Mt 16,18), colui che deve «confermare» i fratelli nella fede (cfr Lc 22,32). Ma in questa Chiesa, come in una piramide capovolta, il vertice si trova al di sotto della base. Per questo coloro che esercitano l'autorità si chiamano "ministri": perché, secondo il significato originario della parola, sono i più piccoli tra tutti. È servendo il Popolo di Dio che ciascun Vescovo diviene, per la porzione del Gregge a lui affidata, vicarius Christi[20], vicario di quel Gesù che nell'ultima cena si è chinato a lavare i piedi degli apostoli (cfr Gv13,1-15). E, in un simile orizzonte, lo stesso Successore di Pietro altri non è che il servus servorum Dei[21].
Non dimentichiamolo mai! Per i discepoli di Gesù, ieri oggi e sempre, l'unica autorità è l'autorità del servizio, l'unico potere è il potere della croce, secondo le parole del Maestro: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Mt 20,25-27). Tra voi non sarà così: in quest'espressione raggiungiamo il cuore stesso del mistero della Chiesa – “tra voi non sarà così” – e riceviamo la luce necessaria per comprendere il servizio gerarchico.
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In una Chiesa sinodale, il Sinodo dei Vescovi è solo la più evidente manifestazione di un dinamismo di comunione che ispira tutte le decisioni ecclesiali.
Il primo livello di esercizio della sinodalità si realizza nelle Chiese particolari. Dopo aver richiamato la nobile istituzione del Sinodo diocesano, nel quale Presbiteri e Laici sono chiamati a collaborare con il Vescovo per il bene di tutta la comunità ecclesiale[22], ilCodice di diritto canonico dedica ampio spazio a quelli che si è soliti chiamare gli "organismi di comunione" della Chiesa particolare: il Consiglio presbiterale, il Collegio dei Consultori, il Capitolo dei Canonici e il Consiglio pastorale[23]. Soltanto nella misura in cui questi organismi rimangono connessi col "basso" e partono dalla gente, dai problemi di ogni giorno, può incominciare a prendere forma una Chiesa sinodale: tali strumenti, che qualche volta procedono con stanchezza, devono essere valorizzati come occasione di ascolto e condivisione.
Il secondo livello è quello delle Province e delle Regioni Ecclesiastiche, dei Concili Particolari e in modo speciale delle Conferenze Episcopali[24]. Dobbiamo riflettere per realizzare ancor più, attraverso questi organismi, le istanze intermedie della collegialità, magari integrando e aggiornando alcuni aspetti dell'antico ordinamento ecclesiastico. L'auspicio del Concilio che tali organismi possano contribuire ad accrescere lo spirito della collegialità episcopale non si è ancora pienamente realizzato. Siamo a metà cammino, a parte del cammino. In una Chiesa sinodale, come ho già affermato, «non è opportuno che il Papa sostituisca gli Episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare "decentralizzazione"»[25].
L'ultimo livello è quello della Chiesa universale. Qui il Sinodo dei Vescovi, rappresentando l'episcopato cattolico, diventa espressione della collegialità episcopale all'interno di una Chiesa tutta sinodale[26]. Due parole diverse: “collegialità episcopale” e “Chiesa tutta sinodale”. Esso manifesta la collegialitas affectiva, la quale può pure divenire in alcune circostanze "effettiva", che con­giunge i Vescovi fra loro e con il Papa nella sollecitudine per il Popolo di Dio[27].
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L'impegno a edificare una Chiesa sinodale – missione alla quale tutti siamo chiamati, ciascuno nel ruolo che il Signore gli affida – è gravido di implicazioni ecumeniche. Per questa ragione, parlando a una delegazione del patriarcato di Costantinopoli, ho recentemente ribadito la convinzione che «l'attento esame di come si articolano nella vita della Chiesa il principio della sinodalità ed il servizio di colui che presiede offrirà un contributo significativo al progresso delle relazioni tra le nostre Chiese»[28].
Sono persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l'esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce. Il Papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell'apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell'amore tutte le Chiese[29].
Mentre ribadisco la necessità e l'urgenza di pensare a «una conversione del papato»[30], volentieri ripeto le parole del mio predecessore il Papa Giovanni Paolo II: «Quale Vescovo di Roma so bene [...] che la comunione piena e visibile di tutte le comunità, nelle quali in virtù della fedeltà di Dio abita il suo Spirito, è il desiderio ardente di Cristo. Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova»[31].
Il nostro sguardo si allarga anche all'umanità. Una Chiesa sinodale è come vessillo innalzato tra le nazioni (cfr Is 11,12) in un mondo che – pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell'amministrazione della cosa pubblica – consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle mani avide di ristretti gruppi di potere. Come Chiesa che "cammina insieme" agli uomini, partecipe dei travagli della storia, coltiviamo il sogno che la riscoperta della dignità inviolabile dei popoli e della funzione di servizio dell'autorità potranno aiutare anche la società civile a edificarsi ne
lla giustizia e nella fraternità, generando un mondo più bello e più degno dell'uomo per le generazioni che verranno dopo di noi[32]. Grazie.